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    Della dispersione scolastica (Divagazioni)


     

    Una scuola che cambia /10

    Giuseppe Berretta

    (NPG 2006-03-33)


    Un fenomeno emergente come tipico nel panorama sociale e culturale del nostro tempo è quello cui è stato dato il nome di «dispersione scolastica». A prima vista sembra assumere le forme variegate di un disagio diffuso specialmente tra gli studenti della scuola e dell’università, disagio crescente in proporzione all’età, che si manifesta nella tendenza all’evasione dall’impegno, nell’assenteismo, nell’abbandono dei percorsi intrapresi, nello stato di insofferenza all’ambiente scolastico, nell’insuccesso finale. In realtà si tratta di una costellazione di sintomi che rivela il profondo malessere della nostra generazione e richiede accurate analisi e interventi tempestivi.
    Da oltre un decennio è andata maturando a livello istituzionale la consapevolezza di tale urgenza. Si sono susseguiti studi, approfondimenti e dibattiti, sono state condotte indagini sistemiche sul campo e rilevazioni statistiche, sono stati proposti – con notevole investimento di risorse economiche – progetti sperimentali di lotta alla dispersione scolastica nelle zone a rischio. Tra gli operatori della scuola più sensibili è cresciuta la coscienza delle ragioni e delle responsabilità del fenomeno, e si è dovuto constatare che a fronte della complessità delle concause che lo determinano non basta l’azione mirata della scuola a contenerne gli effetti devastanti, ma che occorre un’azione politica a vasto raggio, una mobilitazione di forze sinergiche e convergenti sulla formazione culturale e sull’educazione dei giovani.
    Perché la dispersione scolastica, in senso stretto, non è scolastica, se non come un epifenomeno che nella scuola – l’ambiente maggiormente vissuto dai giovani dopo la famiglia – tende a manifestarsi in tutta la sua evidenza. Nella scuola infatti confluiscono adolescenti già tendenzialmente disorientati e segnati dal travaglio della dispersione. Dispersione della mente, della motivazione, dell’intelligenza, dei sentimenti, dell’affettività, dei modelli valoriali.
    La famiglia è luogo di dispersione quando i genitori, frastornati dal lavoro e dal turbinio dei bisogni quotidiani, non trovano più il tempo di giocare con i propri figli, di dialogare e di crescere con loro, condividendone i piccoli e grandi problemi, le gioie, le ansie e le sofferenze di ogni giorno. Le nostre città sono luoghi di dispersione quando le loro strade, ridotte a piste di velocità di auto in corsa, disegnano la rete di nuovi deserti dell’incomunicabilità, e costringono la gente al confino delle zone pedonali e dei centri commerciali, e i giovani nel ghetto dei pub o delle discoteche del sabato sera. I tradizionali centri di aggregazione – il club sportivo, il partito, l’associazione culturale – diventano luoghi di dispersione quando al posto della solidarietà e dello scambio propongono modelli di relazione umana centrati sull’affermazione individuale e sulla strumentalizzazione dell’altro.
    Anche la scuola può rappresentare un luogo di dispersione. Lo è perché, nel riflettere a specchio la società in cui vive, ne raccoglie le sollecitazioni e gli smarrimenti profondi; ma lo è specialmente quando, trascinata dalla china delle mode correnti, cede alla tentazione di voler essere al passo con i tempi e, nell’ansia del rinnovamento, perde di vista il suo compito fondamentale, la formazione del senso critico, mediante la testimonianza e il confronto culturale, che non si improvvisano fuori di ogni regola, senza linguaggio e senza sintassi, senza l’intermediazione degli strumenti di riferimento temporali e spaziali, ma che si costruiscono nella collaborazione maestro-alunno, nello studio e nella fatica dell’apprendimento continuo.
