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    La grande storia. Trama narrativa e tematica della Bibbia /2. Evento, narrazione, trama, canone


    Carmine Di Sante

    (NPG 2005-04-03)


    I quattro fili di Arianna proposti nel dossier precedente ci permettono di non perderci nel labirinto dei libri biblici, ma non ci offrono ancora quella visione d’insieme che, con un colpo d’occhio o un solo sguardo, ci permette di cogliere l’unità reale dell’universo biblico e di rispondere alla domanda di che cosa esso sia realmente.

    NARRAZIONE ED EVENTO

    Abbiamo già trovato delle risposte: la bibbia è la parola amicale di Dio, è l’affermazione della priorità dell’altro sull’io, è la lettura della storia dal punto di vista delle vittime, è l’affermazione testarda della possibile fraternità umana. Ma chi ha fatto affermazioni come queste? E come è stato possibile farle? Quando sono state fatte? E come sono arrivate fino a noi? E poi: come dobbiamo porci di fronte ad esse? Quali garanzie che sono credibili? E poiché presuppongono la fede in un Dio particolare – Jhvh – che rivendica una diversità assoluta rispetto a tutti gli altri dèi, che forse allora solo chi ha fede può accoglierle e trovarle vere? E a chi non crede in Dio, la bibbia resta, per lui, forse inaccessibile? O è inutile leggerla? E se Dio in realtà non esistesse e fosse solo una invenzione umana, come hanno pensato e pensano molti uomini e donne delle società occidentali? E infine: come superare la distanza tra queste pagine scritte millenni di anni fa e il nostro mondo di oggi alle prese con problemi così drammatici e diversi come la violenza, l’ingiustizia, il terrorismo, la globalizzazione e la stessa sopravvivenza del pianeta?
    Per rispondere a domande come queste può non bastare l’intera esistenza e esse possono trovare – e di fatto hanno trovato – molteplici risposte. C’è comunque una categoria particolare, per accostarsi alla bibbia, che prescinde e mette tra parentesi questioni come queste e offre la giusta prospettiva per affrontarle e risolverle nel modo più appropriato: la categoria della storia, intesa nel duplice senso di racconto, come quando si dice: adesso ti racconto una storia, e di evento, fatto o accadimento, come quando si dice: “bisogna studiare la storia d’Italia”. La bibbia è una storia – una Grande Storia secondo il titolo proposto – perché è un racconto e il racconto di un qualcosa (evento, fatto o accadimento) che davvero è avvenuto. Storia dice insieme e inseparabilmente questi due aspetti: racconto e qualcosa che è oltre e altro dal racconto. Questo qualcosa – che è l’evento, il fatto o l’accadimento – è sempre altro dal racconto, ma esso ci perviene sempre e solo attraverso il racconto. Prescindiamo per il momento dal problema se il qualcosa che viene raccontato è realmente accaduto oppure è un falso o una invenzione. Per ora è importante fissare il senso lessicale di questa categoria, distinguendo, come facevano i maestri della scolastica, il “che cos’è” (quid sit) dal “se è” (an sit). Dicendo quindi storia si dice necessariamente il racconto e l’evento altro dal racconto.
    Ancora due chiarificazione relative al termine evento quale contenuto del racconto.
    Evento dice innanzitutto qualcosa non deducibile né dalla ragione né inducibile dall’osservazione dei fatti empirici. La differenza irriducibile tra il testo filosofico o riflessivo e il testo narrativo è proprio qui: nel fatto che il primo è trascrizione di ciò che è dentro la ragione e al quale la ragione da sempre ha accesso, per cui, per essa, pensare è passare dall’implicito all’esplicito, mentre il secondo è annuncio di un qualcosa che è oltre la ragione deduttiva e induttiva e che da essa resta, per definizione, inattingibile. L’amico che confida all’amico: “La sai l’ultima: Filomena mi ha tradito con Roberto” esprime, nella modalità della battuta narrativa, un qualcosa al di là della sua immaginazione e del suo pensiero.
    Ma oltre che essere oltre la ragione deduttiva e oltre la ragione induttiva, l’evento riguarda soprattutto qualcosa che è accaduto non all’io ma all’altro dall’io. Per questo narrare la propria storia è biografia, per cui non si direbbe ad un amico: “ti racconto una storia” quanto piuttosto: “voglio confidarmi con te” o “ti voglio parlare di me”. La narrazione di una storia – di un evento – suppone sempre l’alterità dell’altro, ed è da questa alterità inassimilabile che la storia trae il suo fascino e fa presa su chi l’ascolta inchiodandolo.

    L’EVENTO BIBLICO

    Applicando questa categoria alla bibbia, si può dire che essa è il racconto di un evento: di un evento accaduto ad un gruppo di sbandati ed immigrati chiamati ebrei, termine che, probabilmente, rimanda a peregrinante e che si riferiva a quanti, non avendo una terra e una patria stabili, si spostavano da un luogo all’altro, per sfuggire alla fame e alla prepotenza dei gruppi più forti o violenti; di un evento – si narrava – accaduto molti secoli addietro verso il 1300 a.C., al tempo di Ramses II, uno dei Faraoni d’Egitto più dispotici di cui si ammira ancora oggi la magnificenza e la potenza (si pensi solo al tempio di Abu Simbel, vicino alla diga di Assuan); di un evento – ancora si narrava – che sarebbe stato in parte anticipato già molti secoli addietro, verso il 1800 a. C., con un personaggio chiamato Abramo dal quale, attraverso Isacco e Giacobbe, sarebbero nati i dodici patriarchi ai quali si richiamavano quel gruppo di sbandati e immigrati finiti in Egitto a causa di una tremenda carestia verificatasi nei territori in cui vagavano e che si estendevano dalla Mesopotamia alla Fenicia (l’attuale terra di Israele e Palestina); di un evento, una volta verificatosi, che avrebbe segnato per sempre la storia di quella minoranza per la quale fu non un evento accanto ad altri ma l’evento, l’evento fondatore o fondante intorno a cui si sarebbe costituita per sempre, fino ad oggi, la sua identità di popolo; di un evento che, pur accaduto in un momento storico determinato, sarebbe stato comunque vissuto sempre come attuale, per cui se ne faceva memoria per attingere da esso la forza per vivere nell’oggi e sperare nel futuro; di un evento, infine, alla cui luce sarebbero stati rilette e giudicate non solo le proprie vicende storiche, come la conquista e il possesso di una terra, l’assunzione del modello monarchico per l’autogoverno, il fallimento dei suoi sovrani, la deportazione, l’esilio e l’attesa di un futuro totalmente rinnovato, ma le vicende stesse di tutti gli altri popoli e imperi – quello assiro, babilonese, persiano, ellenistico e romano – a contatto con i quali quella minoranza si sarebbe incontrata e scontrata.

