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    Desideri, sentimenti e... una pastorale giovanile con cuore (Dossier: Emozioni, sentimenti e pastorale giovanile)



     
    José Luis Moral

    (NPG 2005-02-34)


    Oggi più che mai, se fosse possibile, “alla gente piace sentire. Sia quello che sia” (V. Woolf). Il “labirinto sentimentale”[1] non è solo un’esperienza alla moda, né indica soltanto che ci interessano i nostri sentimenti, ma che i sentimenti sono gli organi attraverso i quali percepiamo quello che è interessante, quello che ci importa. Per questa strada passa una chiave essenziale che condiziona in modo particolare e profondo la vita delle persone (per ragioni ovvie, soprattutto quella degli adolescenti e giovani): il nostro contatto di base con la realtà è sentimentale e pratico. In effetti, sentimenti e desideri sono quelli che ci trasmettono la prima e fondamentale informazione circa noi stessi e il mondo che abitiamo, così come costituiscono anche il trampolino per saltare aldilà di entrambe le realtà. Oggi più che mai… perché le nostre forme di vita, il bisogno di incentivare il consumo, la velocità delle innovazioni, il progresso economico, ecc. si basano su una continua sollecitazione al desiderio. Per complicare di più la questione, uniamo l’impazienza alla ricerca della soddisfazione dei nostri desideri. Così che, non rispettando il tempo delle cose, quell’impazienza turba la nostra vita emozionale fino al punto di rinchiuderla nell’insoddisfazione e addirittura nell’aggressività; inoltre, la fretta non permette di “allungare i desideri” – proiettandoli verso il futuro o costruendo un progetto – e si oppone alla tenerezza, imprescindibile in qualsiasi rapporto umano consistente.
    Se le cose stanno così e se la pastorale giovanile consiste nell’educare alla fede partendo dalla vita, non è necessario fare molte disquisizioni per comprendere il rapporto stretto che esiste fra la pastorale giovanile e la “educazione sentimentale” (già Aristotele scrisse che la paideia riguardava prima di tutto l’educazione del desiderio). L’intelligenza umana prolunga i desideri nei progetti che permettono di orientare l’azione e lasciarsi “sedurre da lontano”, ampliando in questa maniera l’ambito della motivazione. Le esperienze di adempimento, quindi, non solo sono fondate nei bisogni e desideri ma anche nei progetti; tuttavia, persino il più spirituale di questi ultimi riceve la sua forza da un desiderio, per lontano che sia. Più ancora: le relazioni tra religione o fede e mondo dei desideri sono molto profonde e intime, per niente facili da comprendere e, ancora meno, da valutare; poche dimensioni dell’esistenza umana possiedono un rapporto e un’implicazione così serrata con i desideri e i sentimenti.
    Perciò la fede e la religione sono capaci di originare una serie di atteggiamenti e comportamenti di un calibro e dinamismo tali come poche altre dimensioni della vita. Osserviamo, inizialmente, questo dato con modalità narrative; poi cercheremo sia di entrare nella “cultura del cuore” che di suggerire alcune piste educative per affrontare la attuale “cultura del desiderio”.

    Desiderio e “esperienza di Dio”

    Diversamente dall’animale, l’uomo deve sempre confrontarsi con la necessità di definire se stesso, di creare un’identità. In questa prospettiva, se volessimo riassumere in poche parole quello che è l’essere umano, lo si potrebbe identificare come un ricercatore di amore e di verità.