    Ed è proprio nella scuola che il fenomeno della dispersione rischia di diventare particolarmente pericoloso. Gli educatori adulti che operano nella scuola hanno uno straordinario potere, che deriva dal bisogno di conferma degli alunni: il potere di modellamento delle intelligenze e delle sensibilità. Spesso inconsapevoli di gestire un tale potere, e delle responsabilità che ne derivano, insegnanti e professori sottovalutano con disinvolto distacco l’efficacia reale della loro azione, trincerandosi dietro assunti del tipo «non sono pagato abbastanza», «non è mio compito fare da baby-sitter ai miei alunni», «non dobbiamo sostituirci ai genitori», «non si può sempre andare contro corrente», «l’insegnamento dev’essere neutro e non deve creare condizionamenti», «innanzitutto il rispetto della libertà dei giovani», «i ragazzi non vivono solo di scuola», «la vita reale non è quella dei programmi scolastici», «la scuola non è una caserma», e così via argomentando.
    È vero che oggi alcune realtà scolastiche sembrano veleggiare nella direzione del disimpegno e della disorganizzazione. Ma una comunità priva di norme e di valori inselvatichisce. La libertà di andare in qualsiasi direzione senza alcuna direzione da prendere disorienta e fa paura. L’assenza di progettualità e di sperimentazione porta alla perdita dell’interesse e all’appiattimento della conoscenza. L’azione formativa che non propone modelli, che non propone la testimonianza personale, è gioco vuoto e insensato. Se la scuola si fa complice di questi pericolosi qualunquismi, si trasforma facilmente da palestra culturale in luogo di disadattamento e di dispersione. È vero, i giovani vogliono fare quello che vogliono, ma hanno bisogno di sapere quello che vogliono; ed è compito degli adulti aprire loro la strada e abituarli a misurarsi con la vita. La scuola che declina questo affido o che in nome di qualsivoglia principio non offre questo servizio, è una agenzia generatrice di dispersione, di disagio personale e sociale.
    «Noi adolescenti – scrive Roberta, studentessa di terza liceo – che non abbiamo ancora una visione chiara della vita, né di come questa potrà essere domani, abbiamo bisogno di punti di riferimento». Se questa è la richiesta esplicita dei nostri ragazzi, noi – genitori, insegnanti – chiamati a non dare dei sassi a chi ci chiede pane da mangiare, dobbiamo loro una risposta coraggiosa e immediata, nonostante le nostre incertezze esistenziali, la pigrizia e la stanchezza, il bagaglio di delusioni e fallimenti che ci portiamo dietro. Perché se dispersione, nel senso più stretto del termine, comporta una perdita multipla, uno spreco su tutti i fronti, come avviene per un recipiente bucato che non riesce a contenere il suo liquido, di fronte al rischio di tale rovina, la nostra disattenzione, il nostro disimpegno non avrebbero scusanti e sarebbero indiscutibilmente colpevoli.
    La dispersione culturale – o scolastica, per gli aspetti più prossimi al mondo della scuola – va affrontata con ogni mezzo disponibile, ma soprattutto con grande intelligenza progettuale. Azioni circoscritte, limitate in quanto a tempi, ambienti e modalità, risulterebbero inutili e ulteriormente dispersive. Le energie necessarie all’impresa vanno convogliate insieme e non frazionate. In questa prospettiva, attingendo alle sollecitazioni del mondo di oggi, e riflettendo sull’esperienza di una vita vissuta nella scuola, provo a individuare qualche pista per una progettualità «antidispersione».

