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    Il lento e il veloce: i tempi dell’anima


    Educare l’anima /3

    Raffaele Mantegazza

    (NPG 2006-03-30)


    Non fare nulla come un animale...
    (Guy de Maupassant)

    Un sopravvalutato predicatore televisivo qualche mese fa lanciò uno di quei tormentoni del quale il nostro catodico paese ogni tanto si ammala, inaugurando la distinzione tra oggetti, personaggi, situazioni «rock» e «lenti», dove la prima parola definiva la positività, la seconda il negativo, il superato, l’obsoleto. Magari un ascolto attento di Yesterday o di Stairway to Heaven avrebbe potuto convincere il sopravvalutato cantante del fatto che nella lentezza c’è almeno altrettanta poesia che nel «rock». Ma la cosa interessante è che questa predica aveva il vantaggio di essere perfettamente all’altezza dei tempi (il che non significa affatto che fosse giusta). Oggi si deve correre: non basta connettersi ad internet con le linee telefoniche, occorre prima l’ISDN, poi l’ADSL, poi qualcosa di ancora più rapido (per poi perdere tre ore a capirci qualcosa nella selva dei links a siti perlopiù inutili), da pochi giorni la Bugatti ha messo in commercio un’automobile da strada che raggiunge i 400 kmh, ecc. Sembra che l’imperativo della nostra epoca sia correre a tutti i costi, perché chi si ferma è perduto.
    Certo, a volte occorre davvero correre: quando c’è un bambino da salvare si maledice la lentezza dell’eliambulanza che lo trasporta in sala di rianimazione nella lontana città. Ma è davvero questione di velocità? O piuttosto del fatto che decine di ospedali locali e di Pronto Soccorso sono stati chiusi per lasciare spazio ai policlinici dei capoluoghi? Saremmo davvero costretti a correre tutto il giorno se l’urbanistica delle nostre città e periferie fosse pensata e progettata a misura di uomo, di donna e di bambino?
    Finché il mondo sarà pensato e organizzato a misura di merce e non di collettività umana, la fretta sarà di casa, perché di fretta deve andare chi vuole stupire il mercato con nuovi prodotti: tutto questo colpisce anche settori che dovrebbero essere al riparo dal cancro della velocità dissennata. Ad esempio, tutti sanno che le notizie non si aggiornano certo al ritmo dei susseguirsi dei TG o degli aggiornamenti dei vari Teletext, ma proliferano i servizi che ti mandano un SMS per informarti delle ultime nuove (le stesse che potresti comodamente e con lo stesso effetto leggere il giorno dopo su un quotidiano qualsiasi). Per fare un altro esempio, molte scuole sembrano rincorrere le ultime mode tecnologiche a proposito di Internet o delle altre nuove tecnologie spendendo denaro pubblico in risorse che saranno utilizzate al massimo dal docente di informatica o dal migliore tra i ragazzi di quinta superiore.
    Andare piano, mangiare piano, muoversi piano: si tratta di scelte élitarie; occorre ricordarlo e sottolinearlo; oggi si può permettere di rallentare chi non deve lottare per il pane o per la vita, chi ha un tetto sicuro e una cena garantita. Ma dal momento che proprio i rappresentanti di queste classi sociali sembrano essere coloro che corrono di più, è proprio dall’interno di una posizione di privilegio che sarà possibile scalzare la moda della velocità. Perché i tempi dell’anima sono lenti: «il tempo significa amore; a ciò a cui concedo tempo, concedo amore; la violenza è rapida» [1]; l’anima ha dei capillari che si lasciano intridere solo lentamente dagli oggetti che conosce e che ama; si dà il tempo della conoscenza e della contaminazione, dell’esposizione paziente e tenace al contagio dell’altro. Ogni soluzione raffazzonata e affrettata è sdegnata dall’anima incorruttibile che vuole andare al fondo delle cose godendosi ogni momento di questo sprofondare; nessuno impara nulla nell’immediatezza, se non la violenza del colpo subito, che può suscitare immediatamente vendetta ma ha bisogno di tempo per trasformarsi in giustizia e, al limite, in perdono. Non si rende giustizia ai giovani di oggi se non ci si rende conto di quanto la loro vita sia scandita dall’imperativo di correre, fare in fretta, bruciare le tappe, eliminare gli intermezzi, dall’asilo nido alla laurea passando per la catechesi, per la squadra di calcio per il gruppo rock (appunto).