    La bibbia come racconto di un evento

    Ma cosa vuol dire evento? Etimologicamente il termine rimanda al verbo e-venire che vuol dire venire da fuori (ex), e con esso si intende tutto ciò che, all’interno di un gruppo, di una cultura o di un soggetto, proviene da altrove, da un principio o luogo che non dipende dall’io – dalla sua storia, dal suo volere, dalla sua intelligenza o dalle sue strategie – ma si offre all’io, nel senso che gli si dona, e gli appare e, in questa offerta, donazione e apparizione, lo riempie di sorpresa e di stupore. Per questo l’evento è sinonimo di irruzione, di ciò che ir-rompe dal di fuori, come il fulmine o il temporale e, irrompendo, rompe l’ordine o sistema costituito, ridefinendolo e creando un nuovo ordine. Da questo punto di vista l’evento ha lo stesso significato di ciò che, sul piano fenomenologico, Heidegger intende per esperienza: “Fare esperienza di qualcosa – si tratti di una cosa, di un uomo, di un Dio – significa che quel qualche cosa per noi accade, che ci incontra, ci sopraggiunge, ci sconvolge e ci trasforma. Parlando di ‘fare’ non si intende affatto qui che siamo noi, per iniziativa e opera nostra, a mettere in atto l’esperienza: ‘fare’ significa provare, soffrire, accogliere ciò che ci tocca adeguandoci ad esso” (M. Heidegger, In camnino verso il linguaggio, Milano 1973, p. 127).
    Se, secondo l’accezione heideggeriana appena proposta, evento ed esperienza si identificano, si può allora affermare che la bibbia è il racconto di un’esperienza: non nel senso – è da ribadire – della presa e del dominio (è questa la ragione per la quale E. Lévinas non ama questo termine, soprattutto se riferito alla bibbia), bensì nel senso di una relazione con un’alterità che ci viene incontro ed entra nel nostro mondo – “ci incontra, ci sopraggiunge, ci sconvolge e ci trasforma” – indipendentemente dall’io e senza mai farsi catturare dall’io. Un’alterità che tocca l’io senza farsene toccare è l’alterità assoluta o l’assoluto, nel senso etimologico del termine, che vuol dire sciolto e slegato dal potere dell’io su di lui. Questa alterità assoluta, con un termine tra i più venerabili e antichi (e anche tra i più ambigui), è Dio e l’esperienza che di Dio, di questo assoluto, ci tramandano le grandi tradizioni culturali, è nota come esperienza religiosa. Da questo punto di vista la bibbia, racconto dell’evento fondatore, è il racconto dell’esperienza religiosa del popolo ebraico.
    Ma in cosa consiste più propriamente questa esperienza che fonda l’esistenza di Israele e alla cui luce Israele rilegge tutta la sua storia e, cosa impensabile, la stessa storia umana? E in cosa si differenzia l’esperienza religiosa d’Israele da tutte le altre esperienze religiose dalle quali il racconto biblico prende le distanze con il suo monoteismo, incontestabile novità nella storia delle culture umane, e attribuendo un nome non-nome – Jhvh – al proprio Dio per non confonderlo con nessun altro dio o divinità e segnalando così la sua irriducibile differenza rispetto ad essi? Qual è insomma il contenuto dell’evento di cui la bibbia è il grande racconto dalla prima all’ultima delle sue pagine?
    Lo riassumiamo in questi termini: si tratta di un’esperienza in cui un gruppo di sbandati e di marginali non si vive più come parte della totalità – l’impero faraonico – al cui interno si trovava sottomesso e oppresso, ma come partner di una alterità altra dalla totalità e liberatrice dalla totalità. L’evento fondatore della bibbia, e l’esperienza che essa attesta, sono in questo passaggio sconvolgente dal Tutto all’alterità, dalla logica dell’appartenenza, entro cui si è parte, a quella della responsabilità, nel senso etimologico del termine di rispondere ad una Voce o a un Tu che chiama e a cui è impossibile sottrarsi. La bibbia narra di un gruppo di sbandati e di oppressi che, all’improvviso, non si riconoscono più come parte dell’ordine divino egiziano – l’ordine politico, culturale e economico di cui il Faraone era la personificazione – ma partner di un Dio – il Dio Jhvhaltro dall’ordine divino egiziano e instaurativo di un nuovo ordine dove ciò che conta non è l’ordine ma chi, nell’ordine, è l’ultimo e, in quanto ultimo, esposto alla indifferenza e allo sfruttamento. La bibbia è il racconto di un Dio che, a differenza degli altri dèi o divinità, non è la personificazione e la sacralizzazione del gruppo di appartenenza – che può avere l’estensione di una tribù o di un impero – ma colui che lo desacralizza e lo relativizza promuovendo l’attenzione a chi, nel gruppo, ordine o sistema, è ultimo e marginale – lo straniero, l’orfano e la vedova – e instaurando una logica che all’appartenenza sostituisce quella del faccia a faccia, della relazione e della responsabilità.
    L’esperienza di un Dio altro dalla totalità e dall’ordine o armonia e il cui interesse è per chi, nel sistema, è l’ultimo, il marginale e il dimenticato, in termini biblici, per lo straniero, l’orfano, il povero e la vedova, rappresenta una vera rivoluzione nella storia delle culture umane perché alla logica dell’appartenenza sostituisce quella della relazione e della responsabilità che sola rende possibile la stessa idea della fraternità umana.

    IL RACCONTO DELL’ESODO

    Quest’esperienza straordinaria che ha segnato l’esistenza del popolo ebraico e influito sulla storia umana, metà della quale oggi si rifà ad Abramo, il padre dei tre monoteismi, viene narrata attraverso un racconto chiamato, per i suoi contenuti, “racconto dell’esodo” (o racconto esodico) e che della bibbia è il cuore. Ogni racconto, come è noto, è ambientato in un tempo e in uno spazio, e si compone di personaggi principali e secondari che entrano in scena, parlano, si muovono, gioiscono, soffrono, lottano e agiscono per un fine. Questi elementi si ritrovano anche nel racconto esodico, rintracciabili tutti nei primi due capitoli del libro dell’Esodo con cui si apre il racconto vero e proprio:
    – l’ambiente: l’Egitto faraonico: “Questi sono i nomi dei figli d’Israele entrati in Egitto con Giacobbe e arrivati ognuno con la sua famiglia… Giuseppe poi morì e così tutti i suoi fratelli e tutta quella generazione. I figli di Israele prolificarono e crebbero, divennero numerosi e molto potenti e il paese ne fu ripieno” (Es 1,1-7);
    – il tempo: l’epoca del faraone Ramses II (1290-1224 a.C): “allora sorse in Egitto un nuovo re che non aveva conosciuto Giuseppe. E disse al suo popolo: Ecco che il popolo dei figli d’Israele è più forte di noi. Prendiamo provvedimenti nei suoi riguardi per impedire che aumenti, altrimenti, in caso di guerra, si unirà ai nostri avversari… Allora vennero imposti loro dei sovrintendenti ai lavori forzati per opprimerli con i loro gravami e così costruirono per il faraone le città deposito, cioè Pitom e Ramses” (Es 1, 8-11);
    – il primo personaggio: gli oppressori egiziani che per ordine del faraone perpetrano il genocidio della minoranza ebraica: “Gli egiziani fecero lavorare i figli di Israele trattandoli duramente… Il re d’Egitto disse alle levatrici degli Ebrei, delle quali una si chiamava Sifra e l’altra Pua: Quando assistete al parto delle donne ebree, osservate quando il neonato è ancora tra le due sponde del sedile per il parto: se è un maschio, lo farete morire; se è una femmina potrà vivere” (Es 1, 13-16);
    – il secondo personaggio: i figli d’Israele oppressi: “Nel lungo corso di quegli anni il re d’Egitto morì. Gli Israeliti gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento…” (Es 2, 23);
    – il terzo personaggio: Dio: “Guardò la condizione degli Israeliti e se ne prese pensiero” (Es 2, 25);
    – il quarto personaggio: Mosè: “La donna concepì e partorì un figlio; vide che era bello e lo tenne nascosto per tre mesi. Ma non potendo tenerlo nascosto più oltre, prese un cestello di papiro, lo spalmò di bitume e di pece, vi mise dentro il bambino e lo depose fra i giunchi, sulla riva del Nilo. La sorella del bambino si pose ad osservare da lontano che cosa gli sarebbe accaduto. Ora la figlia del faraone scese al Nilo per fare il bagno, mentre le sue ancelle passeggiavano lungo la sponda del Nilo. Essa vide il cestello fra i giunchi e mandò la sua schiava a prenderlo. L’aprì e vide il bambino: ecco, era un fanciullino che piangeva. Ne ebbe compassione e disse: È un bambino degli ebrei. La sorella del bambino disse allora alla figlia del faraone: Devo andarti a chiamare una nutrice tra le donne ebree perché allatti per te il bambino? Va’, le disse la figlia del faraone. La fanciulla andò a chiamare la madre del bambino. La figlia del faraone le disse: ‘Porta con te questo bambino e allattalo per me; io ti darò un salario. La donna prese il bambino e lo allattò. Quando il bambino fu cresciuto, lo condusse alla figlia del faraone. Egli divenne un figlio per lei ed ella lo chiamò Mosè, dicendo: Io l’ho salvato dalle acque!” (Es 2,1-10).

