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    Il fondamento ultimo dell’impegno sociale cristiano: il Regno di Dio come convivenza sociale alternativa


    Dottrina Sociale della Chiesa /2 – Primo tema

    Luis A. Gallo

    (NPG 2006-03-20)


    Su che cosa si basa in ultima istanza l’impegno sociale cristiano? Quale è la roccia sulla quale ultimamente poggia? La risposta è una sola: sulla proposta lanciata da Gesù di Nazareth, che la fede riconosce come Parola definitiva di Dio al mondo (Gv 1,14; DV 2.4).
    Si tratta di un’affermazione alquanto generica che cercheremo di rendere più concreta ed esplicita nel seguito dell’esposizione.

    La centralità del Regno di Dio nell’attività di Gesù di Nazareth

    I vangeli presentano Gesù di Nazareth come un uomo divorato da un fuoco interiore (Lc 12,49). In lui tutto è come infiammato da quel fuoco che brucia nel suo cuore. È un uomo che, come lascia intravedere la parabola di Mt 13,44, ha venduto tutto «per comprare il campo» in cui ha trovato un tesoro.
    Basta leggere con un po’ di attenzione i dati forniti dai vangeli, specialmente dei sinottici, per concludere che il fuoco che divora l’uomo di Nazareth e che costantemente lo spinge ad agire, è l’ansia per l’attuazione della grande speranza radicata nel cuore del suo popolo.
    Conoscitore della tradizione dell’Antico Testamento che deve aver assimilato sin dalla più tenera età, egli dà chiari segni di essere profondamente convinto di una cosa: il tempo dell’intervento definitivo di Dio in favore del suo popolo e dell’umanità intera è arrivato, e lui stesso è l’inviato da Dio per attuarlo.
    In altre parole, più vicine a quelle bibliche: sono arrivati «gli ultimi giorni» e Dio, per mezzo del suo inviato, il Messia, attuerà la sua grande Promessa di salvezza fatta sin dai primi giorni della creazione (Gn 3,15), e ripetuta incessantemente lungo la storia del popolo eletto a partire da Abramo (Gn 12,3), e specialmente per bocca dei Profeti (Is 2,2-4; 11,6-9...).
    L’oggetto della speranza del popolo, enunciato in mille modi differenti sin dalla più remota antichità, era il regno di Dio (o «dei cieli», come preferisce dire, per rispetto del nome santo di Dio, l’evangelista Matteo).
    Marco descrive l’inizio dell’attività pubblica di Gesù affermando che egli diede inizio ad essa con questo proclama: «Il regno di Dio è vicino, convertitevi e credete a questa buona novella» (Mc 1,14-15). In modo analogo si esprimono gli altri due evangelisti sinottici (Mt 4,17; Lc 4,16-19).

    Significato del Regno di Dio alla luce dell’attività di Gesù

    Cosa abbia inteso Gesù di Nazareth per «regno di Dio» è un tema che è stato oggetto di attento studio e anche di discussione da parte dei biblisti e degli storici. Comunque sia, una cosa risulta innegabile: non si può cogliere adeguatamente il suo pensiero al riguardo se non si tiene conto da una parte di ciò che succedeva allora in mezzo al suo popolo, e dall’altra della sua presa di posizione personale.

