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    Figli «generati» genitori


     

    Intervista a Riccardo Grandini

    (NPG 2006-09-12)


    Lo snodo «generazione-rigenerazione» della famiglia

    Domanda. Utilizzando i dati statistici ufficiali e i vari rapporti (Eurispes, Censis, Cisf...), può tracciare un volto della famiglia oggi nelle sue specificità strutturali e culturali, e le linee di tendenza del modello famiglia?

    Risposta. La fotografia della famiglia italiana è piuttosto chiara da almeno tre lustri. Non è vero, come ci dicono i Rapporti, che ogni anno scoppi una rivoluzione. Questo piuttosto è un problema che attiene i mass-media e il loro modo di agganciare l’attenzione dei lettori.
    La famiglia è sempre più piccola, incerta e socialmente isolata.
    È più piccola perché la regola della neo-residenza (una volta sposati si va a vivere da soli) è ormai condivisa da tutti. Questa regola sociale provoca uno sorta di strabismo sociologico. Da un lato i demografi che «calcolano» la famiglia anagrafica (chi vive sotto lo stesso tetto), ci sommergono di dati che mostra questa «riduzione» della famiglia; dall’altro i sociologi e gli antropologi ci mostrano che la famiglia «reale» è molto più estesa perché include i genitori degli sposi e parte della loro parentela, che vivono in media molto vicino ai nuovi nuclei. Inoltre sempre più emergono forme familiari dove marito e moglie vivono sotto lo stesso tetto, per pochi giorni alla settimana, per motivi di lavoro soprattutto (LAT «living apart together»). La riduzione del numero dei membri della famiglia è però certamente reale laddove si intendano i fenomeni di crisi della «natalità» (diminuzione del numero dei figli per donna), quelli dell’aumento delle famiglie unipersonali (anziani vedovi in prevalenza: si tratta di un altro modo che i demografi usano per calcolare la popolazione, ma evidentemente non si tratta di famiglie); e quelli afferenti la rottura del patto coniugale, con conseguente emergere di famiglie monogenitoriali. Va comunque sottolineato che ancora la stragrande maggioranza degli italiani (diciamo nove su dieci) fa esperienza di coniugalità nell’arco del suo corso di vita.
    Le cosiddette nuove «forme» familiari, ad un esame ragionevole, non sono poi tali e soprattutto non rappresentano nuovi modi di formazione della famiglia: le «famiglie unipersonali» sono in netta prevalenza formate da vedovi (donne), il che non indica una «scelta di vita»; le monogenitoriali nascono dalla rottura di un precedente legame coniugale e rappresentano non un progetto di vita, ma la crisi di esso; le famiglie «ricostituite» emergono da precedenti legami coniugali rotti e poi ricostituiti con persone diverse; le famiglie «miste» per etnia, religione, ecc. sono ancora un numero molto basso. L’unica vera novità è data dalle convivenze che però non sono molto numerose, riguardano spesso persone che non possono (non sono ancora divorziate) o non vogliono risposarsi (persone divorziate) e da giovani che aspettano di sposarsi più avanti nel tempo o quando nascerà un figlio.
    Più che un problema di forme familiari esiste un problema nel significato del fare famiglia, oggi, tra i giovani ma pure tra le generazioni di mezzo. Ecco il fenomeno dell’incertezza, dell’ambiguità. La novità è data dal processo di «démariage», così come lo chiama la sociologa francese I. Théry. Con quel termine si definisce il processo di desimbolizzazione sociale, teologica e giuridica del matrimonio, inteso come istituto fondatore della nuova famiglia (perché in realtà questa andrebbe concepita come sotto-gruppo della parentela). Il démariage provoca un doppio