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    Evangelizzazione e ricerca di senso



    Narrare per la speranza /2

    Riccardo Tonelli

    (NPG 2006-03-16)


    Di solito, la gente che come noi si interroga sulla evangelizzazione, sul suo significato e sulle modalità in cui realizzarla, considera come centrali due questioni: quella dei contenuti e quella del metodo.
    Con la prima questione l’attenzione corre verso il «che cosa» dire. Ci si interroga su quello che dobbiamo comunicare e sulla sua oggettività. Spesso il terreno di confronto e di scontro si divide tra coloro che sono preoccupati di rispettare il dato teologico che ci viene consegnato dalla tradizione ecclesiale, e coloro che invece avvertono come particolarmente inquietante la spinosa questione della fedeltà all’uomo d’oggi, alle sue attese e speranze, alle delusioni che attraversano la sua esistenza e alla forte ricerca di speranza che sale dalla sua vita.
    La questione del metodo riguarda invece soprattutto le modalità espressive e comunicative, gli strumenti e le strategie, attraverso cui realizzare il processo. In questo modo di affrontare il problema, si dà per scontato il fatto di aver risolto la prima questione. Assodati i contenuti, ci si chiede in che modo renderli disponibili alle persone concrete.
    Le due questioni sono certamente importanti. Si richiamano reciprocamente e ormai abbiamo superato quelle contrapposizioni tra contenuto e metodo, che hanno segnato il dibattito pastorale negli anni del dopoconcilio.
    Il cammino percorso ci rende ora attenti ad una questione, molto più radicale delle due precedenti. Se la assumiamo senza inutile nostalgie e con il coraggio di lasciarci inquietare da problemi seri, può funzionare quasi da criterio di verifica per trovare soluzioni adeguate alle stesse questioni precedenti.
    La esprimo con una domanda un poco brutale, che sollecita verso risposte concrete e coraggiose: quello che noi comunità ecclesiale siamo e pretendiamo di fare… interessa a qualcuno, risponde ad attese e a bisogni, veri e reali o, al contrario, corrisponde ad un pericoloso principio di sopravvivenza?
    Chi vende prodotti, vuole svuotare i suoi magazzini, recuperando con abbondanza le spese di investimento. La sua passione e il suo impegno sono concentrati, in modo prevalente, sui suoi interessi. Persino le campagne pubblicitarie… più altruiste sono, in ultima analisi, molto autoreferenziali.
    Certamente, nessun evangelizzatore ragiona in questo modo. Ma qualche esame di coscienza lo dobbiamo fare, se Gesù stesso ha sgridato i suoi discepoli che non si erano ancora liberati dalla vecchia voglia di fare dei proseliti.
    Dalla parte del «perché» la ricerca si fa seria e impegnativa. Costringe a spostarci da quello che sappiamo e possediamo, all’esperienza concreta e quotidiana dei giovani di questo nostro tempo.

    La sfida: una diffusa crisi di senso e di speranza

    Io sto dalla parte del «perché». Sono preoccupato di consegnare a tutti la bella notizia che Gesù, il Crocifisso, è risorto. E mi chiedo: questa bella notizia interessa ancora a qualcuno? Certo, è facile rispondere di sì: qualcuno disposto ad ascoltarci lo troviamo sempre, a basso costo. Mi preoccupo invece di tutti: di chi è disposto ad ascoltare, di chi mi sollecita a dire qualcosa e di chi fa orecchie da mercante.
    Due elementi sono coinvolti in questa riflessione: i soggetti che mi lanciano la richiesta di evangelizzazione e la qualità della loro richiesta, e cioè il livello di consapevolezza che essi hanno della domanda che mi lanciano.
    Se procedo a suon di statistiche, nell’attuale situazione sociale e culturale sono costretto a ridurre notevolmente il numero dei soggetti che interpella a questo proposito la comunità ecclesiale. Ci sono certamente fatti impensabili, che ridimensionano i giudizi troppo affrettati. Quello che è capitato alla morte di Giovanni Paolo II non può che far pensare… mettendo con le spalle al muro i pessimisti e i profeti dell’«ormai è tutto finito». Anche la bellissima esperienza della GMG di Colonia sollecita a pensare in modo serio.
    Non mi accontento delle battute facili e non mi entusiasmano né quelli che vedono oro colato da tutte le parti e si autocolpevolizzano per gli effetti non ancora eclatanti, né, tanto meno, coloro che vedono nero per partito preso. Nello stesso tempo però non mi sembra corretto arrivare ad affermare una decisa e imprevista inversione di tendenza, come se fossero tornati i tempi e le stagioni di una volta… almeno dalle nostre parti. Soprattutto non credo che interesse o rifiuto dipendano solo dal coraggio delle nostre proposte o dalla loro qualità. E se anche così fosse, continuo ad essere preoccupato dei troppi giovani che non hanno avuto la fortuna di incontrare questa bella notizia e affogano nel disimpegno, nel consumo, nella disperazione.
    Riprendo le due domande appena delineate, con la convinzione che la risposta data alla prima domanda è condizionata da quella che possiamo dare alle seconda.
    C’è attesa di evangelizzazione?
    Questa è la mia convinzione: c’è una profonda, diffusa, disturbata attesa di ragioni che restituiscano alla esistenza quotidiana quella prospettiva di mistero imprevedibile e ingovernabile, di cui però ci si può fidare tanto da affidare ad essa la propria voglia di futuro. Interpretata e analizzata, all’interno di un modello di esistenza, la possiamo chiamare una domanda di senso e di speranza. Non possiamo però dimenticare che questo sogno di futuro viene vissuto in modi diversissimi e si manifesta con tanti nomi: il fatto resta, al di là delle differenze.
    Un impegnativo lavoro interpretativo deve aiutarci a decifrare il fatto, tentare di quantificarlo e di organizzarlo attorno a manifestazioni concrete e, successivamente senza eccessiva fretta, interpretarlo.
    Mi piace considerare questa attesa di senso e di speranza non una esplicita e consapevole richiesta di evangelizzazione, ma l’urgenza di incontrare eventi, persone, progetti capaci di saturare le attese. I discepoli di Gesù si sentono provocati nella radice della loro identità, perché riconoscono che, in ultima analisi, questa attesa può essere giustamente interpretata una forte domanda di evangelizzazione. L’implicito può essere facilmente esplicitato fino a poter dichiarare, nel momento in cui annunciamo il nome di Gesù, con Paolo all’areopago di Atene: «Vi parlo di quel dio ignoto che voi adorate senza conoscere» (Atti 17, 23).