    Presentati l’ambiente, il tempo e i personaggi – il faraone oppressore, gli ebrei oppressi, Dio e Mosè – inizia la storia vera e propria che consiste nello scendere di Dio in campo a favore degli oppressi contro l’oppressore, con la mediazione di Mosè come suo porta-parola o profeta. La storia dell’esodo è la storia di questa discesa in campo di un Dio “strano”, cioè straordinario, che si comporta diversamente dal Dio faraone (non si dimentichi che il faraone era il Dio degli egiziani!) prendendo le difese degli oppressi, liberandoli e stabilendo con essi un patto particolare o alleanza. La storia dell’esodo è il racconto dello scontro impensabile e titanico tra il Dio dell’Egitto che, dell’Egitto, è la personificazione e la legittimazione, e un altro Dio come Dio altro dal Dio egiziano, al quale sta a cuore non l’ordine e la potenza del collettivo ma il gemito e il grido degli oppressi; ed è soprattutto il racconto della vittoria di questo Dio il quale abbatte la potenza del faraone, gettando in mare “cavallo e cavaliere” e sprofondando negli abissi gli oppressori che si opponevano alla liberazione, come canta Mosè subito dopo la traversata del mar Rosso:

    “Il nemico aveva detto:
    Inseguirò, raggiungerò,
    spartirò il bottino,
    se ne sazierà la mia brama;
    sfodererò la mia spada,
    li conquisterà la mia mano!
    Soffiasti con il tuo alito:
    il mare li coprì,
    sprofondarono come piombo
    in acque profonde.
    Chi è come te fra gli dèi, Signore?
    Chi è come te,
    maestoso in santità,
    tremendo nelle imprese,
    operatore di prodigi?
    Stendesti la destra:
    la terra li inghiottì.
    Guidasti con il tuo favore
    questo popolo che hai riscattato,
    lo conducesti con forza
    alla tua santa dimora” (Es 15, 9-13).

    La storia esodica è il racconto di un Dio altro da tutti gli altri dèi (“Chi è come te fra gli dèi Signore?/Chi è come te,/maestoso in santità,/tremendo nelle imprese,/operatore di prodigi?”) e la sua irriducibile alterità o differenza è nell’ascoltare il gemito degli oppressi: “Il Signore disse: Ho osservato la miseria del mio popolo e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso il paese dove scorre latte e miele” (Es 3, 7-8). La storia dell’esodo è il racconto di questa irriducibile differenza che è l’essenziale per comprendere in che senso il Dio biblico – il Dio d’Israele – trionfa del faraone, sommergendone nel mare “cavalli e cavalieri”: non perché dispone di più forza, ordine e potenza ma perché lui è altro dalla forza, dall’ordine e dalla potenza ed è compassione e misericordia, cioè relazione d’amore liberamente e gratuitamente offerta a chi è altro da lui e versa nel bisogno e nella sofferenza.
    Lo scontro tra il Dio di Israele e il Dio dell’Egitto non è tra due potenze, ma tra la Potenza – quella del faraone – e la Compassione o Misericordia – quella di Jhvh, il Dio di Israele – altra dalla forza e dalla potenza, e della forza e della potenza la messa in discussione e il trascendimento. Più che la vittoria della forza, il racconto esodico annuncia l’al di là della forza – la misericordia del Dio d’Israele – alla cui apparizione la forza si disintegra come ghiaccio al sole. L’esodo è il racconto di questo scontro tra il faraone d’Egitto e il Dio di Israele, tra la potenza della forza e l’impotenza – più potente della forza – della misericordia, ed è l’annuncio della vittoria di quest’ultima sulla prima. Le cosiddette “piaghe” o “prodigi” o “segni”, l’acqua cambiata in sangue, l’invasione delle rane, delle zanzare, dei mosconi e delle cavallette, la mortalità del bestiame, la grandine e le tenebre e la morte dei primogeniti, sono segno di questa vittoria, ma di una vittoria che non va interpretata come espressione della forza del Dio di Israele ma della sua misericordia.
    Pagine come queste non vanno interpretate letteralmente come l’espressione di un più di forza del Dio di Israele rispetto al Dio faraone, ma come rilettura di eventi verificatisi naturalmente o storicamente (la morte dei primogeniti potrebbe far riferimento ad un’epidemia) trasformati in linguaggio del trionfo della misericordia del Dio d’Israele sulla forza. Questo principio ermeneutico va tenuto anche di fronte ad ogni altra pagina biblica nella quale Dio viene presentato come Dio guerriero che, per Miles, è una delle immagini più rappresentative del Dio biblico: “Se fossimo costretti a dire in una parola chi sia Dio e in un’altra quale sia l’argomento della Bibbia, dovremmo rispondere che Dio è un guerriero e che la Bibbia parla di vittoria” (J. Miles, Dio, una biografia, Garzanti, Milano 1996, p. 130). Si tratta di un “guerriero” che non lotta con la forza ma con l’amore, e la cui vittoria è quella dell’amore, della misericordia e del perdono.

    LA TRAMA DELLA NARRATIVA

    Presentazione di un Dio “guerriero” che, schierandosi dalla parte degli oppressi contro gli oppressori, si rivela come compassione e come misericordia, il racconto esodico ha una sua trama narrativa di cui è necessario cogliere il disegno complessivo, che si articola in quattro grandi parti o sezioni intorno ad un luogo geografico che, contemporaneamente, è anche un grande simbolo.

    Il simbolo intorno al quale si organizza la prima parte è l’Egitto, luogo storico del regno dei faraoni e metafora dell’oppressione e della schiavitù subite dagli ebrei scesi lì a causa della carestia e grazie ad una politica inizialmente aperta e ospitale. In questa sezione, che occupa i capitoli 1-15 del libro dell’Esodo, si narra dell’irruzione di Dio come potenza liberatrice dall’oppressione del faraone il quale alla fine cede al Dio degli ebrei, la cui potenza – potenza della misericordia e della compassione – trionfa incontrastata sulla sua potenza. La prima sezione del racconto esodico è la narrazione del confronto e scontro tra la potenza del Dio degli ebrei e la potenza del Dio egiziano – il faraone –: due “potenze” paradossali e asimmetriche, perché la potenza del Dio di Israele è quella della sua parola inerme sollecitata dalla compassione per chi soffre, mentre la potenza del faraone è quella delle armi organizzate in eserciti. Il Dio di Israele non usa le armi ma solo parla, servendosi di Mosè, il suo intermediario: “Il Signore disse a Mosè: Alzati di buon mattino e presentati al faraone quando andrà alle acque; gli riferirai: Dice il Signore: lascia partire il mio popolo, perché mi possa servire! Se tu non lasci partire il mio popolo, ecco manderò su di te, sui tuoi ministri, sul tuo popolo e sulle tue case i mosconi…” (Es 8,16-17). Il Dio faraone al contrario dispone di armi e di eserciti: “Attaccò allora il cocchio e prese con sé i suoi soldati. Prese poi seicento carri scelti e tutti i carri di Egitto con i combattenti sopra ciascuno di essi. Il Signore rese ostinato il cuore del faraone, re d’Egitto, il quale inseguì gli Israeliti mentre gli Israeliti uscivano a mano alzata. Gli egiziani li inseguirono e li raggiunsero, mentre essi stavano accampati presso il mare: tutti i cavalli e i carri del faraone, i suoi cavalieri e il suo esercito si trovarono presso Pi-Airot, davanti a Baal-Zefon” (Es 14, 6-9).

    Il simbolo intorno al quale si organizzano i materiali narrativi della seconda parte è il deserto, il luogo, per Israele, dove prendere coscienza di ciò che ha vissuto, cioè dell’evento della liberazione come dono e non come autoliberazione. In questa sezione, che occupa i capitoli 15-18 del libro dell’Esodo e molte pagine sia del libro dei Numeri che del libro del Deuteronomio, il protagonista non è più Dio ma Israele appena liberato, e questo protagonismo non consiste nel dover fare ma nell’autocoscienza di ciò che gli è stato fatto, non nell’essersi liberato ma nell’essere stato liberato. Il deserto, al centro di questa sezione narrativa, è il luogo e la metafora dove il gruppo degli oppressi appena liberati è chiamato a prendere coscienza, lentamente e contraddittoriamente, di ciò che aveva sperimentato: della presenza di un Dio che si relaziona all’uomo gratuitamente e che chiede di fidarsi di lui totalmente.
    Il deserto è il luogo-simbolo di questo fidarsi di Dio e affidarsi alla sua premura con cui disseta, sfama e protegge. Luogo della invivibilità per la mancanza dell’acqua, del cibo e delle case, il deserto è vivibile solo grazie alla gratuità divina che provvede personalmente al bisogno degli scampati all’inseguimento del faraone. Le pagine del racconto delle quaglie, della manna e dell’acqua che scaturisce dalla roccia sono appunto la straordinaria messa in scena narrativa della gratuità divina di cui Israele è chiamato a prendere coscienza. La più celebre è quella della manna, “una cosa minuta e granulosa, minuta come è la brina sulla terra. Gli Israeliti la videro e si dissero l’un l’altro: Man hu: che cos’è, perché non sapevano che cosa fosse. Mosè disse loro: È il pane che il Signore vi ha dato in cibo” (Es 16, 14-15). Quando Gesù, nel discorso sulla montagna, avverte di non affannarsi per quello che si mangerà o per come ci si vestirà e di guardare agli uccelli del cielo e ai figli dei campi con il cui splendore era impossibile competere per lo stesso Salomone (“Vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro”), non fa altro che richiamare e riattivare la logica del deserto, dove il Dio liberatore si era fatto Dio educatore che inculca nella coscienza dei liberati la gratuità divina alla quale abbandonarsi (Mt 7,25ss). E quando Gesù, secondo Giovanni, nel discorso nella sinagoga a Cafarnao si presenta come “pane disceso dal cielo”, non fa altro che identificarsi con quella stessa gratuità divina rivelatasi nel dono della liberazione e della manna (Gv 6, 22ss).
    Oltre che il tema del deserto, questa sezione ne annota pure la durata: “Gli Israeliti mangiarono la manna per quarant’annni, fino al loro arrivo in una terra abitata, mangiarono cioè la manna finché furono arrivati ai confini del paese di Canaan” (Es 16,35). Quarant’anni è la durata di una generazione, cioè di un’intera esistenza. Un modo per dire che sempre si vive in forza della gratuità divina, anche una volta entrati nella terra. Questa non è il luogo dove alla gratuità divina si sostituisce il possesso, ma il luogo dove il possesso – l’avere una terra e il lavorarla – è esso stesso una modalità del dono. L’annotazione che “gli Israeliti mangiarono la manna per quarant’annni, fino al loro arrivo in una terra abitata” non vuol dire che, con l’ingresso nella terra, lo statuto del dono è abolito, ma che esso è vissuto sotto un’altra forma.