movimento. Da un lato il legame coniugale, il coniugio, è sempre più concepito come un affare privato di due adulti che possono regolarlo in modo quasi individual/contrattualistico: da qui l’onda lunga della «privatizzazione» del matrimonio che parte dagli Usa per arrivare in Europa attraverso i patti di «partnership» tra persone dello stesso sesso, con la giuridicizzazione delle convivenze e con la trasformazione del diritto matrimoniale tout court. Il matrimonio, così come lo abbiamo conosciuto, diventa uno solo dei modi in cui è possibile regolare la propria vita intima con un (per ora) partner. Dall’altro, a compensare questa privatizzazione, emerge una regolazione pubblica strettissima del legame genitoriale. La genitorialità è sempre più imposta per legge, anche quando il coniugio è rotto o non esiste. Evidentemente la nostra società occidentale si accorge che lasciare completa libertà ai coniugi, può provocare problemi pubblici rilevanti, e compensa ciò rendendo obbligatorie le responsabilità genitoriali e, in senso esteso, parentali.
    Possiamo quindi sintetizzare che la famiglia oggi è scossa da fenomeni di simultanea in-distinzione (tutto è famiglia, basta che vi sia affetto o responsabilità sociale) e ri-distinzione (nascono stili di vita familiari che però non sono famiglie). Ciò provoca certamente incertezza nei giovani: il simbolo del matrimonio non attira più affetti e progetti, mentre quello più ampio della famiglia lo riesce ancora a fare. Quello che i ricercatori non riescono però a far vedere è che, sotto questi processi che generano incertezza, se ne possono scorgere altri che mostrano il ridistinguersi della famiglia intesa come relazione di piena reciprocità tra i sessi e le generazioni. In realtà nascono sotto ai nostri occhi «nuove famiglie» normocostituite, capaci di far fronte a pressioni ambientali fortissime, capaci di rigenerare il familiare, concepito come piena capacità di «accoglienza», di relazione d’amore, ecc. Potremmo anche provocatoriamente dire che proprio queste sono le nuove famiglie, cioè persone capaci di interpretare quel simbolo in maniera innovativa. Non si riesce più a far vedere questa «felicità» familiare, e ciò costituisce in sé un problema.
    Per ultimo, la famiglia è sempre più socialmente isolata, considerata come un «nucleo» chiuso tra le sue quattro mura e così trattata. Questo è uno snodo cruciale per il futuro. Non è un caso che davvero le famiglie più isolate socialmente siano quelle che fanno più difficoltà a vivere. Nasce così il bisogno di saper leggere la famiglia come soggettività sociale, come relazione sociale che produce società e non privatismo, come «capitale sociale». La famiglia è una risorsa per la società, non solo dal punto di vista economico e dell’ordine sociale, ma anche come generatrice di orientamenti di apertura all’altro, di fiducia, di capacità di cooperazione, di slancio e dono per gli altri. La famiglia va messa in rete perché è il luogo-tempo dell’ospitalità e del dono; è la relazione da cui la società sempre si è attesa «apertura» e generazione. Se la famiglia non è messa nelle condizioni di farlo, allora muore.
    Alla fine del discorso, quindi, potrei dire che lo snodo della famiglia oggi è quello della sua generazione e ri-generazione. Come si vede torniamo al problema dell’inizio. La cosiddetta crisi della famiglia italiana sta nelle condizioni di possibilità della sua rigenerazione che passa per i rapporti intergenerazionali. Ogni settore della società (politico, economico, ecclesiale, sanitario, culturale, ecc.) dovrebbe agevolare i giovani a progettare famiglia. Ma questo è proprio quello che non sta realmente accadendo.

