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    Un posto per sempre


    Ilvo Diamanti

    (NPG 2005-07-78)


    È cambiato il lavoro, nel nostro tempo. E stanno cambiando, di continuo e rapidamente: gli orari, le professioni, le regole. E ancora, il contesto. Vista l’importanza assunta dai fattori globali a livello nazionale e locale. Vista la crescente instabilità dei mercati e la depressione che grava sull’economia, ormai da molti anni. Tuttavia, la «quinta indagine dell’Osservatorio sul Capitale sociale», dedicata al rapporto fra gli italiani e il lavoro, traccia un profilo contrastato, dove gli elementi di continuità e di novità si affiancano. E proietta il lavoro in un crocevia di sentimenti contrapposti: tra soddisfazione e necessità, flessibilità e in-flessibilità; fra autonomia e protezione.

    1. Oltre metà delle persone concepiscono il lavoro ideale come fonte di espressione e di relazione. Dove realizzare la propria personalità, in mezzo a persone gradevoli. Inoltre, vorrebbero un lavoro (relativamente) «libero». Ciascuno padrone di se stesso. In-dipendente. Così pensa il 54% degli italiani, che (soprattutto fra i giovani), se potesse, preferirebbe svolgere un’attività autonoma o la libera professione. Mentre uno su quattro ambisce al pubblico impiego, che garantisce sicurezza, invece che soddisfazione e reddito. Il lavoro nell’azienda industriale o artigiana, invece, ormai, attrae meno del 20% delle persone. Il lavoro dipendente privato, d’altronde, offre poche speranze di mobilità sociale e di realizzazione personale. Per di più, è diventato incerto, a rischio. Questi orientamenti non sono nuovi. Riproducono l’abitudine, radicata, a pensarsi «autonomi». Riflettono la struttura «diffusa» e frammentata dell’economia nazionale. Dove il peso dei ceti medi privati è ampio. L’appeal del lavoro in-dipendente, peraltro, favorisce la disposizione alla «flessibilità». Una parola poco definita, ma molto usata, in questa fase. Serve a indicare aspetti fra loro diversi, che, tuttavia, contrastano con la «rigidità» (presunta) dell’impiego tradizionale, associato all’immagine del posto di lavoro fisso, con regole delimitate, per tutta la vita o quasi, dove il lavoratore svolgeva la sua carriera, con poche prospettive di mobilità. Si tratta, perlopiù, di una leggenda, visto che, anche in passato, il lavoro, nella piccola come nella grande azienda, era «flessibile». I dati di questo Osservatorio (come di altre inchieste sull’argomento), tuttavia, sottolineano come la flessibilità, più che un obiettivo, oggi costituisca un «dato» diffuso. Non solo perché è difficile definire rigido l’atteggiamento di una società che coltiva il modello del «lavoro in-dipendente». Ma perché oltre metà degli italiani ritiene preferibile una remunerazione variabile in base ai risultati e il 62% si dice disponibile (anzi: meglio disposta) a un orario flessibile. D’altra parte, basta osservare la realtà. Il 22% degli occupati lavora più di 45 ore la settimana, il 24% meno di 36. Poco più della metà, insomma, rispetta un orario standard (compresa qualche ora di straordinario). Gli altri praticano regimi d’orario diversi. Parziali, saltuari, intermittenti; oppure eccedenti, dilatati, ad libitum. (Peraltro: un terzo degli occupati lavora più di 40 ore). Così la polemica circa la presunta rigidità del mercato del lavoro in Italia si dimostra infondata. Non è mai esistita rigidità, nel nostro mercato del lavoro. Probabilmente. Ma oggi meno che mai.

    2. Tuttavia, dietro all’enfasi sul «flessibile» si coglie qualche segno «in-flessibile». Inquieta, in particolare, il passaggio dal posto ai posti. Dal «Lavoro ai lavori» (per citare Aris Accornero). Sei persone su dieci vorrebbero «svolgere lo stesso lavoro per tutta la vita». Inoltre, metà degli italiani teme la diffusione dei contratti part-time o dei rapporti di collaborazione come una minaccia. Il che rende plausibile il sospetto (suggerito, in numerose occasioni, da Bruno Manghi) che per molti italiani, il lavoro autonomo e flessibile sia una necessità. Mentre, se potessero, sceglierebbero ancora un’occupazione stabile e alle dipendenze. Che abbassa i rischi e le responsabilità. Così si spiega, forse, perché, in un quadro tanto mobile e frammentato, sette persone su dieci ritengano che, fra 2-3 anni, faranno lo stesso lavoro attuale. Il che appare improbabile, viste le tendenze della legislazione e del mercato. Ma sottolinea, senza equivoci, una certa «resistenza» alle trasformazioni in atto.