    Evangelizziamo per dare senso e speranza

    La riflessione sulla evangelizzazione dalla prospettiva del servizio alla vita e al consolidamento della speranza (la prospettiva del «perché», come dicevo) mette davanti alla nostra attenzione la grande sfida con cui i discepoli di Gesù sono confrontati.
    Sono moltissimi coloro che si portano dentro, nel nostro mondo occidentale, questa sofferta ricerca di ragioni di speranza, oltre quello che possediamo e siamo capaci di costruire. Non sono però tutti in questa situazione; purtroppo molti (molti – quanti, non lo so –, e non mi importa saperlo) si sono ormai rassegnati e vivono alla giornata come se la questione non fosse rilevante. Se la fanno affiorare in situazioni estreme e poi la riaddormentano tranquillamente.
    I discepoli di Gesù, che credono alla vita e la amano, si sentono interpellati anche a questo livello, proprio sulla loro identità carismatica. Addormentare la ricerca di senso o rassegnarsi ad una mancanza di speranza sono una minaccia alla vita quotidiana… e la vita è un bene di tutti. Chi vive la vita quotidiana senza prospettiva diventa un pericolo pubblico, proprio al livello dell’unico bene su cui la globalizzazione è un innegabile dato di fatto.
    Consapevole di questo dato di fatto, la comunità ecclesiale ritrova la gioia e la presunzione dell’evangelizzazione anche nei confronti di questi indifferenti, non per motivi di proselitismo e neppure per ragioni «interne» alla fede stessa, ma per il bene di queste persone (che Gesù ci ha consegnato «da amare» e da servire) e per la tranquillità, il bene e la felicità di tutti. E questa è una ragione grande, che giustifica fatica e passione
    La comunità ecclesiale dice forte, a fatti e a parole, che possiamo essere nella vita e restare radicati nella speranza solo se accettiamo di consegnare la nostra esistenza al mistero di Dio nel progetto di Gesù, e c’impegniamo a vivere la nostra stessa esistenza e a costruire strutture di servizio nella logica di questo stesso progetto. Certo, la potenza di Dio in Gesù è all’opera molto più radicalmente ed efficacemente del livello di consapevolezza riflessa che possediamo e non è prigioniera nei confini ecclesiali. L’amore alla vita spinge la comunità ecclesiale ad allargare progressivamente questa consapevolezza, perché chi riconosce il mistero in cui è avvolto e vive, può operare per la vita sua e degli altri in modo più autentico e più efficace. Evangelizza per offrire la ragione e l’esperienza più forte del dono di vita di cui è segno e inizio.
    La conclusione verso cui ci conduce questa riflessione, introduce esigenze e impegni molto alti.
    Senso e speranza – i due volti della stessa diffusa inquietudine – riguardano tutti: indicano un principio di sopravvivenza che va molto oltre l’esperienza soggettiva. Anche chi non avverte quello del senso come un problema inquietante per sé, può diventare minaccia a tutti perché entra in rapporto con gli altri da una prospettiva pericolosa, incontrollabile, ostile.
    I discepoli di Gesù ne sono consapevoli, e si impegnano a produrre ragioni di senso e di speranza, capaci di dare a tutti consapevolezza riflessa della propria situazione esistenziale e di ritrovare risposte soddisfacenti a queste inquietudini. Fanno crescere la sete di cose diverse e si sforzano quotidianamente di offrire acque fresche, per dissetare questa sete.