    Giovani e generazione

    D. Affrontiamo il tema del rapporto giovani-famiglia. Lei ha lavorato a una famosa ricerca, di Donati-Colozzi «Giovani e generazioni» (Mulino 1997), dove analizzando la condizione giovanile viene proposta la categoria della «generatività». Tenendo conto della dimensione relazionale che caratterizza tale categoria, come si relazionano oggi i giovani rispetto alla famiglia di origine? Parliamo non solo del rapporto con padre-madre e con fratelli-sorelle (se ne hanno), ma anche con la cultura e i valori delle «generazioni» precedenti.
    Si può trovare un filo che perdura attraverso le generazioni e che resterà anche verso le loro future famiglie?

    R. Parto dal riferimento alla ricerca «Giovani e generazioni». Il punto più debole delle tante analisi sui giovani – a mio avviso – è stato quello di non saperli osservare/comprendere entro le loro reti sociali, cioè entro quelle relazioni quotidiane dove essi vengono socializzati, educati, dove crescono e intraprendono le scelte che li faranno diventare adulti. Proprio per questo motivo diventa fondamentale analizzare i comportamenti, gli atteggiamenti, le scelte, le preferenze, i valori, ecc., dei giovani così come vengono generati entro le reti sociali in cui quotidianamente essi vivono.
    Questa nuova consapevolezza rimette al centro dell’osservazione sociologica la trasmissione intergenerazionale e permette di descrivere l’età giovanile, o meglio la giovinezza, come un insieme di processi di crescita e di maturazione piuttosto che come una condizione statica. I giovani infatti vivono quotidianamente in «reti di relazioni sociali» in cui i diversi mondi generazionali entrano in contatto: i genitori, la parentela, gli adulti in genere, gli educatori, gli insegnanti e i coetanei costituiscono perciò l’ambiente generativo/degenerativo in cui il giovane intraprende percorsi di maturazione più o meno adatti al divenire socialmente adulto. La cosiddetta «condizione» giovanile viene quindi reinterpretata come un insieme di processi di crescita che si sviluppano nella relazione tra «mondi». La giovinezza stessa è ora intesa come relazione sociale generata in modo intergenerazionale che può avere esiti positivi (l’entrata responsabile nel mondo degli adulti) o negativi (la moratoria, la mancanza di maturazione, la fuga dal mondo adulto, ecc.).
    Nella ricerca «Giovani e generazioni» fu utilizzato il concetto di generazione, concepito da Pierpaolo Donati, come sinonimo di senso di generazionalità (o generatività) giovanile. Con il concetto di generazionalità si volle infatti comprendere quanto e come i giovani si sentivano generati dalle «generazioni» compresenti, e quanto e come si sentivano capaci di generare il loro futuro. Sentirsi generati significa sentirsi voluti, educati, aiutati, compresi, accolti, responsabilizzati e fatti crescere dall’ambiente sociale in cui si vive; sentirsi capaci di generare significa sentirsi capaci di progettare e realizzare il proprio futuro in collaborazione con le generazioni compresenti (quelle più anziane e quelle più giovani). In altri termini essere generazione significa, per i giovani, sentirsi protagonisti attivi di un percorso di crescita e maturazione che implica processi di trasmissione e scambio intergenerazionale.
    Lo scambio intergenerazionale che avviene, o dovrebbe avvenire, tra il mondo degli adulti e quello dei giovani può essere interrogato in due modi diversi ma egualmente importanti. In primo luogo occorre chiedersi se, per esempio, le relazioni con la famiglia, quelle di coppia, con gli amici, con i colleghi di lavoro, con la Chiesa, ecc., generano positivamente i giovani, cioè li aiutano a crescere, a maturare e a divenire adulti. In seconda istanza occorre capire se il mondo degli adulti sia capace di generazionalità (generatività) o sia disgenerazionale nei confronti dei giovani. La trasmissione generazionale può infatti anche non avvenire o avvenire in termini patologici.
    Vengo ora più specificamente al nucleo della domanda. La relazione tra generazioni in Italia è famosa in tutta Europa, e non solo, per la appariscente mancanza di conflitti espliciti. In generale i genitori aiutano moltissimo i figli, soprattutto quando questi formano la loro famiglia e mettono al mondo i «nipotini». Sembra anzi che questa solidarietà tra generazioni sia fin troppo «gelatinosa», visto il numero di trentenni che rimane in famiglia pur avendo già una vita di coppia. La relazione con i genitori è comunque buona, almeno in generale. I figli italiani considerano nella stragrande maggioranza dei casi di aver ricevuto molto dai genitori, di essere loro riconoscenti e di voler reciprocare gli aiuti quando i genitori diverranno anziani. In termini tecnici si dice che riconoscono l’esistenza di un «debito positivo» con la loro famiglia. Mi pare di poter dire che rimane prioritario l’aiuto economico o comunque relativo al permettere una vita la più agiata possibile ai figli. Meno forte è la trasmissione di «capacità di scelta». Le famiglie italiane vorrebbero garantire ai figli il massimo agio possibile in termini «materiali», ma non sempre sono all’altezza riguardo alla trasmissione di altri «beni».
    Rimane però il fatto che, in questo campo, la stratificazione delle famiglie rimane molto forte.
    Chi ha la fortuna di vivere in famiglie ricche di capitali, economici, culturali, umani e sociali, ha davanti a sé una vita più ricca di opportunità di chi nasce in famiglie svantaggiate. Il problema non si risolve «azzerando» la provenienza familiare, ma solo mettendo nelle condizioni le famiglie meno dotate di risorse di poterne acquisire. Questo è il tema della sussidiarietà alla famiglia e non della sua assistenza.
    Riguardo alla trasmissione culturale, comincerei col sottolineare che ogni processo di crescita basato sulla relazione è potenzialmente ambi-valente. Sempre siamo al confine tra l’obbedienza di certi modelli e il loro rifiuto; tra l’amore per chi ci trasmette qualcosa e la sua radicale critica; tra il sentimento di dipendenza e la ricerca di indipendenza. In generale direi che la relazione intergenerazionale è caratterizzata da uno stile «emancipativo» (dato dal convergere di genitori e figli sui valori di base dell’educazione e del tentativo di innovazione di essi da parte dei figli), e da uno «riproduttivo « (che alla convergenza culturale associa la riproduzione del modello da parte dei figli). Esistono anche relazioni di fuga e di critica completa, ma sembrano minoritarie. Diciamo che genitori e figli hanno imparato a «negoziare» molto, fin dalle prime fasi della loro relazione. Non sempre però questa negoziazione è davvero basata su un reale scambio: spesso si tratta di qualcosa di molto superficiale, di un velo calato su problemi che non vogliono essere affrontati.
    Esiste comunque una sorta di «ritirata» delle famiglie dal compito di educare a «fare famiglia». Questo è un problema educativo che scoppierà a breve. Si pensi solo che in paesi falcidiati da tassi di divorzio elevatissimi, si comincia a correre ai ripari con corsi per la preparazione al matrimonio, anche per chi non si sposa in Chiesa, e dove può anche essere comunicato alla coppia che forse non converrebbe sposarsi subito visti i problemi e le immaturità in gioco.