    Ricercatori di amore e di verità

    Amore e verità contengono e riassumono, in maggior o minore misura, tutte le aspirazioni fondamentali della vita umana, oltre a servirci perfettamente per allacciare questa definizione con i processi psicologici e sociologici fondamentali con i quali l’essere umano va prendendo coscienza di “essere persona” inserendosi nella società dove vive.
    Dunque, come ricercatore di amore, l’uomo organizza e integra la sua affettività amando e chiedendo di essere amato, fino a conseguire un equilibrio che gli permetta di vivere con soddisfazione, senza procedere sballottando qua e là perché non sa “quello che vuole” o “a chi vuole bene”.
    Allo stesso tempo e come ricercatore di verità, cerca di organizzare e integrare il suo comportamento: ha bisogno di “sapere a cosa attenersi” e perciò cerca un senso per vivere con sicurezza, senza andare di qua e di là perché non riconosce “quello che esiste” o non sa “cosa fare”.
    Sia la psicologia evolutiva, nelle sue analisi sul primo periodo della vita umana, che la sociologia, nei suoi studi relativi alla socializzazione primaria e secondaria, ci mostrano i dinamismi e le complicazioni che accompagnano la ricerca di amore e di verità o l’organizzazione dell’affettività e del comportamento.
    Detto brevemente e semplificando: nella stessa gestazione e nei primi momenti della sua esistenza, il bambino sperimenta, da un lato, il sentimento di essere accolto e amato (grazie ai vincoli speciali con la mamma); dall’altro, la sensazione di sicurezza nello scoprire ogni realtà e a cosa attenersi di fronte ad essa (grazie, in particolare, alla presenza protettrice del padre).
    Ha così origine il fenomeno della cosiddetta “fiducia fondamentale” nella vita (E. Erikson), senza la quale risulta difficile crescere armonicamente. Malgrado tutto, a mano a mano che cresciamo, l’amore e la verità che credevamo di possedere si vanno dissolvendo lentamente ma inesorabilmente. Presto incominciamo a renderci conto, per esempio, che siamo qualcosa di diverso dalla mamma e ci accorgiamo che lei “ha occhi per altri” (il padre, i fratelli e le sorelle, ecc.), quando magari la immaginavamo come una nostra esclusiva proprietà. A poco a poco, scopriamo anche che la voce del papà include il registro del comando…
    Cosa significa tutto questo “tradimento” che sperimentiamo? Espresso con un pizzico di durezza, crescere comporta la scoperta parallela – assieme a quella dell’amore e della verità – di due nuove sensazioni inquietanti – l’insoddisfazione e l’insicurezza: niente e nessuno potrà soddisfare pienamente i miei desideri di amare e di essere amato; niente e nessuno potrà assicurarmi totalmente la verità così come di non sbagliare mai nelle mie scelte. Non per nulla parliamo dell’essere umano come “ricercatore”, e non come possessore: ci definisce l’atteggiamento di cercare più che l’atto di incontrare.
    Il soprassalto risulta brusco e decisivo nell’adolescenza. E non c’è niente da fare: bisognerà imparare a vivere con queste due compagne. Ma non è mica facile…
    La psicologia conosce molto bene i processi appena descritti. Da parte sua, la sociologia afferma che proprio perché non risulta facile quel faccia a faccia con l’insoddisfazione (davanti all’impossibilità di “possedere l’amore” secondo i nostri desideri) e con l’insicurezza (davanti all’impossibilità di “disporre della verità” a nostro capriccio), sorge permanentemente la tentazione di tornare indietro anziché andare avanti. In questo senso, i sociologi affermano che oggi la nostra è una società di eterni adolescenti, vale a dire, di persone che rifiutano di crescere, di accettare la sfida di prendere decisioni e assumerne le conseguenze; siamo persone, al contrario, paralizzate per sentimenti di sfiducia di fronte all’amore e alla verità possibili.
    Umoristicamente, si potrebbe dire che sono sempre di più le persone che, piuttosto che crescere, vogliono retrocedere alle prime esperienze della vita, affannandosi per ricercare padri e madri sostitutivi per assicurarsi l’amore e la verità che non hanno il coraggio di affrontare direttamente.
    E che cosa altro che madri e padri sostitutivi sono per alcuni i rapporti personali o collettivi, l’appartenenza a gruppi e movimenti con le più pittoresche ideologie e credenze? Non spunta la “madre sostitutiva” in tante relazioni di fusione o dipendenza (con poco o molto di sado-masochismo) nelle quali finiamo sottomettendo o sottomettendoci gli uni agli altri? Non si intronizza il “padre sostitutivo” con i fondamentalismi e i dogmatismi, i razzismi di qualsiasi indole o quando sbocchiamo nel relativismo del “tutto dipende…”?
    Prescindendo dai maternalismi e paternalismi più grossolani, cosa facciamo se non fuggire dalla responsabilità di crescere quando ci abbandoniamo nelle braccia dell’alcool o della droga?; che cosa perseguiamo quando “abbracciamo tale stato…” o diamo “abbracci per tale o tale motivo…”, se non il desiderio di scoprire un volto materno sostitutivo? E nell’affidare la garanzia di sicurezza alle istituzioni o alle persone (specialmente, la sicurezza vincolata a un particolare modo di capire la gerarchia o l’obbedienza), non affittiamo l’autonomia e la libertà come contraccambio al possesso di un “padre sostitutivo” che ci esima delle nostre responsabilità? Non scivolano per chine davvero rischiose molti segnali di un certo “risveglio religioso” dei nostri giorni?
    Non finirebbero qui gli interrogativi… Ma sappiamo che esistono tante e tante domande perché neanche Dio può risolvere per noi i bisogni elementari di soddisfazione e sicurezza: sarebbe un dio falso; cioè, se così facesse “ci falsificherebbe”, trattandosi di dinamismi propri e peculiari degli uomini.