    Scuola e famiglia

    Un’efficace opera di costruzione (qualche volta di ricostruzione) educativa dei giovani non può prescindere dall’impegno delle famiglie. La scuola, certo, non può farne le veci, né surrogarne i doveri, ma non può agire indipendentemente da esse. Un lavoro formativo che non tenesse conto delle istanze che nella personalità di ciascun alunno provengono dall’ambiente familiare, sarebbe condannato al fallimento. Per quanto faticosa da percorrere, la strada del coinvolgimento dei genitori nell’azione educativa e didattica della scuola è condizione essenziale per il successo scolastico. Incontrarsi non è agevole. Troppo spesso l’incontro si fa scontro duro, nel quale insegnanti e genitori si scambiano accuse di inefficienza, tentando di addossarsi reciprocamente colpe e responsabilità. Sedersi l’uno di fronte all’altro, condividere i problemi come problemi comuni (perché comuni sono i ragazzi che la vita ci affida), sentirne insieme l’ansia, la sofferenza, il bisogno di trovare le soluzioni migliori, malgrado l’inadeguatezza di noi adulti, incalzati da un mondo tecnologico che corre più veloce dei nostri pensieri e dal turbinoso mondo giovanile che stravolge le nostre conoscenze e i nostri sogni. Al dialogo e alla collaborazione scuola-famiglia mirava il Legislatore con l’istituzione degli Organi Collegiali, circa trent’anni fa; ma la presenza dei genitori nella scuola, avvertita spesso come invadenza, altre volte piegata a strumento di incursione nell’azione didattica della scuola, è andata diradando fino a ridursi ad esercizio formale di diritto scarsamente finalizzato. Ritrovare la strada di quel dialogo e di quella collaborazione, smettendo la maschera dell’arroganza presuntuosa dietro cui spesso ci si nasconde, e tornare a parlare del bene prezioso che sono i nostri ragazzi, quel bene che è nostro dovere custodire proteggere e indirizzare.

    Ordine, impegno, disciplina

    Da gran tempo la scuola ha perso quota rispetto alla sua rotta istituzionale. Concepita per essere essenzialmente formativa e successivamente invasa da richieste di ogni genere nonché da interventi legislativi frammentari e disorganiche sperimentazioni, ha finito per smarrire la prima ragione di costituire agenzia formativa in grado «di offrire occasioni di sviluppo della personalità in tutte le direzioni… mediante l’acquisizione di conoscenze fondamentali specifiche, la conquista di capacità logiche, scientifiche, operative e delle corrispondenti abilità e la progressiva maturazione della coscienza di sé e del proprio rapporto con il mondo esterno». Obiettivi che in tutto l’arco formativo di base (dalla scuola dell’infanzia al secondo grado) sono perseguibili solo attraverso l’impegno e lo studio costanti, l’acquisizione dell’ordine mentale e dei metodi di lavoro, l’autodisciplina e il controllo delle proprie modalità di essere e delle proprie azioni. È appena il caso di notare che non chiedere la continuità nello studio, accettando per esempio la programmazione delle prove e delle interrogazioni, tollerare il disimpegno e ammorbidire i giudizi sui compiti, non verificare costantemente con esercitazioni la correttezza del metodo usato, squalificano la professionalità degli insegnanti e segnano il degrado della scuola. Una scuola antidispersione deve essere ordinata negli ambienti e nell’organizzazione, deve dare agli alunni sicurezza e senso di appartenenza, deve promuovere l’acquisizione di competenze attraverso la conoscenza e la scienza, deve addestrare e abituare alla sperimentazione e alla ricerca con l’applicazione sistematica di regole e di metodo.

    Diritti e doveri

    Nel mondo occidentale, ricco e opulento, dalle tecnologie avanzate, l’idea del diritto sembra costituire la chiave di volta culturale della civiltà. Universalmente riconosciuti e giustamente rivendicati i diritti dell’uomo e della persona, i diritti delle donne, del fanciullo, del malato, degli studenti, degli anziani, del consumatore e perfino degli animali. Ma se è vero che la situazione di diritto nasce nel momento in cui la presenza dell’altro impone un limite alle proprie tendenze narcisistiche di spadroneggiare l’universo, e apre la strada alla tolleranza, alla comprensione e alla collaborazione, si può dire a ragione che il diritto deriva – non precede – dalla istanza del dovere. Un diritto che non muove dal riconoscimento e dall’esercizio effettivo del dovere è spregiudicata menzogna e non merita riguardo. «Il diritto – come osservava acutamente il Mazzini – non può che ordinare una resistenza, distruggere, non fondare. Il dovere edifica e associa; scende da una legge generale, laddove il primo non scende che da una volontà». È proprio della scuola insegnare ai giovani che nulla è acquisito per sempre, che ciò che si è ricevuto va apprezzato e conservato, che il domani è fatto delle risorse di oggi. Va spiegato e fatto capire come i frutti del progresso, gli strumenti del benessere nati dalle conquiste della scienza e della tecnica, maturati in lunghi anni di lavoro e di studio, sono conquiste tanto preziose quanto fragili: l’incuria incosciente e l’ignoranza superba possono disperderle in breve tempo. E va ricordato, continuamente, che il giusto diritto di percorrere nuove strade, in tutti i campi, va esercitato con la prudenza che nasce dall’ascolto di chi ha il compito di trasmettere conoscenze e cultura, e va sempre e comunque subordinato al dovere di elaborare scienza con il lavoro di apprendimento e di studio.