    Il simbolo intorno al quale si organizzano i materiali narrativi della terza parte è la montagna o monte, luogo di difficile localizzazione, che la tradizione cristiana dal quarto secolo d.C. ha collocato nella punta più alta della penisola sinaitica, noto anche come Oreb, che etimologicamente vuol dire “arido” o “deserto”. È questa la sezione narrativa più estesa, i cui materiali vanno dalla seconda parte del libro dell’Esodo fino a molti capitoli del libro dei Numeri, del Levitico e del Deuteronomio; ed anche la sezione più complessa, impegnativa (come è impegnativo scalare la montagna!) e assolutamente la più importante, perché in essa viene esplicitato il fine stesso della liberazione, la ragione per la quale quel gruppo di schiavi fu sottratto all’oppressione del faraone. Si tratta di una ragione paradossale che il testo biblico esprime con un verbo particolare che è servire e il cui sostantivo è servizio. Si è già riferita la motivazione con la quale, a nome di Dio, Mosè si presenta dal faraone per convincerlo a lasciar partire Israele dall’Egitto: “Il Signore disse a Mosè: Alzati di buon mattino e presentati al faraone quando andrà alle acque; gli riferirai: Dice il Signore: lascia partire il mio popolo, perché mi possa servire” (Es 8,16). Dio si china su quegli oppressi e con la sua potenza, altra alla potenza, li sottrae al dominio del faraone perché da essi vuole essere servito. Ragione paradossale che fa rabbrividire i nostri spiriti libertari e il cui scandalo può essere solo superato con lo sforzo ermeneutico attento a coglierne il significato al di là della formulazione apparentemente urtante. Servire, sul piano fenomenologico, vuol dire semplicemente eseguire il volere dell’altro, sostituendo al proprio il suo, come fa il cameriere al ristorante il cui esserci è di esserci per eseguire ciò che gli viene ordinato. Se Dio libera Israele dall’Egitto è per rivelargli ciò che egli vuole e ordinargli di eseguirlo, e ciò che Dio chiede ad Israele di eseguire non è la sua volontà padronale che sottomette ed opprime, come il faraone d’Egitto, ma la sua volontà di compassione che si china gratuitamente su chi soffre e non ha nessuno su cui contare. Il servizio, fine dell’uscita dall’Egitto, non è una nuova servitù, con cui si passa da una sottomissione ad un’altra, ma l’offerta di una possibilità inedita che apre ad altri orizzonti, come il musicista che, eseguendo le note di Bach o di Mozart, fa essere i suoni, o, chi ama, facendo la volontà della persona amata, fa essere l’amore.
    La sezione organizzata intorno al simbolo del monte è il racconto straordinario di questa possibilità inedita legata all’incontro tra il volere di Dio e il volere di Israele, tra il primo che prende l’iniziativa di parlare e il secondo che si trova elevato all’altezza della decisione con cui rispondere. Il termine biblico per eccellenza in cui si esprime questa possibilità inedita dischiusa nella storia dall’incontro tra il volere di Dio e il volere acconsenziente di Israele è patto o alleanza, in ebraico berit, che in latino viene tradotto testamentum, da cui l’italiano testamento, e che è in assoluto la categoria più importante della bibbia, sia di quella ebraica, che per questo i cristiani chiamano Primo Testamento, che di quella cristiana, chiamata per l’appunto Nuovo Testamento o Secondo Testamento.
    Suddivisa in diversi parti (racconto dell’arrivo sul monte Sinai: Es 19,1-2; il racconto dell’alleanza stipulata: Es 19ss; il racconto dell’alleanza tradita: Es 32, 1-10.15-24; il racconto dell’alleanza ricostituita o rinnovata: Es 32-34), questa sezione trova il suo vertice nel dono delle tavole della Legge consegnate da Dio a Mosè sul monte Sinai: tavole di pietra sui cui sono incise le volontà di Dio – le cosiddette 10 parole o comandamenti – e che sono volontà che provengono dall’Amore e vogliono istituire l’Amore nella storia.

    Il simbolo intorno al quale si organizza l’ultima sezione del racconto esodico è la terra promessa, tema sviluppato soprattutto nel libro del Deuteronomio e nel libro di Giosuè. È con questo libro che si conclude il racconto esodico vero e proprio e che, per questo, è da considerare parte necessaria e integrante del Pentateuco. Una lunga tradizione cristiana vuole che la terra promessa sia la metafora dei beni celesti e dell’aldilà metastorico che attendono il credente dopo morte. Un’interpretazione come questa, soprattutto se assolutizzata, fa violenza al racconto esodico, per il quale la terra promessa non riguarda l’aldilà ma questa terra e questa terra intesa, nella sua accezione più ampia, come spazio di sovrabbondanza di beni e di felicità per tutti: “Il Signore tuo Dio sta per farti entrare in un paese fertile: paese di torrenti, di fonti e di acque sotterranee che scaturiscono nella pianura e sulla montagna; paese di frumento, di orzo, di viti, di fichi e di melograni; paese di ulivi, di olio e di miele; paese dove non mangerai con scarsità il pane, dove non ti mancherà nulla” (Dt 8,7-9).
    La terra promessa, intesa come luogo di sovrabbondanza e di felicità per tutti, dove “non si mangerà il pane con scarsità” e dove a nessuno “mancherà nulla”, è la metafora dell’esistenza umana riuscita, dell’esistenza sia individuale (non è senza significato che qui il testo biblico si rivolge al “tu”) che collettiva. Il termine del racconto esodico, la ragione per la quale Dio ha liberato Israele dall’Egitto, l’ha educato nel deserto e ha stipulato con esso l’alleanza sul monte Sinai, è nell’instaurazione di un’esistenza umana realizzata sia sul piano individuale che collettivo. Con un termine più vicino alla sensibilità moderna e derivato dal pensiero greco, si potrebbe dire che il fine del racconto esodico è l’instaurazione di una polis ordinata e felice, dove il primo termine dice la dimensione oggettiva della polis, e il secondo termine il suo riflesso soggettivo.
    Ma, per il racconto esodico, si tratta di una polis il cui ordine e la cui felicità dipendono non dal volere degli dei o dalla fedeltà alle leggi, come ad esempio la polis greca, e neppure dall’intelligenza umana e dalle sue strategie progettuali, come la polis moderna, bensì dal verificarsi di una duplice condizione che non dipende né da Dio né dalla natura ma da ogni singolo uomo o io.

    La prima condizione è abitare la terra o stare nella polis non con la logica del possesso ma con lo spirito della riconoscenza: “Quando avrai mangiato e ti sarai saziato, quando avrai costruito belle case e vi avrai abitato, quando avrai visto il tuo bestiame grosso e minuto moltiplicarsi, accrescersi il tuo argento e il tuo oro e abbondare ogni tua cosa, il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da dimenticare il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione servile; che ti ha condotto per questo deserto grande e spaventoso…; che ha fatto sgorgare per te l’acqua dalla roccia; che nel deserto ti ha nutrito di manna sconosciuta ai tuoi padri…” (Dt 8, 12-16). La condizione di possibilità per una polis ordinata e felice è “il cuore di deserto”, la consapevolezza che ciò che si ha (“belle case”, “bestiame grosso e minuto”, “argento” e “oro”) è da sottrarre alla logica identitaria del possesso e inserire in quella della riconoscenza che sostituisce all’“è mio” il “mi è donato”.