    Un popolo in attesa di un intervento divino

    Gesù nacque in un contesto peculiare, quello del popolo d’Israele, e più precisamente del popolo d’Israele in un determinato momento storico. La convinzione che «il tempo si era compiuto» (Mc 1,14), e che l’arrivo degli ultimi giorni predetti dagli oracoli profetici era imminente, si annidava allora in molti cuori profondamente credenti. Con sfumature differenti, certamente, a seconda dei diversi gruppi esistenti.
    Per i farisei l’importante era creare le condizioni per l’attuazione di tale attesa mediante la fedele ed esatta osservanza della Legge di Mosè e delle prescrizioni elaborate dai maestri più illustri a partire da essa. Per essi, ciò che impediva il tanto agognato arrivo del regno di Dio, portatore della pace e della felicità definitive, era precisamente la violazione della Legge, il non adempimento della volontà di Dio espressa in essa.
    Un gruppo molto più ridotto era quello dei sadducei, in buona parte appartenenti all’alta classe sacerdotale. Anch’essi si impegnavano devotamente nell’osservanza della Legge, benché con certe differenze dai farisei. D’altronde, secondo le informazioni dei vangeli, non pochi di essi si erano lasciati impigliare nelle reti del potere e del denaro. In realtà, ai sadducei in genere tornava utile che il dominio romano su Israele continuasse, perché tale continuità assicurava loro la situazione di privilegio in cui si trovavano. Un messia che avesse voluto cambiare la loro sorte in nome di un preteso arrivo del regno di Dio sarebbe stato poco gradito presso di essi, come di fatto avvenne quando Gesù si presentò con le sue proposte innovative. Per loro, il regno di Dio coincideva di fatto con la «pax romana».
    Chi viceversa voleva accelerare ad ogni costo l’arrivo degli ultimi tempi perché Dio potesse stabilire il suo regno erano quelli che qualche anno più tardi verranno chiamati gli zeloti. Essi non tolleravano che il popolo santo di Dio fosse sotto il dominio di uno straniero il quale, in quanto tale, veniva considerato come peccatore e impuro. Era questo il motivo per cui provocavano ribellioni e insurrezioni popolari contro i romani. Purtroppo finivano quasi sempre in bagni di sangue. La violenza con cui agivano provocava la reazione imperiale, che non risparmiava mezzi per reprimerla.
    Molto diversa era la maniera di attendere la venuta del regno di Dio e del suo Messia nel gruppo degli esseni. Convinti che solo una vita pura e santa, lontana da ogni contatto con i peccatori, potesse preparare tale venuta, si ritiravano dalla convivenza sociale, in certi casi anche geograficamente, per creare una specie di società alternativa e darsi ad una pratica stretta della santità di vita secondo la Legge. Le frequenti purificazioni corporali che praticavano erano un segno della santità da loro perseguita. Gli scritti di Qumran, nei pressi del Mar Morto, scoperti per caso nel 1948, sono testimoni di tutto questo.
    Ma forse chi aspettava con maggiore ansia la venuta di Dio a regnare, cambiando finalmente la sua dura condizione di vita, era il popolo semplice e umile che sopportava il peso di una difficile situazione economica, aggravata spesso dal senso di colpa nato dal fatto di non osservare la Legge, che l’interpretazione dei maestri rendeva più di una volta di non facile comprensione. Non gli restava altra speranza che quella di un cambiamento radicale operato da Dio stesso tramite il suo inviato. Ciò spiega anche perché frequentemente andava dietro ai diversi pretesi messia che spuntavano ogni tanto, e soffriva delle amare delusioni quando tali salvatori erano smascherati ed eliminati.
    Poco prima di Gesù apparve in Israele una figura singolare: Giovanni il Battista. Anche il suo intervento si inquadrò nella cornice dell’attesa della venuta del regno di Dio, e lo fece annunziando ugualmente la sua imminente venuta (Mt 3,1-2). Ma i tratti con cui lo caratterizzò differivano da quelli con cui Gesù ne tratteggerà il profilo. Il suo intervento suscitò la reazione del re Erode, che dopo averlo fatto mettere in carcere lo fece decapitare, probabilmente per motivi di sicurezza pubblica oltreché per le critiche che gli rivolgeva a causa del suo matrimonio con la moglie del fratello.
    In mezzo a questa grande attesa Gesù di Nazareth si lanciò nell’attività pubblica proclamando apertamente: «Il regno di Dio è imminente, convertitevi e credete a questa bella notizia» (Mc 1,14-15).