    Qualcuno ci ama incondizionatamente e gratuitamente

    Quanto segue non pretende di essere una risposta immediata a quanto appena affermato. Si tratta di prendere in considerazione un’altra esperienza, situata su un piano diverso, anche se esperienza come le altre.
    Noi cristiani sappiamo che l’esistenza umana poggia sulla base di un’esperienza fondamentale vincolata a quanto identifichiamo come fede. Perché la fede, seguendo la formulazione che di essa fece Paolo di Tarso, consiste appunto in questo, nel fare oppure avere una esperienza cha dà senso alla vita. Più specificamente, consiste nello sperimentare che Qualcuno ci ama gratuitamente e incondizionatamente. Ovvio che per Paolo quel Qualcuno era il Dio di Gesù di Nazaret.
    Dio ama tutti – sentiamo e proclamiamo noi cristiani – gratuitamente, cioè non per quanto abbiamo o facciamo, bensì per essere quello che siamo e così come siamo. Davanti a Dio, pertanto, non esiste il problema (terrificante, si può dire, perché affanno costante nella terra degli umani) di cosa fare per meritare che mi vogliano bene: Lui mi trasforma senza nient’altro in un essere amabile, degno di essere amato.
    Ci ama anche incondizionatamente. Sì, vogliamo dire che non mette nessuna condizione per offrire il suo amore; cioè, non è che ci ami se previamente osserviamo i suoi comandamenti o le norme della Chiesa o qualunque altra indicazione. L’unico “previo” è il suo amore incondizionato.
    Il Dio di Gesù di Nazaret è un Dio “pazzo per l’uomo”. Solo un Dio così potrebbe essere degno dell’uomo. Di tutte le definizione di Dio, senza dubbio, la più adeguata è quella dell’amore. Con parole di A. Torres Queiruga: “Dio è amore: un Dio consegnato per amore, che non ha più interessi che i nostri, che non sa commerciare con noi perché già ci ha dato tutto, che non nega il nostro essere perché la sua presenza consiste appunto nell’affermarlo, fondando la sua forza e promuovendo la sua libertà”.[2]
    Dopo un primo e spontaneo dubbio per crederci che l’esperienza cristiana sia così facile, che abbia un suono così bello, ci rendiamo conto che, in questo modo, la fede risolve la grossa difficoltà che ebbe Nicodemo quando ascoltò quello che Gesù diceva che gli mancava per arrivare ad essere un tipo eccezionale (“Come, alla mia età, dovrò tornare nel seno materno”?): Dio con il suo amore ci ri-crea, ci fa “nascere di nuovo”… confermando la nostra autonomia e libertà quando sembravano condannate a tante dipendenze!
    Allora, come accade con Paolo, l’amore gratuito e incondizionato di Dio ci lascia liberi, libera la mia libertà dal bisogno di guadagnare riconoscimenti – che, in un altro modo, uno sentirebbe imprescindibili per garantire terra o sicurezza alla libertà –, e della necessità di qualsiasi tipo di compromessi – tramati, la stragrande maggioranza delle volte, affinché ci riconoscano i nostri meriti (“farci degni o meritevoli di credito” o crediti) o ci stimino –. Allora ce ne accorgiamo anche che l’amore, in quanto gratuito e incondizionato, è l’unico capace di donarci la vera autonomia.