    La seconda condizione è abitarla, secondo la logica dell’alleanza, comportandosi con ogni altro – lo straniero, l’orfano e la vedova – allo stesso modo con cui Dio si è comportato con Israele straniero in Egitto, con amore gratuito e disinteressato: “Osserverai dunque i comandi, le leggi e le norme che oggi ti do, mettendole in pratica. Per aver voi dato ascolto a questo norme e per averle osservate e messe in pratica, il Signore tuo Dio conserverà per te l’alleanza e la benevolenza che ha giurato ai tuoi padri” (Dt 7,11-12). Comandi, leggi e norme sono oggettivazioni della Legge consegnata da Dio sul monte Sinai, e la Legge è l’espressione dell’Amore disinteressato che Dio chiede ad Israele di acconsentire e riprodurre. La seconda condizione per l’instaurazione di una polis ordinata e felice è l’osservanza dell’alleanza: non più solo la riconoscenza con cui dico “non è mio, grazie perché me lo hai dato”, ma la giustizia con cui il “non è mio” si trasforma in restituzione, che per la bibbia è il senso stesso della giustizia intesa come movimento di amore gratuito e disinteressato nei confronti dell’altro in quanto altro.
    Instaurativa della giustizia come condizione di possibilità della fraternità umana, l’alleanza è, per questo, al centro del racconto esodico e della liturgia (cf Dt 26) che lo riattualizza ed è coerentemente ribadita sia nei momenti più importanti della storia d’Israele, come ad esempio prima dell’ingresso nella terra promessa (cf la celebre pagina di Giosuè 24, nota come “la grande assemblea di Sichem”) che nei momenti di crisi, come dopo la fine dell’esilio e il ritorno in patria al tempo di Esdra e Neemia (cf Nee 8-10).

    LA RILETTURA DELLA STORIA

    Racconto dell’evento fondatore, l’esodo fa dono, ad Israele, della sua identità profonda, che consiste nell’essere il popolo liberato da Dio dall’oppressione, condotto per quarant’anni nel deserto, portato sul monte Sinai per la stipulazione dell’alleanza e fatto entrare nella terra promessa dove scorre latte e miele. A differenza degli eventi fondatori che si istituiscono intorno alla figura dell’eroe – si pensi all’evento fondatore di Romolo e Remo o a quello babilonese del dio Marduk – e che creano modelli culturali identititari, chiusi e violenti, l’evento fondatore biblico si istituisce intorno alla figura dello straniero che, contestazione dell’eroe e della sua forza, non racconta di sé e delle sue imprese, cioè di ciò che egli ha fatto, bensì delle opere e delle meraviglie di Jhvh, cioè di ciò che gli è stato fatto gratis dall’alterità divina: “Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa. Gli egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione. Il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e con braccio teso, spargendo terrore e operando segni e prodigi, e ci condusse in questo luogo e ci diede questo paese dove scorre latte e miele” (Dt 26, 5-9). Al centro del seder di pasqua, la celebrazione annuale nella quale ogni famiglia, dal pomeriggio fino a tarda notte, ricorda l’uscita dall’Egitto, questo è il testo per eccellenza istitutrice, per ogni generazione, dell’identità non identitaria del popolo ebraico. In ogni generazione: ciò significa che l’evento dell’esodo, pur essendo accaduto in un determinato momento del passato, non rimane chiuso nel passato ma si fa presente e, in quanto presente, apre al futuro.
    Ciò vuol dire che il racconto fondatore, più che un fatto tra tanti altri della storia, è quel fatto che, nella sua unicità e grazie alla sua unicità, è, per Israele, la chiave di lettura e di interpretazione della sua storia, dalle origini fino ad oggi. La bibbia, racconto fondatore, contemporaneamente è anche lettura della storia – interpretazione, giudizio e condanna – alla sua luce. Ciò che accade nello spazio naturale e temporale non è, per l’uomo biblico, né concatenazione necessaria né contingenza casuale, ma oggettivazione e risultato dell’alleanza accolta o tradita: “Io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza” (Dt 30, 19).
    Alla luce dell’evento fondatore Israele rilegge il passato retroproiettando in esso la logica dell’alleanza già da allora stipulata da Dio con Abramo e con i patriarchi, vive il presente non subendolo ma giudicandolo alla luce della sua fedeltà o tradimento all’alleanza e soprattutto, di fronte alle smentite storiche per il prevalere dell’ingiustizia sulla giustizia e del male sul bene, guarda e tende al futuro come “a quel giorno” dove finalmente, grazie alla fedeltà alla logica dell’alleanza, la promessa di Dio potrà finalmente realizzarsi. Per questo la bibbia, più che alla storia come successione di accadimenti (è questa la ragione per la quale questi sono scarsi e irrilevanti), si interessa al principio che li sottende e ne giustifica la riuscita o il fallimento: la fedeltà all’alleanza o il suo tradimento. La grandezza di Israele non consiste nell’affermazione di una sua storia gloriosa, ma nella dichiarazione del suo fallimento a causa della mancata fedeltà all’alleanza. È questo – la mancata fedeltà all’alleanza – il principio guida che ispira i profeti e, alla cui luce, il libro dei Re e delle Cronache rilegge e spiega il tramonto della monarchia, la fine dei due regni e l’attesa di un futuro proiettato sempre più lontano.
    Ma l’evento fondatore della bibbia non è principio di rilettura solo della storia d’Israele, ma – cosa unica e sorprendente – di tutta la storia umana. Il Dio d’Israele non è infatti il Dio che fa corpo con Israele e si identifica con la sua storia e le sue istituzioni, come il dio faraone con l’Egitto, ma è il Dio altro da Israele che è prima d’Israele ed esiste senza Israele, e che in tanto è di Israele in quanto liberamente lo ha eletto. Di qui l’importanza dell’elezione che istituisce la rottura della co-appartenenza tra il divino e la sua etnia, e instaura una nuova relazione che è di libera scelta e amore.
    È noto quanto la categoria dell’elezione si sia prestata ad essere interpretata ambiguamente, come atteggiamento di autoaffermazione e di esclusione degli altri popoli, da parte di Israele. Ma, per il testo biblico, l’elezione di Israele ha come destinazione la benedizione di tutti i popoli e nazioni della terra. L’elezione quindi non è fine in sé ma ha un per e questo per è la benedizione universale: si è eletti in vista di una benedizione e di una benedizione che non esclude nessuno perché è per tutti. Questo legame costitutivo tra elezione e benedizione universale è espresso nell’atto stesso nascente dell’ebraismo attraverso la chiamata esemplare di Abramo, al quale Dio ordina di uscire dalla sua terra motivandola con la ragione che da tale uscita o esodo sarebbe derivata una benedizione per tutte le genti o nazioni della terra:

    “Vàttene dal tuo paese,
    dalla tua patria,
    e dalla casa di tuo padre,
    verso il paese che io ti indicherò.
    Farò di te un grande popolo
    e ti benedirò,
    renderò grande il tuo nome
    e diventerai una benedizione.
    Benedirò coloro che ti benediranno
    e coloro che ti malediranno
    maledirò e in te si diranno
    benedette tutte le famiglie
    della terra” (Gn 12,1-3).

    Questa idea dell’elezione finalizzata alla benedizione universale è ripresa dal profetismo per il quale il Signore ha scelto Israele per essere “luce delle nazioni” (Is 42,4), idea che si ritrova nel Nuovo Testamento sulla bocca di Simeone il quale, stringendo tra le braccia Gesù presentato al tempio, pochi giorni dopo la nascita, benedice Dio con questi termini:

    “Ora lascia o Signore
    che il tuo servo
    vada in pace
    secondo la tua parola;
    perché i miei occhi hanno visto
    la tua salvezza,
    preparata da te davanti
    a tutti i popoli,
    luce per illuminare le genti
    e gloria del tuo popolo Israele”
    (Lc 2, 29-32).