    La vita di coppia

    D. È cambiata oggi tra i giovani la modalità della vita di coppia? Parliamo delle ragioni della sua costituzione, la sua prospettiva di durata, il significato soggettivo ad essa attribuita… E rispetto al matrimonio e alla stabilizzazione della coppia? Tra l’altro, ha ancora tenuta il matrimonio religioso, e con quali motivazioni i giovani lo scelgono?

    R. È senz’altro in questa dimensione che le cose stanno cambiando radicalmente, tanto che spesso si confondono questi cambiamenti con quella che viene considerata una rivoluzione nelle forme famigliari. Cerchiamo di spiegarci. Fino a poco tempo fa il percorso di crescita e di adultizzazione dei giovani seguiva un «sentiero» molto strutturato che, a sua volta, corrispondeva a una società industriale, fordista, della formazione obbligatoria fino a un certo grado scolastico, ecc. Tale sentiero era considerato un vero e proprio processo a «fasi» da superare una dopo l’altra, ordinatamente, per accedere al ruolo di adulto. Questo percorso prevedeva le seguenti «tappe»: 1) fine degli studi obbligatori; 2) acquisizione di un mestiere; 3) uscita dalla casa dei genitori; 4) matrimonio; 5) generazione dei figli. Le tappe andavano superate una dopo l’altra possibilmente in ordine cronologico. Così si diventava adulti.
    Poco a poco questo percorso a tappe si è completamente trasformato perché le condizioni sociali di contorno sono radicalmente cambiate. 1) L’istruzione è diventata sempre più onnipresente, si è allungata, fino a parlare di «formazione per tutta la vita». È in effetti quasi impossibile stabilire quando si è finito di formarsi e se è davvero possibile farlo. La prima condizione quindi perde i suoi confini. 2) Dalla società del lavoro si è passati a quella delle attività. Il lavoro dipendente o meno, valido per tutta la vita, il «posto di lavoro», con la sua carriera dovuta all’anzianità, va sparendo sostituito dai contratti di lavoro atipici, dalla perdita di confini tra vita professionale e vita privata, con la moltiplicazione del «popolo delle partite Iva». Emerge quello che è stato chiamato «capitalismo personale». Questa nuova configurazione rende quasi impossibile definire con certezza quale lavoro/attività si farà nel futuro e rende certamente molto arduo fare affidamento su una carriera «semplice». 3) L’uscita di casa avviene sempre più tardi e spesso accade invece di dover tornare a casa dei propri genitori. Inoltre il continuare a vivere con i genitori non preclude l’avere un lavoro e una vita di coppia. Può accadere di uscire di casa per degli anni, per esempio per studiare, senza per questo diventare indipendenti dai genitori. 4) Il matrimonio, nella sua incertezza simbolica, è sempre più rinviato e preceduto da convivenze. Non si tratta né di una nuova forma autonoma di famiglia (infatti il convivere dipende da tutta una serie di fattori che non permettono l’indipendenza e l’autonomia), né di un rifiuto del matrimonio. Anzi questo non è rifiutato, piuttosto lo si pone allo stesso livello della convivenza. Dipende da altro che tipo di scelta fare: siamo nella contingenza della scelta. In tal senso possiamo affermare che, per la maggioranza dei giovani, il matrimonio non è più un valore «assoluto», quella scelta che permetteva di uscire di casa e diventare autonomi. Ora si può essere autonomi anche senza sposarsi, o sposarsi senza essere autonomi. Far precedere al matrimonio la convivenza, pone tutta una serie di questioni all’educazione della vita di coppia che non possiamo sviluppare. Certamente però non è più il matrimonio che fa la coppia. La coppia preesiste al matrimonio. Molti giovani si sposano proprio quando dalla coppia vogliono passare al fare una «famiglia». Il sogno familiare è ancora molto presente e costituisce ancora la norma, il modello di una vita intima felice. Tanto è che le convivenze rappresentano dei «parassiti» simbolici della vita coniugale, cui sottraggono prevalentemente l’ingombro della burocrazia e del «gesto pubblico». Ma lo stile «coniugale» è più o meno lo stesso. 