    Analfabetismi e learning-set

    I programmi di istruzione e di formazione della scuola italiana possono essere considerati il fiore all’occhiello della nostra cultura democratica e liberale. Orientamenti didattici che affondano le radici in una tradizione pedagogica di alto livello morale, che ha in Vittorino da Feltre, nel Pestalozzi, in don Bosco, in Cena, in Gentile, nella Montessori, in don Milani i suoi pionieri riconosciuti e apprezzati nel mondo. Ma nella sua lunga storia la scuola, che pure ha contribuito a curare e sanare le piaghe dell’ignoranza endemica, nonostante le migliori intenzioni proclamate a gran voce, non riesce ancora a vincere la battaglia contro i nuovi pericolosi analfabetismi che minacciano i nostri studenti. L’analfabetismo operativo che, partendo da una concezione idealistica del sapere, riduce la scienza ad accumulo di conoscenze e di nozioni, e stenta a varcare le soglie del sapere intellettuale e a tentare le vie della sperimentazione, cioè dell’investimento della conoscenza in operazioni volte a cambiare il mondo. L’analfabetismo metodologico: nella scuola dei saperi mediocri assai spesso viene premiata la quantità piuttosto che la qualità, i livelli di eccellenza sono riferiti impropriamente agli allievi che riescono a ripetere con maggiore precisione quanto contenuto nei libri o esposto dagli insegnanti, e non a quegli altri che in virtù di questi stimoli, seguono strade impervie e, per tentativi ed errori, imparano l’arte della ricerca e della scoperta. Ripensare i programmi enciclopedici delle varie discipline e puntare sui saperi di base e sui metodi di ricerca, sarebbe la straordinaria sfida della scuola, già attuabile, a mio parere, anche a livello di singola istituzione scolastica. L’analfabetismo motivazionale per cui assistiamo impotenti (ma a volte con colpevole indifferenza) al progressivo allontanamento dei giovani dalla scuola per perdita di interesse. È paradossale che proprio loro, che della scuola hanno bisogno, finiscono con l’estraniarsi da essa e abbandonarla senza troppi rimpianti. Vedo a scuola ragazzi cercare con cura le vie di fuga dall’impegno, ritardare il momento dell’ingresso in aula, cercare ogni buon motivo per anticipare l’uscita, programmare le assenze e i permessi in rapporto alle materie della giornata scolastica; vedo volti tristi, rassegnati, insofferenti, e avverto con profondo turbamento l’allergia malcelata che certi ragazzi sentono nei confronti di qualche professore, o peggio, di qualche professore nei confronti dei loro alunni! Fortunatamente non si tratta di situazioni diffuse, ma resta il fatto che simili tendenze, quando si verificano, devono rappresentare per noi l’assillo professionale che deve costringerci, spalle al muro, a dare una risposta che non ricorra alla vecchia strategia dello scaricabarile. È certo che la scuola, per costituire un autentico learning-set, un laboratorio di apprendimenti, deve essere motivante; recuperando la sana competitività, il riconoscimento del merito, il piacere del gioco della conoscenza, potrà arginare i preoccupanti fenomeni di dispersione derivanti dalla perdita di incentivo e di motivazione. L’analfabetismo affettivo e valoriale, più drammatico e disorientante degli altri analfabetismi, rappresenta il grido di dolore di una generazione di giovani prigionieri della solitudine, del desiderio frustrato di comunicare e di amare, della disperante libertà di azione in un deserto privo di orizzonti e di richiami. I nostri ragazzi, talora ricchi di tutto, ma poveri e infelici dentro per la struggente incapacità di dare e di ricevere amore, loro che cercano un appiglio nel capo di abbigliamento griffato, in uno spinello fumato di nascosto, nella macchina su strada e nella gestione personale del proprio libretto di giustificazione delle assenze allo scadere del diciottesimo anno di età, sono proprio quelli che si rifugiano a tempo indeterminato tra le rassicuranti mura domestiche, che non sanno più contestare e ribellarsi, che infragiliti e sconcertati dalle esigenze della cultura dell’effimero, non riescono più a progettare il futuro, e contentandosi di vivere sul crinale del presente, non vogliono responsabilità perché non sanno più sognare. Anche questo analfabetismo la scuola è chiamata a combattere. Può combatterlo con veri uomini e vere donne disposti a mettersi in gioco nello spirito di una paternità e di una maternità adulte e consapevoli. Insegnanti di questo genere salveranno i loro alunni dall’onda d’urto della dispersione. I pusillanimi soccomberanno insieme ad essi.