    Una ricerca tutta soggettiva

    C’è però una questione di fondo tipica del nostro contesto.
    La domanda di senso e di speranza è sempre una domanda strettamente personale, fortemente soggettiva. Oggettivarla, magari con un eccesso di buona volontà, significa snaturarla e tradirla. Non posso, in altre parole, dire io agli altri cosa cercano e cosa dovrebbero cercare per raggiungere quel livello di felicità verso cui a fatica stanno brancicando. Se lo faccio – e capita spesso purtroppo di metterci proprio a farlo, con tutta la buona volontà di questo mondo – il nostro amore diventa paternalismo della peggior specie: riproduciamo la logica della società dei consumi che prima inventa ragioni per sentirsi in colpa, e poi svende i prodotti che ci assolvono e ci salvano.
    La domanda deve restare soggettiva. Soprattutto però deve diventare decisamente soggettiva la risposta che ognuno dà a questa sua domanda. Ogni persona è chiamata ad esprimerla nella sua storia personale e a dire a se stesso le sue buone ragioni dentro la sua storia personale.
    L’offerta di un senso donato ha la funzione di restituire ad ogni persona la percezione autentica della sua domanda di felicità e vuole abilitare ciascuno a dire a se stesso, in quella regione di autenticità in cui sia possibile veramente fondare senso e speranza, verso quale prospettiva di esistenza decide di orientare la propria vita.
    Questa esigenza vale per tutte le esperienze quotidiane e per la vita nella trama complessiva che le lega e le interpreta.
    Alcune esperienze poi hanno una forza provocatoria privilegiata. Funzionano quasi da elemento scatenante di un processo che dovrebbe percorrere il ritmo della quotidianità.
    Penso per esempio al dolore e alla morte, all’amore e alla gioia dell’incontro, agli eventi, forti e coinvolgenti.
    Senso e speranza sono costretti a fare i conti con questi eventi. Chi li ignora rinuncia alla qualità della sua vita e di conseguenza inquina la vita di tutti.
    L’annuncio che il Crocifisso è il Risorto (= il contenuto dell’evangelizzazione) aiuta a cogliere soggettivamente la forza provocatoria di questi eventi, per la qualità della nostra vita, e esige una reinterpretazione soggettiva della propria esistenza, provocata dal dolore e dalla morte, per dire a se stessi, nel gioco misterioso della propria soggettività, il diritto a continuare a sperare nonostante la violenta crisi di senso che questi fatti provocano.

    Alla ricerca di linee di intervento

    Tra le righe delle cose scritte il lettore attento ha colto il centro della mia preoccupazione: quale «presenza che comunica» è capace di proporre «cose che contano» (nella verità donata di Gesù, il Crocifisso Risorto) in ordine al senso, in modo da abilitare l’interlocutore a esprimere, nel silenzio della propria interiorità, una nuova esperienza di senso, fondante la speranza, nel nome e per la potenza del Dio di Gesù?
    Per questo considero prioritari due compiti concreti:
    * abilitare le persone (i giovani soprattutto) a ricostruire un senso alla propria esistenza, realizzando un confronto con il senso donato (il volto di Dio in Gesù come progetto globale sull’esistenza umana) e la personale e ricercata qualità di vita (uno stile di esistenza fedele al progetto che Dio ha su ciascuno di noi e che Gesù ci ha rivelato) in dialogo con la cultura in cui viviamo;
    * ricostruire una nuova relazione tra adulti e giovani (reciprocamente arricchente in ordine al senso) e tra passato, presente e futuro (per ridare il ritmo della storia). Questa nuova relazione deve caratterizzarsi come «un’esperienza capace di comunicare»: non basta possedere qualcosa da donare, come non è sufficiente imporre questo qualcosa ad altri. È indispensabile ricostruire una presenza, accolta e gradita, capace di comunicare, chiamando l’interlocutore a libertà e responsabilità.
    Dedico i contributi che si succederanno in questa rubrica ad affrontare questo interrogativo. Non posso promettere soluzioni pronte all’uso. Mi sta a cuore abilitare ad una consapevolezza riflessa delle questioni, al di là delle frasi ad effetto, tanto facili in una stagione di crisi come è la nostra, e suggerire, al massimo, qualche strategia prioritaria su cui sperimentare.


    T e r z a
    p a g i n A


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