5) Generare figli diventa sempre più l’indicatore della presenza di una famiglia. Spesso ormai, si fanno prima i figli e poi ci si sposa. La genitorialità sostituisce la coniugalità al vertice dei valori familiari. Tutte le coppie vogliono almeno un figlio; non esiste ancora una cultura diffusa dell’assenza di figli.
    Come si comprenderà, qui ci troviamo di fronte a un processo di adultizzazione del tutto diverso dal precedente. La vita familiare però mantiene la sua forza attrattiva, le sue promesse di felicità. È invece evidente che essa non corrisponde più immediatamente alla scelta matrimoniale, proprio perché il matrimonio è sempre più «contrattualizzato» e perde di valore simbolico. Sembra, così ci informano gli psicologi, che uno dei problemi più gravi delle giovani coppie sposate è che non comprendano più la differenza tra il prima (la vita da conviventi) e il dopo (la vita da sposati); non fanno una reale esperienza di questo passaggio di status sociale. È come se la società non attribuisse più valore al matrimonio come istituzione sociale, ma solo come scelta privata. Chiaramente questa valorizzazione sociale del matrimonio ha come conseguenza di «confondere» ancora di più la situazione. Di qui il simultaneo iper-investimento soggettivo sulla vita intima e l’ipo-investimento nel matrimonio. Anche la cultura dell’amore sembra in mutamento. C’è chi parla di post-romanticismo, intendendo l’uscita da un modello di formazione di coppia caratterizzato dal «colpo di fulmine» (formazione molto breve), dalla fusione con il partner e dallo sviluppo della relazione «dopo» il matrimonio. Ora si tratterebbe invece di fidanzamenti/convivenze molto lunghe, di rapporti molto individualizzati di coppia (dove ognuno mantiene ampi spazi di libertà dall’altro) e di elaborazione di una o più «storie» prima di sposarsi. Non pare che il nuovo modello, dove ci si conosce molto bene prima di sposarsi (se lo si fa), stabilizzi la coppia. Anzi i tassi di separazione e divorzio sono in aumento e non sembra che nel breve periodo caleranno.
    Rispetto alle coppie/famiglie di cattolici occorre fare un distinzione preliminare. Dato che quasi il 90% degli italiani si considera in qualche modo cristiano/cattolico, non sorprende che le famiglie cattoliche non si distinguano per nulla da quelle non cattoliche. Stessi tassi di separazione, divorzio, ecc. Se però andiamo a disaggregare il 15-20% di famiglie composte da persone che davvero frequentano la Chiesa e conoscono il catechismo, allora le cose cambiano radicalmente. Qui troviamo famiglie molto diverse dalla media, più feconde, generative, più stabili e capaci di vivere la famiglia in modo veramente «completo». Entro questo contesto culturale troviamo anche giovani coppie che vivono il percorso al matrimonio come una vera crescita cristiana, e che vedono in esso il reale momento di formazione della loro famiglia (cui faranno seguire i figli). Si tratta di giovani che mai vorrebbero «pacsarsi» o convivere, perché per loro il matrimonio è quel patto pubblico che dà forma a un modo di vita completo, «pieno», assoluto, dove ricercare la propria felicità.