    Ma «parlare di tempo significa anche parlare di morte»; [2] e questa fuga precipitosa in avanti, questo desiderio di correre e di fare in fretta che fa rassomigliare sempre più una stazione della metropolitana nell’ora di punta a una fuga di profughi di qualche guerra, non sono altro in realtà che una fuga all’indietro, un tentativo disperato di distanziarsi dalla certezza della morte. Assumere coscienza della morte e vivere nella dimensione della creaturalità permette di considerare il nostro tempo vitale come intriso di vita e di morte, e dunque di non accelerare il passo per fare «più cose possibili» cercando di sfuggire alla morte ma piuttosto di concentrarci sull’attimo presente per presentarlo, tornito e perfezionato, come un’opera d’arte di fronte alla sua azione dissolutrice.
    Educare l’anima significa allora ricercare il tempo: trovandone soprattutto le dimensioni di profondità e di qualità; verticalizzare (nel profondo e verso l’alto) quel tempo che oggi è orizzontalizzato, come una pianura da conquistare con le proprie truppe. Rinunciare alla conquista significa trovare un tempo della condivisione, che è in tutti e per tutti un tempo nel quale muoversi con la calma del flaneur: «Passeggiare, andare a zonzo, flaner, erano un passatempo dell’individuo privato, un’eredità del passeggio feudale del secolo decimonono» [3]. Scoprire la città nei suoi angoli riposti e oscuri è possibile solo al passo del flaneur: la velocità dell’automobile non ci mostra la delicatezza di certi scorci come lo squallore di certe periferie uniformando tutto in uno sfondo che passa e va. Per questo, allenando lo sguardo a cogliere le differenze qualitative, la lentezza è anche politica.
    L’educazione dell’anima è allora anche educazione alla pigrizia e all’ozio, «unico frammento del paradiso che ci sia rimasto» [4]. Un ozio non inteso come rinuncia all’azione, ma come concentrazione per una azione davvero inedita, un ozio che ci dà la forza e la speranza di cambiare i tempi di lavoro e di studio, di vita e di consumo. Per portare l’anima a poter godere di quest’ozio occorre paradossalmente accelerare la redenzione, il che non significa però uniformarsi al ritmo del cosiddetto progresso soprattutto inteso nella sua declinazione industriale e post-industriale. Occorre pensare e praticare una forma di accelerazione che dal punto di vista del cosiddetto progresso sia intesa come rallentamento o comunque come sviamento dalla strada intrapresa: quella che Walter Benjamin definiva «tirare il freno a mano sulla locomotiva». Occorrono gesti urgenti e accelerati che però portino al rallentamento della direzione presa dal progresso scientifico e tecnologico: che è quella dell’ulteriore sfruttamento della vita e del senso. In questo rallentamento che è accelerazione verso il vero tempo buono e pieno di vita, l’anima scopre lo «spazio materno dell’ozio» (ib.) nel quale «gli oggetti della natura appaiono come una parte dell’io, le tensioni tra io e non-io dileguano completamente» (ib.); uno spazio che si può cogliere solamente rallentando e fermandosi, uno «spazio al di là degli affanni» (ib.), fatto di «silenzio e solitudine delle grandi altezze» (ib.), spazio che ospita un tempo nuovo, dilatato e poroso, nel quale «le tensioni e le contraddizioni (...) non scompaiono» (ib.), ma mostrano all’uomo e alla donna il volto buono di una conciliazione finalmente possibile, di un lento ma inesorabile approcciarsi all’utopia.

    NOTE

    [1] Max Horkheimer, Studi di filosofia della società, Torino, Einaudi, 1972, pag. 190.
    [2] Riccardo Massa, Le tecniche e i corpi, Milano, Unicopli, 2003, pag. 217.
    [3] Theodor W. Adorno, Minima Moralia. Meditazioni della vita offesa, Torino, Einaudi, 1969, pag. 191.
    [4] Ernst Bloch, Il principio speranza, Milano, Garzanti, 2005, pag. 1051.


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