    L’attività di Gesù, via per cogliere la sua concezione del Regno di Dio

    In nessun momento i vangeli forniscono una definizione concettuale del regno di Dio proveniente da Gesù. A differenza della cultura ellenistica, la sua, di tipo semitico-giudaico, lo portava a esprimersi piuttosto attraverso l’azione o, comunque, mediante un linguaggio simbolico e narrativo (parabole). Perciò è soprattutto esaminando il suo agire, tanto nell’ambito individuale quanto in quello sociale, che si può ricavare il denso significato di ciò che ardeva nella sua mente e nel suo cuore. Ci interesserà particolarmente il secondo di questi ambiti, dato l’obiettivo che ci siamo prefissati, ma per completezza conviene fare un cenno anche al primo.
    Ci sono tre tipi di interventi in favore di singoli individui che hanno il primato, tra tanti altri, nei vangeli: le guarigioni corporali, gli esorcismi e l’accoglienza dei peccatori accompagnata dal perdono dei loro peccati. Si tratta di interventi di segno chiaramente messianico, nei quali gli evangelisti vedono attuate le predizioni profetiche (Is 26,19; 29,18s; 35,5s; 61,1; ecc.).
    In tutte quante si possono cogliere con chiarezza due cose: il suo ardente desiderio di restituire benessere, in tutta l’estensione della parola, alle persone con cui veniva a contatto, e la sua predilezione per coloro che stavano peggio, sia corporalmente, sia psichicamente o spiritualmente. Era come se, mediante ciò che faceva, dicesse che il regno di Dio implicava che il male, in qualunque delle sue forme, doveva venir sradicato dalle persone, e al suo posto invece doveva irrompere il bene. O, in altre parole, che la morte, totale o parziale, doveva venir espulsa dal corpo, dalla psiche e dal cuore degli uomini e delle donne, e al suo posto doveva subentrare la vita.
    Ogni suo intervento in quest’ambito era come una piccola risurrezione, e perciò anche come una freccia che indicava la direzione verso la quale puntava la venuta del regno, anticipandolo parzialmente. Come se egli dicesse: il regno di Dio «è come questo», ma più grande e più stabile; è già qui, ma non ancora nella sua pienezza.
    Ma Gesù non agiva solo in favore dei singoli; egli teneva conto del fatto, attestato dall’esperienza, che il benessere che voleva per ciascuno in particolare, dipendeva anche, in buona parte, dai rapporti con gli altri. Dai racconti evangelici si può evincere facilmente la sua consapevolezza che la convivenza umana è fonte di felicità e di infelicità, di vita e di morte.
    Lo si vede particolarmente dal modo in cui affronta le dolorose divisioni che attraversano la convivenza sociale nella quale svolge la sua attività. Davanti ad esse egli, interessato massimamente al compimento della speranza del suo popolo mediante la venuta del regno di Dio, assume degli atteggiamenti estremamente chiari e precisi, e agisce in un modo molto deciso. Particolarmente quando le divisioni coinvolgono gruppi disuguali dei quali uno, quello più debole, risulta notevolmente perdente.
    Le divisioni che attraversavano la convivenza collettiva nel suo tempo erano principalmente tre: tra giusti e peccatori, tra ricchi-potenti e poveri, e tra uomini e donne. Nei confronti di tutte e tre Gesù prende chiara posizione, e lo fa cercando un loro superamento in ordine al regno proclamato, ma tenendo presente soprattutto la parte più debole e sofferente.
    Non ci vuole molto sforzo per concludere, da una lettura attenta dei vangeli, che nell’ambito della prima divisione, nella quale coloro che si consideravano gente perbene (giusti) davanti a Dio si permettevano di disprezzare i peccatori (Lc 18,9) e li dichiaravano automaticamente esclusi dalla partecipazione nel regno (Gv 7,49), Gesù si mette dalla parte dei peccatori, accogliendoli con sollecitudine e misericordia nel nome di Dio, e aprendo i loro cuori a una speranza nuova (Mt 9,10-13; Lc 7,36-50; 15,1-2).
    Qualcosa di simile si coglie nelle altri due divisioni. Gesù le affronta cercando la loro risoluzione e il loro superamento perché Dio possa regnare, e lo fa optando, rispettivamente, in favore dei poveri e semplici (Mt 5,3; Lc 6,20), e in favore delle donne (Mt 19,4; Gv 4,1-27).