    Il progetto famiglia

    D. Il sogno della famiglia, di un progetto famiglia per le coppie giovani. Intendiamo ovviamente il progetto di essere genitori.

    R. Tutte le indagini ci indicano che il progetto generativo non è in crisi. I giovani, e i giovani-adulti, non pensano alla loro vita senza un progetto genitoriale. Anzi, per certi versi questo è così rilevante che «fare-essere famiglia» coincide sempre più con il generare un figlio. La coppia da sola non basta per fare famiglia. E rispetto ai figli l’ideale rimane quello di averne tre, e se due, possibilmente un maschio e una femmina. Inoltre il numero di figli desiderato è sempre più elevato di quello realizzato.
    Ci troviamo quindi di fronte a un duplice processo, paradossale. Da un lato l’essere genitori è fortemente ricercato e sempre più considerato come l’evento che legittima la scelta familiare e matrimoniale. Tanto che nel prossimo futuro potremmo anche osservare uno scambio nel ciclo di vita delle persone: diventare prima genitori e poi sposarsi. Il bambino è diventato il simbolo famigliare, più che la coppia. D’altra parte si generano sempre meno figli. È dunque evidente che deve esistere qualche problema. Certamente la nuova definizione di identità, soprattutto femminile, qui gioca un ruolo molto importante. Essere donna significa ora anche riuscire nel lavoro e fare carriera. Con il tipo di cultura del lavoro e di organizzazione dei tempi lavorativi che abbiamo in Italia, diventa allora molto difficile conciliare i due desideri. Le ricerche a disposizione continuano a mostrarci che l’arrivo di un figlio può peggiorare la situazione economica e lavorativa delle donne e delle loro famiglie; che i fattori economici incidono molto sulla scelta di avere figli e che esiste una pressione sociale rispetto a quella scelta sempre più bassa: le famiglie d’origine, soprattutto, non spingono più affinché i figli mettano al mondo dei figli.
    Bisognerebbe fare un grande lavoro sulla conciliazione dei tempi di lavoro e di cura, sottolineando il tema della «qualità del tempo» per ogni persona, più che il semplice coordinamento tra i diversi tempi. Naturalmente anche politiche basate sul trasferimento di denaro o sul diritto a detrarre dall’imponibile fiscale i costi dell’educazione dei figli, sarebbero necessarie, così come nuovi servizi per le famiglie e non solo per l’occupazione delle donne.
    A fronte del desiderio di avere figli, emergono però anche nuove fragilità. In primo luogo quelle della relazione di coppia o coniugale, che in molti casi cerca nel figlio la compensazione per i suoi problemi. Inoltre una certa difficoltà nell’aver cura dei figli, a tutte le età, dovuta da un forte isolamento sociale delle coppie. Non è un caso che nei paesi dove maggiormente la «crisi» della famiglia si è già fatta sentire, come negli Usa, da anni si stiano realizzando «programmi» di educazione famigliare che noi considereremmo addirittura ridicoli, tipo l’educazione a gestire un reddito, l’apprendimento del cucinare, la capacità di scegliere come coppia. Laddove però un numero sempre crescente di famiglie rischia la «bancarotta» – sedotto dal credito al consumo –, dove il «junk food» diventa un fattore di spesa sanitaria inaffrontabile e dove i divorzi diventano la normalità, c’è poco da ridere. Lo stesso vale laddove il numero di nascite è così basso da squilibrare tutto il sistema sociale: in alcuni paesi europei, per esempio Francia e Svezia, si realizzano politiche proprio per mettere nelle condizioni i genitori di generare il numero di figli desiderati; in Italia, invece, non si può parlare neppure di politiche per la famiglia.

    Nodi educativi

    D. Quali secondo lei i nodi educativi, gli elementi su cui puntare per una rinnovata «capacità della vita» da parte dei giovani oggi e che possono condizionare positivamente il buon esito di una futura vita familiare?