    Manca comunque un dettaglio rilevante che non deve sfuggirci. Parliamo di una esperienza particolare che obbligatoriamente deve farsi entro l’insieme delle esperienze proprie dell’uomo. E, circa l’amore, le nostre esperienze abituali saranno tutto quello che vogliamo, tranne gratuite e incondizionate. Il nostro amore, non bisogna citare troppe prove che lo confermino, al solito è abbastanza rachitico. Implicitamente o esplicitamente si vincola, almeno all’inizio, a numerosi aspetti che distano parecchio dall’amore gratuito; da un altro canto, siamo soliti essere amici e amare sotto non poche condizioni.
    Basterebbe dare un’occhiata alla “selezione delle amicizie”, agli “amori perché ci amino” o per qualunque altro fine oppure interesse (“perché tu faccia questo”, “affinché tu sia come ti dico”, infine e come no, “perché tu diventi mio o mia”…; tutto fuorché “perché tu sia tu e possa decidere liberamente”). Con questo bagaglio di esperienze non risulta strano che davanti a chi dica che esiste Qualcuno capace di amare gratuitamente e incondizionatamente, replichiamo con decisione affermando che “questo è incredibile”, che non possiamo credere che esista qualcuno in grado di amare così.
    Non crediamo a una tale notizia! Qui risiede una delle ragioni essenziali della nostra povera fede, nonostante ci confessiamo cristiani.
    Nemmeno sono lontane da tutto questo le ragioni per cui pastoralmente, soprattutto sino alla celebrazione del concilio Vaticano II, si lasciava capire che la vita cristiana consisteva nel “fare opere buone” per guadagnarsi il premio (il cielo, in primo luogo) con cui Dio riconosceva o premiava il nostro lavoro. Tuttavia siamo ormai coscienti, anche se non sempre il modo è il più adeguato per far capire quanto vogliamo dire, che è proprio tutto il contrario: esattamente perché, sin dall’inizio, Dio ci concede “il suo premio”, cioè il dono gratuito e incondizionato del suo amore o della salvezza; proprio per questo non solo possiamo fare cose buone bensì nuove tutte le cose…
    È la grazia o il regalo che Dio fa a tutti col suo amore quello che ci trasforma in “creature nuove”, capaci allo stesso tempo di ricreare quanto esiste. Pertanto, la vita cristiana ha la sua radice e il suo fondamento nell’accogliere o rifiutare questo suo dono.

    Cultura del desiderio e cultura del cuore

    Raccogliamo quanto abbiamo detto fino ad ora. In buona misura, almeno dal punto di vista psicologico, il desiderio appare come madre della fede: credere, tra le altre cose, significa disporre di una fiducia fondamentale nella vita, vale a dire, essere sicuri – con una certezza che non è dimostrabile – che la vita e il mondo possiedono un senso e una logica che, in ultima istanza ed esplicitato con il termine che forse esprime come nessun altro l’essenza della religione, permette di “sentirci salvati”. Insomma, credere rimette alla fiducia che alla fine, capiti quel che capiti, non affonderemo in un pozzo senza fondo, bensì saremo accolti e sostenuti per non finire nel nulla.