    Le differenti dimensioni del Regno di Dio

    Come si può notare, la concezione del regno di Dio che si evince dal modo di agire di Gesù nei vangeli è estremamente ricca e complessa.
    Il regno è per lui:
    - una realtà interiore o spirituale, che ha a che fare con l’intimità più profonda di ogni essere umano, ma ha a che fare anche con la sua corporalità;
    - una realtà che avrà il suo compimento pieno nel futuro, ma che è già in certo qual modo presente adesso;
    - è individuale, in quanto interessa ognuno degli esseri umani senza eccezione, ma ha a che vedere anche con la convivenza sociale in tutte le sue dimensioni;
    - è relazionale, nel senso che interessa i rapporti esistenti tra gli individui e i gruppi umani, ma si riferisce anche alle strutture in cui tali rapporti si cristallizzano;
    - è un dono che Dio fa liberamente agli uomini per la loro vita e felicità, ma è anche un compito affidato alla loro responsabilità.
    In una parola, il regno di Dio interessa l’intera umanità, in tutte le sue componenti e dimensioni, ha a che vedere con la totalità dell’esistenza umana presente e futura. Significa, in concreto, la vittoria di Dio su ogni forma di male e di morte presente nel mondo.
    L’evangelista Giovanni esprime la stessa cosa con una frase sommamente densa e carica di significato: «Io sono venuto perché abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10).
    Gesù, come si vede nei vangeli, è come divorato da questo fuoco, che in fondo esprime l’unico grande desiderio di Dio stesso, il Dio Vivente, il quale vuole regnare trionfando pienamente sulla morte in tutte le sue manifestazioni. Perciò propugna una convivenza sociale alternativa a quella esistente, una convivenza che sia vivificante, e non mortificante, per tutti e per ognuno.

    La forma sociale di vita della prima comunità di Gerusalemme come attuazione del progetto del Regno di Dio

    Dopo la morte e risurrezione di Gesù i discepoli, riavutisi dallo choc del suo apparente fallimento grazie alla forza dello Spirito, tornarono a radunarsi nel suo nome e a organizzarsi secondo la proposta che avevano colto dalle sue parole e azioni. A una certa distanza dagli avvenimenti, il libro degli Atti degli Apostoli racconta le principali vicissitudini di quella prima comunità credente. Ne descrive la forma di vita e il modo in cui si andò organizzando e funzionando.

    L’ideale abbozzato

    Come fanno notare gli studiosi del testo, la descrizione di quella esperienza iniziale è narrata in maniera alquanto idealizzata, tratteggiando più la meta alla quale dovrebbe tendere ogni comunità che volesse seguire la proposta di Gesù, che ciò che di fatto viveva la prima comunità di Gerusalemme (cf J. Dupont, L’union entre les premiers chrétiens dan les Actes des Apôtres, en Nouvelle Revue Théologique 91 [1969] 897-915).
    L’interesse dell’Autore del libro è quello di far vedere come la risurrezione di Gesù abbia dato inizio alla fine dei tempi, e cioè all’epoca dell’adempimento della Promessa di Dio sin dall’antichità, e quindi l’attuazione piena del suo regno. Pertanto in realtà ciò che egli descrive è la comunità o convivenza matura degli ultimi tempi, una comunità o convivenza nella quale l’attuazione di tale progetto è giunta a compimento. È questa la ragione per cui, nella serie di piccoli sommari che introduce i primi capitoli (At 2,42-46; 4,32-35; 5,42), tende ad idealizzare la vita comunitaria di quella comunità ecclesiale. Per averne una conferma è sufficiente confrontare quanto in essi si dice con ciò che si racconta nei capitoli seguenti.
    Comunque, proprio perché sono carichi di un senso ideale, tali sommari sono utili per delineare le tracce che deve seguire ogni comunità che voglia vivere in conformità con il suo «dover essere» alla luce di quanto propose Gesù.
    Il sommario secondo dice:

    «La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune [...]. Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno» (At 4,32.34-35).