    3. Per la stessa ragione, i lavoratori faticano a comprendere e ad accettare i mutamenti di scenario dell’economia e del lavoro. La globalizzazione, l’interdipendenza fra la dimensione locale e quella di molte altre aree del mondo. A parole, sembra preoccupare poco. Ma quando si traduce in fenomeni che interessano la condizione e la vita quotidiana, l’atteggiamento cambia. Non a caso gli italiani temono l’immigrazione, ma soprattutto la «delocalizzazione». Lo spostamento di attività produttive in altre zone del mondo. Che preoccupa quasi il 60% degli italiani (operai e lavoratori autonomi, in particolare).

    4. Non è facile per nessuno vivere e lavorare nell’era della mobilità, comprendere e affrontare trasformazioni tanto profonde. Ma per alcuni è più difficile. Perché le tendenze delineate investono alcuni settori, alcune figure, in modo particolarmente violento. Dal punto di vista socio-biografico: coinvolgono (e sconvolgono) soprattutto le persone con titolo di studio più basso; gli anziani e, in genere, i gruppi esterni all’attività produttiva. I pensionati e le casalinghe, soprattutto. Che assistono alle trasformazioni del lavoro restandone ai margini. Le subiscono e faticano ad adattarsi. Hanno meno strumenti per capirle, oltre che per affrontarle. Poi, tra le figure professionali, colpiscono soprattutto i lavoratori dipendenti del settore privato. Non è una sorpresa. Ma questa indagine lo ribadisce, in modo esplicito. Il 37% delle persone intervistate in questa indagine Demos-Coop pensa che la propria attività professionale abbia perduto prestigio e considerazione sociale, negli ultimi anni. Una quota di poco superiore (il 42%) esprime, invece, una valutazione opposta. C’è un solco profondo, che divide perdenti e vincenti, nel mondo del lavoro. O meglio, dei «lavori». Da un lato, i vincenti. Coloro che negli ultimi anni ritengono di aver (ulteriormente) risalito la scala della stratificazione sociale sono, anzitutto, gli imprenditori e i liberi professionisti, poi il personale tecnico, del settore pubblico e privato. Fra i lavoratori autonomi (artigiani e commercianti) come fra i dirigenti, i due orientamenti – perdita e guadagno di prestigio – si equivalgono. D’altronde, le tensioni del mercato ne hanno scosso le certezze. Il peso dei «perdenti», però, risulta elevato soprattutto fra i lavoratori dipendenti; gli operai. Disorientati dalle trasformazioni degli ultimi anni. Disposti alla flessibilità, per contrastare la precarietà; ma spaventati, come pochi, dall’impatto della globalizzazione, dell’immigrazione e della delocalizzazione. Così ritorna l’impressione che molto sia cambiato, nel rapporto fra la società e il lavoro. Ma non troppo. Se, negli ultimi decenni, si ipotizzava la fine del lavoro o comunque la sua riduzione, nel bilancio-tempo della vita, negli ultimi anni si è assistito a un processo diverso. Il lavoro si è disseminato sul territorio e oltre i confini. È divenuto intermittente. Attraversa il corso della vita delle persone, le sollecita a spostarsi, ne stimola la competizione. Allarga, per questo, le differenze, fra gruppi sociali, generazioni, professioni. Fa dell’incertezza l’unica certezza possibile. Ha reso la flessibilità e la mobilità un dato necessario. Alimentando, paradossalmente, la domanda di stabilità e di continuità. Al punto da fare immaginare, ai più, quasi per reazione, un futuro professionale senza cambiamenti. Un ritorno – impossibile – dai lavori al Lavoro.

    (La Repubblica, 17 ottobre 2004)


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