    Il desiderio che soffoca la fede e la fede che uccide il desiderio

    Fede e religione, dunque, toccano questo sentimento originario in ogni vita umana di “essere-sentirsi amati” prima di avere potuto amare. Da ciò la necessità di avere previamente simile impronta esperienziale.
    La psicologia della religione ci indica quanto sia difficile il vissuto religioso se non si sono fatte esperienze di amore, protezione e comunicazione, quelle che consentono di sentirci desiderati, amati e protetti. Per questo verso, il desiderio umano non nasce se il desiderio di un altro non lo precede.[3]
    D’altra parte, tuttavia, il desiderio scaturisce dalla separazione. Agli inizi della vita, amore e verità si soddisfano in una “situazione di fusione” dove non c’è distanza né differenza. Solamente grazie a un complesso – e doloroso – processo di separazione dalla madre che si realizza attraverso l’intervento della parola paterna, il bambino prende coscienza di sé e incomincia a riconoscersi come “essere separato”, entrando così nella trama nuova dell’alterità. Rotta in questa maniera la pretesa di costituirci come oggetto esclusivo e unico del desiderio da parte dell’altro, si produce l’autentico parto umano. Questa seconda nascita lascia in noi una ferita mai cicatrizzata pienamente, che origina una tendenza permanente alla primitiva unione-fusione, con altre parole, ciò che chiamiamo la “forza del desiderio” o, semplicemente, il desiderio: anelito a un oggetto che possa colmare e calmare quella ferita di insoddisfazione e insicurezza che hanno subìto il nostro amore e verità iniziali.
    Nonostante il desiderio sia, in qualche maniera, il seno materno della religione e della fede, ambedue possono morire soffocate dallo stesso desiderio che accompagna la loro origine, se lo si converte in una aspirazione nascosta di ritornare alla situazione infantile di fusione. Nelle esperienze di fede, concretamente, esiste il rischio di confondere Dio (o la Chiesa o qualsiasi istituzione all’interno di essa) con il seno di una madre immaginaria a cui, di fatto, mai si è rinunciato. Da questa prospettiva, si potrebbero comprendere parecchie delle crisi religiose dell’adolescenza e della prima giovinezza. Qui, in grande misura, si trovano soprattutto le “nuove forme di religiosità” che si polarizzano verso l’esaltazione dell’incontro con Dio, la comunione immediata con il suo Spirito e persino l’esacerbazione dei furori emozionali. L’evoluzione religiosa degli adolescenti, che la pastorale giovanile è chiamata ad educare, propende particolarmente a sviluppi di questo genere.
    L’intervento di una parola che liberi dal fascino della fusione, tuttavia, può avvenire in una maniera così inadeguata da uccidere il desiderio. È così che la fede si secca e il suo spazio viene occupato dal dogmatismo, dalla legge, dal fanatismo o qualunque altra tirannia invocata in nome di una “realtà ideale”. La psicologia ha riconosciuto con tratti precisi quella specie di “complesso di Jehovà”[4] il quale dirige il desiderio verso fondamentalismi e fanatismi religiosi… che purtroppo formano un’altra delle facce della religiosità attuale.