    Le diverse implicanze di una convivenza ideale

    Il testo appena citato è una esplicazione di uno dei quattro pilastri sui quali poggia la comunità (At 2,42): quello della comunione fraterna. Ne mette in evidenza alcune dimensioni fondamentali.

    * Il rapporto tra le persone.
    Dato che la comunità in questione era composta da credenti provenienti dal mondo giudaico e dal mondo greco, l’Autore ha voluto esprimere la stessa idea in una maniera consona alle due sensibilità culturali con la frase «aveva un cuore solo e un’anima sola». Il «cuore», infatti, era per i giudei ciò che «l’anima» era per i greci: la dimensione più profonda della persona, ciò che costituisce il suo mistero più intimo.
    Affermare che coloro che componevano la comunità avevano «un cuor solo e un’anima sola» equivaleva a dire che essi attuavano l’ideale greco dell’amicizia. Logicamente, a un livello molto più profondo di quello dei greci, perché ispirati e fondati nella fede in Gesù. Infatti, secondo i greci che scrissero sul tema, «è proprio degli amici avere un’anima sola» (Aristotele, Etica Nicomachea VIII,11: 1159b, 31). Ossia, essi sono così profondamente uniti dall’interno di loro stessi, che arrivano a fondersi in qualche modo in una sola interiorità. Sono come «due corpi con una sola anima» (S. Gregorio di Nazianzo). L’Autore degli Atti fa riferimento a tale ideale greco e lo traduce, per il suoi lettori di cultura ebraica, con l’espressione semita «un solo cuore», che è il suo equivalente.

    * Il rapporto con i beni materiali.
    Un altro punto fatto risaltare dagli studiosi del testo è l’importanza della frase del v. 34: «Nessuno infatti tra loro era bisognoso». Questa frase, che si trova per la prima volta in Dt 15,4 in un contesto normativo riguardante l’anno giubilare, era andata acquistando un senso profetico lungo la storia del popolo dell’Antico Testamento. Si era andata convertendo in una promessa per gli ultimi tempi.
    Nell’adoperarla nella sua narrazione, l’Autore degli Atti torna ad evidenziare il fatto che la comunità da lui descritta è l’adempimento dell’ideale di pienezza umana anche dal punto di vista del rapporto delle persone con i beni materiali. Infatti, di esse si dice che nessuno pativa per mancanza del necessario. E il mezzo per ottenere l’attuazione di tale ideale era quello della messa in comune dei beni:

    «Nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune [...]. Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno» (vv.32.34).

    Il testo non intende affrontare la questione del diritto di proprietà privata, un problema che in quanto tale si poneva allora in termini che si porrà molto acutamente nei tempi più vicini a noi, come si avrà occasione di vedere. Qui si tratta piuttosto del fatto che la comunione tra le persone, di cui abbiamo detto, deve dare anche origine ad una comunione di beni. E di una comunione di beni che renda possibile il superamento della mancanza dei medesimi, dal momento che «ad ognuno viene dato [da ciò che c’è] secondo il suo bisogno». Viene quindi evidenziato un modo tipico di rapportarsi con i beni materiali: quello di subordinarli alla comunione reale tra le persone.
    Qualcosa del genere avevano enunciato i greci nell’antichità: «È proprio degli amici avere tutto in comune» (Aristotele, Etica Nicomachea VIII,11: 1159b,31).
    Anche da questo punto di vista la comunità dei credenti in Gesù morto e risorto, secondo il testo che stiamo analizzando, attuava l’ideale greco dell’amicizia. Pur se a un livello molto più profondo e radicato in motivi molto più elevati, quali erano quelli che proponeva la fede in lui.