    L’affermazione che Israele è scelto come “benedizione” per tutti i popoli della terra e come “luce” per le genti vuol dire più propriamente che il suo racconto fondatore non è escludente ma rivelativo, rappresentativo ed esemplare. Esso non dice che Dio ha scelto e liberato Israele al posto di tutti gli altri popoli, bensì che quello che Dio fa ad Israele – che lo ama liberamente e gratuitamente – lo ha fatto e lo fa con tutti i popoli e con tutti gli esseri umani amati, come Israele, nella loro alterità, indipendentemente dal proprio comportamento e da ogni logica di forza e di appartenenza. Così intesa – come svelamento dell’amore che Dio ha per tutti i popoli e tutti gli essere umani gratuitamente – il racconto fondatore di Israele custodisce, nel suo particolarismo, una forma inedita di universalismo (cf A. Chiappini, cit. p. 240-41), ed è in forza di questo paradossale particolarismo sostanziato di universalismo che Israele arriva a comprendere che il suo Dio – Jhvh – non è suo ma di tutti i popoli e di tutte le genti, e che quel Dio che lo ha liberato dall’Egitto per stringere con esso l’alleanza e lo ha perdonato dopo ogni sua violazione è lo stesso Dio che ha creato Adamo, l’uomo originario, lo ha posto nel giardino dell’eden, lo ha perdonato dopo la sua disobbedienza e ha stipulato con Noè l’alleanza perpetua: “Dio disse a Noè e ai suoi figli: Quanto a me, ecco io stabilisco la mia alleanza con voi e con i vostri discendenti dopo di voi; con ogni essere vivente che è con voi, uccelli, bestiame e bestie selvatiche, con tutti gli animali che sono usciti dall’arca. Io stabilisco la mia alleanza con voi: non sarà più distrutto nessun vivente dalle acque del diluvio, né più il diluvio devasterà la terra” (Gn 9,8-11).
    I primi undici capitoli della Genesi, con cui si apre il racconto biblico, più che una introduzione al racconto fondatore ebraico, che dal capitolo 12 della Genesi si estende per tutti i rimanenti libri, sono la straordinaria messa in scena narrativa del suo significato universale: narrando di un Dio che lo sceglie, lo ama gratuitamente, stringe con esso un’alleanza, lo perdona misericordiosamente dopo ogni tradimento e tiene aperta la speranza verso un futuro riconciliato, il racconto fondatore ebraico parla dell’intera storia umana. Esodo, deserto, alleanza e terra promessa – i quattro nuclei irriducibili del racconto fondatore ebraico – sono chiavi di lettura non solo della storia d’Israele ma dell’intera storia umana che, come quella di Israele, è chiamata da Dio all’alleanza e intorno alla alleanza gioca il suo destino e il suo futuro.

    L’ORGANIZZAZIONE DEI LIBRI BIBLICI O CANONE

    Oltre che principio di lettura della storia d’Israele e di rilettura della storia umana, il racconto fondatore è anche il criterio di organizzazione dei libri della bibbia che, come si è notato, si compone di due grandi parti, le scritture ebraiche e le scritture cristiane.
    Il termine comune invalso per indicare le scritture ebraiche è quello di Antico Testamento o Primo Testamento, mentre il termine per indicare le scritture cristiane quello di Nuovo Testamento o Secondo Testamento. Il termine testamento è la traduzione latina del termine sin-theke o dia-theke con cui i Settanta, i traduttori della bibbia ebraica in greco nel II secolo a. C., rendono l’originale ebraico berit, che vuol dire alleanza o patto e che, come si è messo in luce analizzando il racconto fondatore, del racconto fondatore è il baricentro, non solo in quanto il punto o fondamento che sostiene e spiega la storia d’Israele e, attraverso la storia d’Israele, l’intera storia umana, ma anche in quanto principio di organizzazione di tutti i libri che compongono le scritture ebraiche e le scritture cristiane.
    Per quanto riguarda i libri del Primo Testamento, per la tradizione ebraica sono 24 (i profeti minori sono considerati un solo libro) e, pur essendo di genere letterario diverso e scritti in epoche diverse, essi hanno tutti a che fare con il racconto fondatore di cui sono la ripresa e la messa in luce di aspetti particolari. Per cui l’attuale ordine con cui sono disposti i libri della bibbia – sia quella ebraica che quella cristiana – non obbedisce né al criterio cronologico, che consiste nel disporli secondo il tempo della loro apparizione, né al criterio letterario, che consiste nel disporli secondo i vari stili espressivi, ma a quello teologico, che consiste nel mettere al centro il fuoco dell’alleanza e far ruotare tutto il resto intorno ad esso. Di qui le tre sezioni con cui la tradizione ebraica divide tutti i libri del Primo Testamento.

    La prima è nota come Legge o Torah e corrisponde ai primi cinque libri della bibbia, che in realtà costituiscono un solo libro, e che per questo vanno tenuti sempre insieme in un un’unica custodia o teca, come vuole il nome greco pentateuco. Tra tutti i libri della bibbia questi sono in assoluto i più importanti perché, nel loro insieme, sono la messa in scena narrativa del racconto esodico: di Dio che, in rappresentanza dell’umanità e per la benedizione dell’umanità, elegge Israele e lo destina all’alleanza per fare di questa il principio o segreto sul quale poggiano la storia – d’Israele e dell’ umanità – e il reale stesso, se è vero, come vuole A. Chouraqui, che essa “è il luogo metafisico privilegiato dell’incontro dell’Essere e degli esseri” (A. Chouraqui, Il pensiero ebraico, Queriniana, Brescia 1989, pp. 16-17).
    Il racconto esodico quindi non occupa solo il secondo libro dell’esodo ma tutti i primi cinque libri, ai quali va aggiunto anche il libro di Giosué, che racconta l’ingresso vero e proprio d’Israele nella terra promessa. E il primo libro della Genesi, che apparentemente sembra assai lontano dal racconto esodico, è esso stesso, ad una lettura avvertita, collegato profondamente ad esso: non solo perché premessa narrativa per comprendere il perché della discesa dei figli d’Israele in Egitto a causa della siccità in corso, ma perché la vicenda esodica, con un’operazione di retroproiezione o retrodatazione, è assunta, nel suo baricentro dell’alleanza, come chiave di lettura per reinterpretare la storia dei patriarchi e la stessa storia di Adamo, l’Uomo originario.

    La seconda sezione comprende, per la tradizione ebraica, i libri profetici, divisi in profeti anteriori (Giudici, Samuele e Re) e profeti posteriori (Isaia, Geremia, Ezechiele, Osea, Gioele, Amos, Obdia, Giona, Michea, Nahum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria, e Malachia). Questi libri presuppongono il racconto fondatore e soprattutto la logica dell’alleanza, il baricentro, alla cui luce viene riletto e giudicato, da parte dei profeti, il politico. Questo spiega perché libri come quelli dei Giudici o dei Re, che per la tradizione cristiana sono libri storici, in realtà sono, per la tradizione ebraica, libri profetici: perché la storia di cui essi parlano non è la storia come storiografia, come ricostruzione documentata delle imprese di Israele, bensì la storia come oggetto di giudizio e di condanna da parte di Dio che, attraverso la voce dei suoi profeti, denuncia in essa il tradimento della logica dell’alleanza per la quale è prioritario l’amore allo straniero, al povero, all’orfano e alla vedova. Applicazione nell’ambito del politico delle conseguenze dell’alleanza, i libri profetici denunciano le autorità, le istituzioni e le classi dominanti che, invece di promuovere la giustizia sociale e la fraternità, difendono i propri interessi e privilegi a danno dei poveri, e leggono il fallimento della monarchia e dei regni del nord e del sud, con il conseguente esilio e perdita di autonomia politica, non come errore strategico ma come tradimento – tradimento etico – dell’alleanza.
    Ma insieme alla denuncia i libri profetici tengono aperta la via della speranza annunciando un futuro in cui finalmente la logica dell’alleanza sarà rispettata e per Israele – e per l’intera storia umana che Israele prefigura – fiorirà un mondo di giustizia e di pace:

    “Ecco, verranno giorni
    – dice il Signore –
    in cui chi ara s’incontrerà
    con chi miete e chi pigia l’uva
    con chi getta il seme;
    dai monti stillerà il vino nuovo
    e colerà giù per le colline.
    Farò tornare gli esuli del mio popolo Israele e ricostruiranno le città
    devastate e vi abiteranno;
    pianteranno vigne
    e ne berranno il vino;
    coltiveranno giardini
    e ne mangeranno il frutto.
    Li pianterò nella loro terra
    e non saranno mai divelti
    da quel suolo
    che io ho concesso loro, dice il Signore tuo Dio” (Am 9, 13-15).

