Maria Giovanna Noccelli
(NPG 2005-08-62)
«Con tutto il cuore grido,
rispondimi, Signore!
Custodirò i tuoi precetti.
Io ti chiamo: salvami!
Seguirò i tuoi insegnamenti.
Ho preceduto l’alba e ti ho invocato:
nella tua parola spero.
Anticipano i miei occhi le veglie
della notte
per meditare sulla tua parola.
La mia voce ascolta, secondo la tua bontà, Signore:
fammi vivere secondo il tuo giudizio.
A tradimento mi assediano
i miei persecutori,
sono lontani dalla tua legge.
Ma tu sei vicino, Signore,
e tutti i tuoi precetti sono verità.
Da tempo conosco le tue testimonianze,
che per sempre hai stabilite.
Difendi la mia causa e riscattami,
secondo la tua parola fammi vivere».
Un lunghissimo, bellissimo salmo, qui citato solo in parte, e chiamato «salmo alfabetico» perché, da Alef a Tau, è ripartito in una successione di versetti (176 in tutto) le cui suddivisioni sono scandite dalle lettere dell’alfabeto ebraico; tema e parola centrale di tutto il salmo, è proprio la legge. E di questa legge il salmo 118-119 (o meglio il salmista) sembra essere innamorato, esprime il desiderio di essere tutt’uno con questa legge, di diventare questa legge. A noi questa parola, «legge», risuona meno simpatica, specie se applicata a Dio e al nostro rapporto con Lui; ma non dimentichiamo che il linguaggio esprime, ad una primissima lettura, una lettura farisaica: per i farisei, ebrei strettamente osservanti, la conoscenza e osservanza della legge di Dio era tutto. Ma già scendendo a piani più profondi comprendiamo che questo amore per la legge significa in realtà amore per Dio stesso (qui identificato con la sua Legge, cioè con la sua Parola) e che il salmista sta esprimendo la gioia di essere sempre con Dio in tutte le ore e scelte della vita. Mi viene da dire, di cuore: non c’è davvero altra gioia più grande, ed è sufficiente averne fatto l’esperienza anche un giorno solo, un’ora sola della vita, per saperlo; anche se non sempre poi riusciamo a mantenere noi la nostra promessa e intenzione di vivere con Lui, ormai il cuore lo sa, che nulla ha valore, al di fuori della percezione e consapevolezza della vicinanza di Lui.
Ma Dio cosa promette a noi? E cosa è la sua Parola, se non è (e certamente non è!) precetto, osservanza, nel senso statico e stantìo, freddo, pesante, legale, che queste parole evocano? Cosa sono i giudizi, se non sono (e certamente non lo sono!) una sorta di spada di Damocle, di grande occhio scrutatore, sempre posato sulle nostre azioni, sulla nostra coscienza? Cosa insegneremo di Dio agli altri, e specie ai bambini, ai ragazzi e ai giovani, se prima di tutto non liberiamo la conoscenza di Dio da questa obsoleta pesantezza di giudice e di moralista che ormai sembra essere implicita e silente eredità del suo nome, non a caso sempre più disertato?
Come diceva un mistico, Meister Eckarth, «per trovare Dio bisogna abbandonare Dio», ossia lasciare ciò che Lui non è e trovare ciò che Lui è, ciò che è per noi. Ciò che Lui è per me personalmente. Lo chiede anche Gesù: «Ma voi, chi dite che io sia?». C’è quel «ma»: si dice tanto di me, ne senti tante, specie se sei frequentatore della Chiesa, di gruppi, di catechismi e catechesi: ma tu cosa dici di me, nel silenzio del tuo cuore maturo? Chi sono io per te? «Voi mi chiamate Signore e Maestro, e dite bene, perché lo sono»: ma questo ha per te un significato personale, esistenziale, reale? Sono il tuo Maestro? È il mio modo di pensare, di vedere la vita, di giudicare gli eventi e le persone che ti attrae, ti affascina, ti crea nostalgia, desiderio, ti mette in discussione?
Perché è da questa domanda, e da questa risposta, che dipende il nostro vero e vitale rapporto con Dio, il nostro vivere con Lui e in Lui quotidianamente trovare aiuto, gioia, sostegno, conforto, illuminazione. E dobbiamo rispondere per noi stessi, prima di farci banditori, annunciatori del nome di Dio ad altri. Perché agli altri porteremo il Dio in cui crediamo noi, qualunque lettura o studio possiamo averne fatto in proposito. E se ne abbiamo fatto solo uno studio intellettuale, se conosciamo solo «i suoi precetti» (regole di catechismo, o di morale) ma non Lui, cioè se il suo nome, il fatto di parlare di Lui, non è qualcosa che in qualche modo risveglia il nostro cuore e accende in noi, nelle nostre parole, una piccola fiamma di cui gli altri si accorgono (ammutolendo), non Lo annunceremo. Di noi si dirà ciò che Gesù dice a coloro che si fregiano di essere stati meri osservatori della legge (magari la legge della messa domenicale o di qualche altra pia riunione ecclesiale): «non vi conosco». Non vi conosco, perché voi non conoscete me, non sapete che sono venuto a portare un fuoco.
Precetti, insegnamenti, giudizio di Dio; e, soprattutto, le sue promesse. Sappiamo di cosa si sta veramente parlando quando pronunciamo le parole di questo salmo? Sappiamo cosa significa avere un Maestro, al di là della impostazione scolastica cui siamo abituati e a cui subito pensiamo? Qui si parla di precetti: «precettore» è il vero formatore della mente e della vita, e può essere uno solo. Voler seguire la legge di Dio significa voler seguire Lui stesso (e, qui, più che mai, seguire = amare); significa avere Dio stesso come legge; «e i suoi dettami non sono gravosi». Significa che, esistenzialmente, per noi, non esiste altra legge che quella di Dio; ma che cos’è la legge di Dio? Non possiamo seguire e ancor meno amare ciò che non conosciamo, o che peggio ancora conosciamo male e approssimativamente.
Questa importante domanda sarà argomento dei nostri prossimi incontri.