    * Le strutture.
    Il testo analizzato non parla espressamente delle strutture in cui si cristallizzava la comunione fraterna tra le persone e con i beni; ci sono tuttavia nel resto del libro degli Atti degli elementi che permettono di intuire la direzione in cui si andava.
    Uno di essi, molto illuminante, è quello di At 6,1-6:

    «In quei giorni, mentre aumentava il numero dei discepoli, sorse un malcontento fra gli ellenisti verso gli Ebrei, perché venivano trascurate le loro vedove nella distribuzione quotidiana. Allora i Dodici convocarono l’intero gruppo dei discepoli e dissero: ‘Non è giusto che noi trascuriamo la parola di Dio per il servizio delle mense. Cercate dunque, fratelli, tra di voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di saggezza, ai quali affideremo quest’incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della parola’. Piacque questa proposta a tutto il gruppo ed elessero Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, Filippo, Pròcoro, Nicànore, Timòne, Parmenàs e Nicola, un proselito di Antiochia. Li presentarono quindi agli apostoli i quali, dopo aver pregato, imposero loro le mani».

    Come si vede, la narrazione si apre quasi come contraddicendo quanto era stato raccontato anteriormente. Dice infatti che «sorse un malcontento fra gli ellenisti verso gli Ebrei perché venivano trascurate le loro vedove nella distribuzione quotidiana». Il che significa che precisamente le vedove, una categoria emblematica di persone dal punto di vista del bisogno, secondo la tradizione biblica (Sap 2,10; Is 10,2; Tob 1,8; ecc.), pativano privazione perché la comunità le trascurava. Le lamentele erano fondate: si contraddiceva così una delle principali componenti della convivenza sopra menzionate.
    La circostanza offrì l’occasione alla comunità per creare una struttura che ovviasse il problema. Gli Apostoli, che la presiedevano, dissero all’assemblea radunata: «Cercate dunque, fratelli, tra di voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di saggezza, ai quali affideremo quest’incarico» (v.3). E così nacque l’istituzione dei sette uomini destinati al servizio delle mense.
    Risulta pure illuminante il metodo adoperato per far fronte al problema sorto: la soluzione del conflitto non venne imposta dall’alto, per semplice decisione degli Apostoli, ma si arrivò ad essa attraverso il dialogo: «Piacque questa proposta a tutto il gruppo ed elessero Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, Filippo, Pròcoro, Nicànore, Timòne, Parmenàs e Nicola, un proselito di Antiochia. Li presentarono quindi agli apostoli i quali, dopo aver pregato, imposero loro le mani» (vv.5-6).

    Conclusione

    L’impegno sociale cristiano ha quindi nella proposta di Gesù in ordine al Regno di Dio, particolarmente nel suo risvolto sociale, e nella sua attuazione da parte della prima comunità ecclesiale di Gerusalemme, il proprio fondamento ultimo. Il recente «Compendio della Dottrina sociale della Chiesa» lo ribadisce con queste precise parole: «La missione della Chiesa è quella di annunciare e comunicare la salvezza realizzata in Gesù Cristo, che egli chiama ‘Regno di Dio’ (Mc 1,15)» (n. 49).
    Appellandosi a tale fondamento da una parte, e tenendo presenti le circostanze storiche concrete in cui le tocca vivere ed agire dall’altra, la comunità cristiana di tutti i tempi può fondare il suo impegno sociale su una roccia solida, senza lasciarsi «sballottare dalle onde e portare qua e là da qualsiasi vento di dottrina», come dice S. Paolo (Ef 4,14), e allo stesso tempo senza attaccarsi nostalgicamente a delle attuazioni caduche.


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