    Questo futuro di giustizia senza sfruttamento, dove il grano sarà raccolto da chi lo ha seminato e il frutto dell’uva da chi ha piantato le vigne, è collegato, da Isaia e, da lui in poi, dalla maggior parte degli altri profeti, all’apparizione della figura del messia, termine che vuol dire unto, nel senso di persona consacrata da Dio ad un compito particolare:

    “Un germoglio spunterà
    dal tronco di Iesse,
    un virgulto germoglierà
    dalla sue radici.
    Su di lui si poserà lo spirito
    del Signore,
    spirito di sapienza e di intelligenza,
    spirito di consiglio e di fortezza,
    spirito di conoscenza
    e di timore del Signore.
    Si compiacerà del timore del Signore.
    Non giudicherà
    secondo le apparenze
    e non prenderà decisioni
    per sentito dire;
    ma giudicherà con giustizia i miseri
    e prenderà decisioni eque per
    gli oppressi del paese” (Is 11, 1-4).

    In questo virgulto spuntato dalle radici di Iesse la tradizione cristiana vedrà prefigurato Gesù di Nazaret, l’uomo scelto da Dio a compiere la storia di Israele, storia rivelativa della storia umana.

    La terza sezione che compone la bibbia è costituita da una serie di libri che la tradizione ebraica chiama Scritti (sottintendendo altri scritti, quelli che restano dopo quelli del Pentateuco e quelli dei profeti) e che la tradizione cristiana conosce più comunemente come libri poetici e sapienziali. Anche questi libri (tra i quali Giobbe, Salmi, Proverbi, Qoèlet, Cantico dei Cantici e, per la tradizione cristiana, Sapienza) hanno un profondo collegamento con il racconto fondatore che presuppongono e assumono non per rileggere e giudicare il politico, cioè le istituzioni e il potere, la sfera del pubblico e del collettivo, ma il quotidiano, la sfera del privato e del feriale. Al centro dei libri sapienziali non si erge pertanto la figura del legislatore, come nel Pentateuco, né la figura del profeta, come nei libri di Amos, Isaia o Geremia, né la figura del sacerdote, come nel libro del Levitico, e neppure la figura del sovrano, come nei libri dei Re o delle Cronache, ma la persona che vive nel quotidiano e che gioisce, soffre, pensa e si interroga sul senso della sua fuggevole esistenza, tentata di pensare che, per lei, tutto è vanità: “Ho intrapreso grandi opere, mi sono fabbricato case, mi sono piantato vigneti. Mi sono fatto parchi e giardini e vi ho piantato alberi da frutto d’ogni specie; mi sono fatto vasche, per irrigare con l’acqua le piantagioni. Ho acquistato schiavi e schiave e altri ne ho avuti nati in casa e ho posseduto anche armenti e greggi in gran numero più di tutti i miei predecessori in Gerusalemme. Ho accumulato anche argento e oro, ricchezze di re e di province; mi sono procurato cantori e cantatrici insieme con le delizie dei figli dell’uomo. Sono divenuto grande, più potente di tutti i miei predecessori… Non ho negato ai miei occhi nulla di ciò che bramavano, né ho rifiutato alcuna soddisfazione al mio cuore, che godeva d’ogni mia fatica” (Qo 2, 4-10).
    A fare questa confessione è Salomone, il re che, nella storia d’Israele, rappresenta l’apogeo della gloria e che, al vertice di questa gloria, scopre che il senso dell’esistenza non è né nella potenza né nel successo né nella ricchezza né nella bellezza né nel piacere ma, come vuole il profeta Geremia, altrove: “Così dice il Signore: non si vanti il saggio della sua saggezza e non si vanti il forte della sua forza, non si vanti il ricco delle sue ricchezze. Ma chi vuol gloriarsi si vanti di questo, di aver senno e di conoscere me, perché io sono il Signore che agisce con misericordia, con diritto e con giustizia sulla terra; di queste cose mi compiaccio. Parola del Signore” (Ger 9,23). La sapienza è stare al mondo convinti che ciò che in esso conta non è né l’intelligenza (“non si vanti il saggio della sua saggezza”) né la potenza (“non si vanti il forte della sua forza”) né il possesso (“non si vanti il ricco delle sue ricchezze”) ma la conoscenza di Dio: lo stare di fronte a lui che agisce con giustizia e misericordia (“conoscere me, perché io sono il Signore che agisce con misericordia, con diritto e con giustizia sulla terra; di queste cose mi compiaccio. Parola del Signore”). Sia per la profezia che per la sapienza, ciò che conta nella vita è “la conoscenza” di Dio. Ma questa, per i libri sapienziali, più che dalla rivelazione è attinta dalla creazione, più che dalla fonte profetica dall’autosservazione, più che dall’irruzione di una voce – la voce di Dio – che viene dal di fuori, dall’ascolto di una voce che viene dal di dentro e parla attraverso la propria e altrui esperienza nella quale è come se, in forma anonima e silenziosa, operasse sempre la logica dell’alleanza. Da questo punto di vista i libri sapienziali più che un corpo estraneo al Pentateuco e alla Profezia, come alcuni esegeti hanno pensato, soprattutto nel passato, ne sono il prolungamento e la “democraticizzazione” nel senso che per essi ogni uomo e ogni donna, semplicemente attraverso la loro esperienza, possono arrivare alla stessa altezza di un Mosè e comprendere che, sempre e dovunque, due sono le cose in assoluto più importanti: stare di fronte a Dio ascoltandolo e parlandogli (di qui il libro dei salmi, tra tutti i libri sapienziali il più noto e importante) e stare accanto al prossimo operando con giustizia e misericordia:

    “I giusti vivono per sempre,
    la loro ricompensa
    è presso il Signore
    e l’Altissimo ha cura di loro.
    Per questo riceveranno
    una magnifica corona regale,
    un bel diadema
    dalla mano del Signore,
    perché li proteggerà con la destra,
    con il braccio farà loro da scudo” (Sap 5, 15-16).

    L’EVENTO RIFONDATORE O NUOVO TESTAMENTO

    La bibbia però non si compone solo delle scritture ebraiche, al cui centro c’è il racconto fondatore dispiegato nei primi cinque libri o pentateuco, e intorno al quale, come cerchi concentrici, si collocano i libri profetici e i libri sapienziali, ma anche delle scritture cristiane, 27 libri che, come si è notato, compongono il Nuovo Testamento e la cui caratteristica è di essere tutti collegati alla figura di Gesù, proclamato come christos, come messia, colui nel quale, secondo l’annuncio dei profeti, il male è vinto e il mondo risanato. Il Nuovo Testamento è il racconto di Gesù Cristo, intendendo il genitivo come oggettivo (il racconto che riguarda Gesù Cristo) e il cristo non come cognome ma come l’attributo principe che, alla domanda: “chi è Gesù?”, risponde: “egli è il cristo”, il messia. Il Nuovo Testamento è il racconto di come Gesù – ebreo e figlio di ebrei, figlio del carpentiere Giuseppe e dell’umile ragazza di Nazareth, Myriam – sia diventato messia, cristos, l’atteso d’Israele e delle genti nel quale la storia è giunta a compimento. Racconto comunque paradossale perché il messia di cui esso parla è un uomo inchiodato sulla croce come sobillatore da un procuratore romano del primo secolo dell’era cristiana, e il messianismo di cui è portatore non è quello della potenza che mette a tacere gli ingiusti e i violenti, come tutti pensavano in quel tempo, ma – antimessianismo del messianismo della ragione e delle armi – è il messianismo della mitezza che, come una pecora condotta al macello, non reagisce al male ma se lo assume sulle spalle, come voleva il Deutero-Isaia, un discepolo del profeta Isaia:

    “Disprezzato e reietto dagli uomini,
    uomo dei dolori
    che ben conosce il patire,
    come uno di fronte al quale
    ci si copre la faccia,
    era disprezzato e non ne avevano alcuna stima.
    Eppure egli si è caricato
    delle nostre sofferenze,
    si è addossato i nostri dolori
    e noi lo giudicavamo castigato,
    percosso da Dio e umiliato
    egli è stato trafitto per i nostri delitti,
    schiacciato per le nostre iniquità.
    Il castigo che ci dà salvezza
    si è abbattuto su di lui,
    per le sue piaghe
    noi siamo stati guariti.
    Noi tutti eravamo sperduti
    come un gregge,
    ognuno di noi seguiva la sua strada:
    il Signore fece ricadere su di lui
    l’iniquità di noi tutti.
    Maltrattato, si lasciò umiliare
    e non aprì la sua bocca;
    era come agnello
    condotto al macello,
    come pecora muta
    di fronte ai suoi tosatori
    e non aprì la sua bocca” (Is 53, 3-7).