    Dialogo educativo

    Socrate fu accusato di scardinare le istituzioni democratiche e la religione e di corrompere i giovani del suo tempo perché insegnava loro a pensare, a saper smascherare la meschinità della menzogna volgare con la forza della parola e del dialogo. Socrate si lasciò condannare e non volle sfuggire alla morte in obbedienza alle leggi del suo paese. Aristotele, ultimo suo discepolo, divenuto maestro, insegnava la filosofia nel peripato del liceo di Atene, passeggiando e dialogando con i suoi alunni. Dialogare, comunicare, scambiarsi parole, pensieri, sentimenti. I nostri ragazzi, pur così timidi e introversi, provano continuamente a dialogare con gli adulti che si trovano intorno. Chiedono, interloquiscono, provocano, scrivono, vogliono dialogare. Leggo, per mia abitudine, tutti i temi d’Italiano prodotti periodicamente nella mia scuola: una lettura che dà uno spaccato del mondo giovanile, e pone di fronte il bisogno che hanno i giovani di dialogo e di rapporto con gli adulti. «Anche se non rispettiamo le regole che ci sono state date, dobbiamo discuterne con i nostri genitori, con i nostri insegnanti, e non chiuderci in noi stessi, infatti è solo seguendo il loro modello e apprendendo i loro insegnamenti che si matura». Così Jessica, studentessa di sedici anni. Purtroppo gli insegnanti – come i genitori – temono sempre più questo dialogo. Barricati in cattedra, armati della propria materia di insegnamento e del registro, non si avventurano sul terreno insidioso del confronto diretto. Un po’ perché non si sentono capaci, un po’ perché paventano la sconfitta. Eppure il dialogo, accettato con umiltà, è l’unica possibilità di salvezza per tutti, educandi e educatori. La diversità dei giovani, la loro voglia di esplorare terre sconosciute, non deve essere percepita come una minaccia per l’esistenza dell’adulto. L’educatore deve offrire il suo braccio a sostegno dell’instabilità giovanile, deve dare testimonianza di sé, con la delicata fermezza della verità, senza il facile cedimento alle caricature del giovanilismo pietoso così diffuso oggi nel mondo dei peter-pan che non hanno saputo crescere, deve poter percorrere con i ragazzi quel tratto di strada comune che sia davvero un percorso in avanti per l’uno e per gli altri. Dialogo che è rispetto, investimento di fiducia, amore. Amore che, per la via del dialogo, deve arrivare al cuore dei giovani. Perché, come diceva don Bosco, «non basta amarli i giovani, ma occorre che essi si accorgano di essere amati».

    Ho proposto alcune divagazioni in disordine sparso, nate nel cuore della scuola e con la scuola nel cuore: la scuola che, come tutte le cose umane, in ogni latitudine, ha tanti difetti, ma che conserva sempre inalterate le sue potenzialità di ripresa perché tra le sue mura, nelle sue aule, si gioca ancora la formidabile scommessa del futuro dei nostri figli.


    T e r z a
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