    R. A mio parere bisognerebbe apprendere a pensare nei termini di una nuova generazionalità familiare e sociale che si crea attraverso un modo innovativo di relazione tra mondo familiare/non familiare, dove le libertà negative (essere liberi da) riescono a coniugarsi con quelle positive (libertà per) e dove il controllo sociale diventa responsabilizzazione di ognuno per il bene di tutti.
    In primo luogo occorrerebbe elaborare una nuova cultura dove il diventare adulti e il fare famiglia non significhi chiudere le porte alla felicità, alla sperimentazione personale, alla propria libertà di fare. Adulto non deve voler dire «cresciuto in modo definitivo», «fermo». Adulto significa che una persona è trattata dagli altri come capace di agire responsabilmente, in «prima persona». Significa che ad un certo punto della propria vita, le persone sono riuscite a elaborare una identità personale e una identità sociale che sono coerenti e compatibili. Significa che sanno affrontare i problemi e i loro successivi processi di crescita e cambiamento, decidendo per se stessi. Essere adulti vuol dire che ora sono «Io» a dover decidere (anche per altri) e che nessun altro può farlo al posto mio. La difficoltà sta nel non confondere questa responsabilizzazione con l’egocentrismo, l’isolamento e l’individualismo. È evidente che Io sono quella persona, che prende proprio quelle decisioni, perché sono anche «figlio di», «marito/moglie di» «genitore di», «amico di», «collega di lavoro di», ecc.; ma sono Io che devo saperle prendere quelle decisioni. L’identità sociale (quello che mi aspetto che gli altri si aspettino da me, quello che sono voluto diventare «pubblicamente», nei ruoli sociali di lavoratore, parrocchiano, attivista politico, volontario, marito, ecc.), non può essere sganciata da quella personale (chi davvero sono «io», tolti i ruoli e i modi in cui li interpreto). Se così fosse la vita sociale sarebbe questione di attori professionisti.
    I giovani vanno aiutati ad accedere alla condizione adulta; va loro fatto vedere, esperire, che questa è l’età più «avventurosa» della vita, quella dove finalmente ci si gioca interamente in prima persona, in tutte le sfere di vita. Questa per me è la sfida culturale. Bisogna tornare a parlare di veri e propri «stili di vita», intesi non come modi di vita consumistici, bensì come capacità di riflettere su se stessi e di condurre una vita. Occorre spiegare ai ragazzi che hanno una sola occasione per vivere e devono «giocarsela tutta», senza cercare «divertimenti» assurdi, fughe dalla realtà, rifugi in mondi virtuali che non esistono se non «appartati» dagli altri. La sfida educativa sta in questo. Va riscoperta la bellezza del compiere scelte decisive, di prendersene le responsabilità, di «provarci» davvero. Solo in questo modo ci si sente davvero «persone». La capacità di riflettere su se stessi, di giudicare cosa si è fatto durante la giornata, di auto-correggersi, di meditare profondamente su cosa si deve fare quotidianamente per diventare ciò che si vuole essere: questa sorta di «esercizio dello spirito» teso a fare della propria vita un «progetto esemplare», questa mi pare la sfida da accettare.
    Evidentemente tutto ciò, questa «conversazione con se stessi», questa continua riflessione sul sé, non si compie in isolamento. Tutte le sfere sociali, a partire dalla famiglia che è molto carente in ciò, per passare dalla scuola, alla parrocchia, al posto di lavoro, all’impegno associativo, a quello politico, ecc., dovrebbero agevolare questa pratica. Mi pare però che qui stia proprio la «vacanza» delle istituzioni sociali nei confronti dei giovani. Tutti cercano i giovani per fare loro delle proposte, ma – vorrei dire – a vantaggio dell’istituzione; per il bene della famiglia, della parrocchia, della classe, del lavoro, dell’associazione, del partito, ecc. Pochissimi sono i luoghi dove davvero si cerchi di educare i giovani, di lasciare loro il tempo-spazio per la riflessione, per la crescita, per imparare a prendere in mano la loro vita (per quanto sia possibile). Troppi interessi non «vedono» i giovani e la loro crescita come finalità da realizzare. Qui è il mondo degli adulti ad essere del tutto in ritardo. Ma questo accade perché, in realtà, saper «educare» è un arte paradossale. Per saper educare, anche in famiglia e alla famiglia, occorre da un lato essere così fiduciosi di se stessi da presentarsi come «esempi viventi» di un percorso di vita «riuscito» o almeno come persone che in tutta sincerità ci hanno provato. E questo non è facile da trovare. Occorre però allo stesso tempo non «schiacciare» i giovani con questo esempio di vita, bensì mostrarlo proprio per «spingere alla libertà/responsabilità». Occorre essere molto «umili». Questo è il primo paradosso: l’esempio non sta tanto nel contenuto di una «vita», quanto nel modo in cui si è provato a raggiungerlo, nello stile attraverso cui lo si è provato a raggiungere, tanto che potrebbe essere un ottimo esempio anche quello di una persona che socialmente non è di successo. D’altra parte per poter educare occorre mostrare «oggettivamente», senza alcuna captatio benevolentiae, quali sono i valori in gioco e quale conseguenze portano le decisioni. Questo è fortemente fuggito dal mondo adulto che, narcisisticamente, vorrebbe presentarsi agli occhi dei propri figli come chi è capace di aprire tutte le possibilità, tutti gli orizzonti, senza che alcun «sacrificio» sia necessario. Ma ogni decisione è sacrificio di ulteriori possibilità, è la capacità di «lasciare il proprio padre e la propria madre» per formare una nuova famiglia. Ecco allora che per rendere capaci i giovani di decidere, occorre mostrare loro che non tutto è possibile. Il secondo paradosso sta nel fatto che educare significa allo stesso tempo «trattenere presso sé» per insegnare e «lasciare andare» perché l’insegnamento possa realizzarsi autonomamente. Il terzo paradosso è così descrivibile: per educare bisogna allo stesso tempo «amare se stessi», tanto dall’aver coraggio nel proporsi, e «amare massimamente la libertà dell’altro» e la sua differenza dal sé, fino al rifiuto di se stessi come educatore che non viene compreso. Questa «gioia» nel vedere l’altro crescere non è così semplice da trovare nel mondo degli adulti.