    Il Nuovo Testamento è il racconto del messianismo di Gesù come antimessianismo della forza e come instaurazione di un messianismo altro che alla violenza risponde con il silenzio disarmante (“non aprì la sua bocca”, ripetuto per due volte) e con la nonviolenza, che la violenza preferisce assorbirla piuttosto che riprodurla (“il Signore fece ricadere su di lui/l’iniquità di noi tutti./Maltrattato, si lasciò umiliare/e non aprì la sua bocca”). Dalla prima all’ultima delle sue pagine, il Nuovo Testamento è annuncio che, in Gesù, nella storia è apparso un messia che di ogni altro è contestazione e il cui messianismo è evangelo, “buona” o “bella notizia” apportatrice, come vuole l’etimo del termine, di liberazione e di gioia sia agli ebrei che ai pagani, come riconosce il vecchio Simeone nel suo “Nunc dimittis” (“Ora lascia che il tuo servo vada”), prendendo tra le braccia Gesù appena nato, vedendo in quel bambino “la salvezza preparata davanti a tutti i popoli” , “la luce per illuminare le genti” e “la gloria del tuo popolo Israele” (cf Lc 2,29ss).
    Il Nuovo Testamento è il racconto di Gesù messia in quanto antimessia della forza, nel quale giunge a compimento “la salvezza preparata davanti a tutti i popoli”: le nazioni della terra di cui è “la luce” e Israele di cui è “la gloria”.
    Compimento della salvezza annunciata da Dio attraverso Israele, il Nuovo Testamento è per questo legato, necessariamente e indissolubilmente, all’Antico Testamento e qualsiasi tentativo di separarlo o contrapporlo ad esso, come ha voluto Marcione, l’eretico del II secolo dell’era cristiana per il quale il Dio del Nuovo Testamento era altro dal Dio della bibbia ebraica, è privo di fondamento e compromette sostanzialmente l’interpretazione delle scritture non solo ebraiche ma anche cristiane.
    Per il Nuovo Testamento Gesù è il compimento del Primo Testamento in quanto ne realizza l’alleanza, come vuole egli stesso nella sua ultima cena, anticipando e consegnando ai discepoli il dono della sua vita sulla croce come l’unica cosa da ricordare, facendone il memoriale, come da duemila anni si ripete nelle celebrazioni cristiane in cui viene proclamato come “nuova” ed “eterna” alleanza: nuova perché riattiva la prima, ed eterna perché definitiva.
    Reintegrazione dell’alleanza stipulata da Dio con Israele e – essendo questa segno dell’alleanza universale – con l’umanità intera, il racconto del Nuovo Testamento è, per questo, più che fondatore, rifondatore: esso dice come, nella storia, in cui la logica dell’alleanza è stata cancellata e che il racconto ebraico ha riformulato, Dio non si rassegna alla sua rimozione ma instancabilmente la ripropone con il suo perdono, riaprendo sempre nella coscienza umana la possibilità del sì al suo amore che ama e chiama ad amare gratuitamente. Con il suo amore incondizionato sulla croce, con cui, a chi gli toglie la vita, continua a dire: “io ti amo lo stesso, tu per me sei sempre un amico”, Gesù infrange il determinismo della storia come storia di sopraffazione, smaschera come falsi i miti di fondazione che legittimano la violenza, sovverte qualsiasi ordine in cui non c’è il riconoscimento dell’altro in quanto altro, e riapre nella storia la possibilità edenica dell’uomo amico di Dio e amico tra amici. Il Nuovo Testamento è racconto rifondatore perché fa, dell’evento della croce, dove Dio, in Gesù, si è rivelato escatologicamente, cioè definitivamente, come misericordia e l’uomo, sempre in Gesù, come accoglienza di questa misericordia, il principio che rigenera il mondo, in cui è possibile tornare a vivere secondo la logica dell’alleanza, cioè della riconoscenza, della giustizia e della pace.

    Il racconto rifondatore, oltre che al centro dei libri del Nuovo Testamento, è anche il principio di organizzazione dei 27 piccoli libri che lo compongono. Questi, come quelli del Primo Testamento, si dispongono secondo un ordine di importanza che può essere ricostruito in tre tappe.

    Al centro del racconto rifondatore si trova il racconto della passione di Gesù e della sua morte, intese non come fine in sé – il patire per il patire e il morire per il morire – bensì come principio di risurrezione non solo di Gesù ma dell’intera storia umana. Per questo il racconto della passione è, più propriamente e contemporaneamente, racconto di risurrezione: di come Gesù finito su una croce e che, per questo, i discepoli credevano un fallito, in realtà non era morto ma vivente. Il racconto rifondatore del Nuovo Testamento è il racconto dell’evento paradossale del crocifisso che, ai discepoli che lo credevano morto, si mostra risorto: non il fallito ma il realizzato, non l’abbassato ma il glorificato, non l’umiliato ma l’innalzato, non il disceso negli abissi della morte ma l’intronizzato alla destra del Padre.
    Inizialmente il racconto di questo evento veniva trasmesso oralmente; successivamente, dopo la distruzione del tempio nel 70 d. C., fu messo per iscritto in quattro forme, dando origine agli attuali quattro vangeli che per questo è vangelo “quadriforme”. Organizzati secondo criteri redazionali diversi, a seconda della sensibilità dei singoli evangelisti e delle esigenze delle comunità delle origini, essi hanno tutti al loro centro la passione di Gesù che da sola occupa quasi la metà dei materiali narrativi, al punto da far dire a un esegeta tedesco del secolo scorso che essi sono il racconto della passione con una lunga introduzione costituita dai racconti della nascita, della predicazione e dell’attività terapeutica o miracoli. Tra i quattro evangelisti, particolare importanza occupano Luca e Giovanni: il primo perché, al suo vangelo, fa seguire il libro degli Atti, dove il senso della passione e della risurrezione viene esplicitato attraverso il racconto della discesa dello Spirito Santo e la missione della chiesa per il mondo; il secondo perché, con uno sguardo acuto come quello di un’aquila (il simbolo, per la tradizione, di Giovanni), il quarto evangelista concentra tutto nell’evento o istante della croce, chiamato “ora”, come glorificazione dalla quale torna a splendere, per l’umanità, la luce della verità.
    Intorno al racconto quadriforme della passione, si dispongono, come intorno a due centri concentrici, gli altri libri del Nuovo Testamento che della passione di Gesù sono la ripresa e l’approfondimento di alcuni aspetti.

    Il primo cerchio concentrico è rappresentato dalle lettere di Paolo (ai Romani, ai Corinti, ai Galati, agli Efesini, ai Filippesi, ai Colossesi, ai Tessalonicesi, a Timoteo, Tito, Filemone), dalla Lettera agli Ebrei e dalle lettere cattoliche (le lettere di Giacomo, di Pietro, di Giovanni e di Giuda), così chiamate perché indirizzate all’insieme delle comunità cristiane, a differenza di quelle paoline indirizzate a destinatari particolari. Queste lettere presuppongono il racconto dell’evento della morte e risurrezione di Gesù, di cui vengono approfonditi gli aspetti teologicamente o pastoralmente più importanti o alla cui luce vengono rilette le situazioni, spesso conflittuali, delle comunità cristiane.

    Il secondo cerchio concentrico è rappresentato dal libro dell’apocalisse, attribuito a Giovanni, in cui, con uno stile fantasioso e metaforicamente ardito, entro un contesto di persecuzione e di sofferenze inaudite che colpivano le chiese dell’Asia Minore, viene ribadita la certezza che, con la croce, Gesù ha sconfitto le “bestie”, personificazione del male e che, nella storia, l’ultima parola è quella di Cristo che per sempre ha vinto la morte. Apocalisse, che nel linguaggio ordinario è sinonimo di catastrofe, etimologicamente vuol dire rivelazione o svelamento, e se è vero che nelle sue pagine, con cui si chiude la bibbia, si parla spesso di draghi, bestie, serpenti e sconvolgimenti naturali che precipitano il sole e la luna sulla terra, il suo significato più profondo è nello svelare – di qui appunto il titolo del libro – che Gesù è colui che cammina con l’uomo per dirgli: “Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo e il Vivente. Io ero morto, ma ora vivo per sempre e ho potere sopra la morte e sopra gli inferi” (Ap 1,17-18).


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