Educare l'anima /5
Raffaele Mantegazza
(NPG 06-05-55)
Perché non è un scherzo
sapere continuare
(Francesco Guccini)
C’è una scienza delle emozioni: sembrerà strano e forse inaccettabile a chi fa delle emozioni il fulcro del suo discorso pseudo-pedagogico, trattandole come misteriosi moti metafisici che sfuggono a qualsiasi classificazione e quantificazione, utilizzandole per vendere l’ultimo prodotto a base di storie commoventi e affetti strappati all’intimità, ma le emozioni sono state per almeno un secolo oggetto di studio scientifico e di analisi precisa e verificabile. Non vogliamo dire che la scienza abbia detto la parola definitiva a proposito delle emozioni, né che tutto nel campo affettivo ed emotivo sia riducibile al numero e alla misura; ma oggi non sappiamo quale posizione costituisca il pericolo più grave per il pensiero pedagogico e per le pratiche educative, se il positivismo estremista e totalizzante che vuole quantificare tutti i moti dell’animo, o lo spontaneismo da apprendisti stregoni che gioca sulle emozioni umane senza avere una minima competenza, con il risultato di scatenare gravi crisi nei soggetti in formazione e di lasciarli senza nessuna arma per risolverle. Partire dalle emozioni non significa fermarsi alle emozioni: altrimenti chiunque sapesse emozionarci potrebbe essere il nostro educatore. La psicoanalisi ci ha insegnato la lunghezza e la fatica del lavoro sulle emozioni, e lo stesso Freud aveva ben chiaro come non ci si dovesse emozionare quando si lavorava sulle emozioni, anzi come un distacco apparentemente freddo costituisse lo schermo difensivo non solo per l’analista ma anche e soprattutto per il paziente
Le emozioni sono un terreno minato: se non si è in grado di trattarle in modo rigoroso e serio, se non si possiedono gli strumenti per un reale trattamento pedagogico delle emozioni, tanto meglio lasciar perdere: perché è facile far piangere i partecipanti a un corso, facendo loro disegnare la madre o il padre, facendo loro rivivere i traumi dell’infanzia, infilando il coltello nei loro conflitti edipici o nelle loro pene matrimoniali, facendo loro raccontare il momento più brutto della loro vita: e poi? Dopo questo pastiche tra narrazione e psicoterapia, che cosa ce ne facciamo di questo diluvio emozionale? Una volta che siamo stati bene/male insieme, che abbiamo riso e pianto sulle nostre vite narrate e rievocate, che cosa ci resta? Qual è il guadagno formativo: un metodo, un concetto, una forma di analisi riproducibile sui nostri allievi, una tecnica?
Lavorare pedagogicamente sulle emozioni dell’anima significa allora portarle in una dimensione che è quella del concetto e della parola: l’educatore o l’educatrice hanno il compito di una alfabetizzazione affettiva che significa insegnare che le emozioni hanno un nome, che in quel nome è implicito il trattamento educativo delle stesse, e che imparare a distinguerle e nominarle è operazione quanto mai utile, addirittura fondamentale per una buona crescita.
A questo proposito proviamo ad applicare la ragione a due emozioni dell’anima: il coraggio e la paura, parole che portano con sé il concetto di eroismo ma che rimangono spesso in una incompiutezza semantica che permette di applicarle a tutto e al contrario di tutto. Morire da eroi, per esempio, sembra la massima espressione di coraggio: ma l’eroe muore perché si colloca su un ponte, un luogo di passaggio da un’epoca all’altra. La morte eroica rischia di essere la peggiore delle morti, quasi la morte di un ponte più che di un soggetto: non è allora l’eroe a scegliere la morte ma piuttosto la morte a scegliere l’eroe come passaggio, come apertura di nuove ere. Dunque l’eroe è paradossalmente poco individuo, poco soggetto, poco anima: «Come potrebbe divenire anima? Anima vuol dire uscire dalla chiusura di se stessi, ma come potrebbe il ‘sé’ uscire? Chi potrebbe chiamarlo? Egli è sordo. Che cosa potrebbe attrarlo fuori? Egli è cieco. Che cosa potrebbe intraprendere là fuori? Egli è muto. Vive totalmente rivolto all’interno» [1]. Per l’eroe scegliere la morte non significa né fare della propria vita un testo da interpretare per le future generazioni né gettarsi oltre l’ostacolo con cuore da leone: significa soltanto non avere alternativa che, in solitudine, scegliere il proprio destino. L’eroe è ben poco coraggioso, nel senso che non sceglie: è la morte a scegliere, sono i tempi cupi ad avere bisogno di eroi: e non è detto che soprattutto oggi la morte tragica dell’eroe apra veramente a nuove epoche. Potrebbe essere una morte tragicamente inutile, una morte comicamente inutile. Per questo motivo, con buona pace della pedagogia delle Forze Armate, l’eroe non è e non può essere una figura educativa positiva, e il suo rapporto con la sua propria morte non può certo essere un paradigma utile per una educazione al morire. L’enfasi sulla morte tragica dell’eroe ci ricorda soltanto che morire da eroi significa non morire realmente la propria morte: ci ricorda soltanto che il nostro compito non è creare nuovi eroi che affrontino morti non scelte da loro, ma apprestare il terreno per l’avvento di un tempo che non avrà più bisogno di eroi.
Ma allora forse occorre educare alla paura: non educare con la paura, ma proprio educare ad avere paura, a fare in modo di non scandalizzarsi delle proprie paure, a reinterpretare la paura come dimensione tipica del mondo animale e della cultura umana. Il che significa anche educare alla resa e alla fuga, parole che l’eroismo malato degli eroi «machi» considerano disonorevoli ma che nel mondo animale rappresentano strategie di resistenza anche superiori rispetto all’attacco e all’aggressione. Il vero coraggioso oggi è allora colui o colei che non hanno paura di avere paura; il coraggio è ancora e sempre quello della conoscenza: «L’essenza dell’universo, in un primo tempo celata e chiusa, non ha forza da resistere al coraggio di chi vuol conoscerla: deve schiuderglisi dinanzi agli occhi, e mostrargli e fargli godere la sua ricchezza e profondità» [2]. Ancora oggi queste parole sono un programma per ogni pedagogia che voglia avere a che fare con le emozioni e in particolare con le dimensioni del coraggio e della paura: perché il vero coraggio oggi è saper continuare, fare i conti con le proprie paure; se riesce a portare il soggetto a un recupero del proprio senso di normalità e di equilibrio, se riesce ad educare la parte sana, ad educare l’Io dei soggetti in formazione, se riesce a insegnare a guardare in faccia la paura senza paura, l’educazione dell’anima ha segnato il primo punto contro le forze della barbarie che hanno bisogno di burattini patetici travestiti da improbabili eroi.
NOTE
[1] Franz Rosenzweig, La Stella della Redenzione, Genova, Marietti, 1985, pag. 81.
[2] G.W.F. Hegel, Discorso inaugurale tenuto a Heidelberg il 28 ottobre 1816.