    Concludo allora questa risposta con una riflessione sull’«età di mezzo», quella dei genitori che hanno figli adolescenti. Sono infatti loro stessi ad essere le prime vittime di una cultura di indifferenza etico-valoriale. Proprio perché la promessa è quella di una completa realizzazione del sé multiforme e sconfinato, senza limiti, del Life is now, del «ti costa zero», e proprio perché questa promessa è basata su un meccanismo paradossale di scelta non decisiva (quindi priva di reale significato, omologante) e perché i luoghi di espressione del sé (scuola, lavoro, associazionismo, tempo libero, ecc.) lo permettono sempre meno, allora gli adulti cominciano a «recriminare» su ciò che non hanno potuto/saputo realizzare nella loro vita. Viviamo in mezzo ad adulti molto insoddisfatti della loro vita, e questo non è il miglior esempio da dare ai figli. In un bellissimo romanzo della scrittrice americana Joyce Carol Oates, intitolato proprio L’età di mezzo, si racconta la storia di alcuni adulti che hanno perso un amico comune, morto per cercare di salvare dall’annegamento una bambina. La storia di questi adulti è tipica del nostro panorama sociale: persone economicamente agiate, socialmente rispettate, con mariti, mogli e figli, che però vivono tutto ciò con insoddisfazione. Nel corso del tempo infatti si sono accumulate nella loro memoria tutte quelle decisioni, occasioni importanti che, per i motivi più diversi, ma soprattutto per la volontà di non soffrire troppo, vanno ora a formare una sorta di «ombra di possibilità non colte». È quell’insieme di «se stessi» che non siamo riusciti a diventare. Il risultato paradossale è che ognuno è diventato, poco a poco, senza volerlo, quello che «non voleva essere». Solo l’evento drammatico della morte dell’amico, l’evidenza che «non si ha tutto il tempo a disposizione», che ogni decisione costa «qualcosa», che la vita non è «solo adesso», ma anche in un orientamento e progetto di vita, provoca in loro una ribellione. E ognuno, con sofferenza, tornando a decidere, magari sbagliando, ritrova la propria autenticità, riprende in mano la propria vita. In quel romanzo si nota una presenza piuttosto leggera dei figli. Alcuni vivono solo per accusare i genitori di non essere stati tali; altri cercano di sottrarsi alle paure dei loro padri e madri che non li vorrebbero lasciar crescere; altri li disprezzano e basta perché, invece che spronarli a fare del loro meglio, li hanno solo blanditi per «lavarsene poi le mani». Solo una coppia neppure ben assortita, che si forma dalla rottura di due famiglie ormai «degenerate», trova il coraggio di adottare una bambina e di riprovare, vivere «per» lei. E un famoso professionista della città, il tipico individualista cinico e diffidente, alla fine si ritrova con una figlia avuta da una madre che forse davvero non la voleva: e con questa figlia da educare ritrova la «bussola» della sua vita e la capacità di generare e di sentirsi generato.


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