    Dalla cultura del desiderio alla cultura del cuore

    Siamo una pluralità di desideri e, alle volte, di desideri opposti. Il contesto attuale di “apoteosi delle pulsioni” e “manipolazione dei desideri” complica oltremodo questa stessa identità. Cosicché, per la vita in genere – e per l’esperienza religiosa in particolare – la questione fondamentale che si pone è quella di ordinare i desideri, cioè di incontrare un asse in grado di strutturare e organizzare l’insieme degli aneliti e aspirazioni che muovono l’esistenza di ogni persona.
    Qui non possiamo entrare nei dettagli; il primo momento però nel processo di organizzazione dei desideri consiste nel riconciliarci con loro, riconoscerli e assumerli; siamo esseri di desiderio, quindi, e grazie ad essi ci configuriamo come persone capaci di amare e di progettarci più in là di quanto siamo. La cultura del desiderio non è cattiva in quanto incita a desiderare, ma in quanto disorienta e porta a coltivare una forma egoista – e chiusa in se stessa – di desiderare. Per questo e per tanti altri motivi, la cultura attuale ha trasformato il desiderio da mezzo a fine: quando il desiderio dovrebbe servire per “essere così”, in fondo si è mutato in puro stimolo del desiderare per desiderare (e sempre consumare). Per riconciliarci e recuperare la mediazione del desiderio, bisogna passare alla cultura del cuore: solo in essa saremo capaci di riconoscere i desideri che ci permettono di amare e di sapere dove andare. A ragione, consideriamo più umano lasciarci sedurre dal cuore che non dal mero desiderio, in quanto il primo ci permette di capire il fine e il senso del secondo.
    Lasciarci sedurre dal cuore comporta, quindi, cercare di acquisire la capacità di svegliare i sensi interni per scoprire il vero oggetto di desiderio in grado di dare senso all’esistenza.

    “Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio”

    Nella ricerca di amore e verità, da sempre l’uomo ha bussato alla porta degli dei. Nel caso cristiano, se tentassimo di romanzare la storia degli incontri di Dio con gli uomini, si potrebbe fare una breve sintesi in tre capitoli orditi con una sola trama, quella dell’amore.[5] Il primo di essi si identifica con la creazione. Dio crea tutto per amore e crea l’essere umano “a sua immagine e somiglianza”. All’uomo, in principio, non sarebbe difficile avvertire in se stesso e nella natura la traccia divina che lo condurrebbe alla meta. Nonostante ciò, il cuore umano – contemporaneamente vittima e colpevole – incominciò a indurirsi, a non dare ascolto e a non capire i segni della presenza divina. Per quanto fossero molti gli avvisi spediti attraverso i profeti e altri emissari, qualcosa non andava e a Dio non rimase che attivare il secondo capitolo o fase del piano della salvezza: inviò il suo proprio Figlio perché ci rendessimo conto del destino di felicità al quale eravamo chiamati. Però… neppure così funzionò.
    Gesù di Nazaret passò facendo del bene e dicendo verità grandi e non trovarono un modo migliore per farlo tacere che ucciderlo. Fu l’imprevisto più grave nei progetti di Dio, anche se – ci si permetta l’espressione – Gli servì per imparare: adesso sapeva con piena certezza che il cuore umano era più malato di quanto immaginava; né il suo alito o i segni della creazione né la presenza fisica del Figlio bastavano per farlo funzionare adeguatamente. Non fu quella, comunque, una morte inutile.
    E… così arriviamo al terzo capitolo: lo Spirito di Gesù, oltre che abitare, si fa visibile nel cuore degli esseri umani. Paolo si accorse in fretta di questo ultimo rimedio divino: “L’amore di Dio è stato riversato e inonda i nostri cuori per mezzo dello Spirito” (Rm 5,5; 8,9); “la prova che siamo figli di Dio è che Lui ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre!” (Gal 4,6); “abbiamo ricevuto lo Spirito per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato” (1 Cor 2,12).

    Pastorale giovanile come “maieutica educativa”

    Evidentemente la pastorale giovanile, in quanto educazione alla fede, deve coinvolgersi a fondo in questi processi appena descritti. In tale senso, risulta inconcepibile una pastorale giovanile che non includa “l’educazione del sentimento” – dei desideri o, se si vuole, della volontà –, assieme all’educazione dell’intelletto.
    Arrivati alla parte conclusiva, possiamo permetterci un maggiore schematismo, quasi telegrafico, dato che si tratta di situare quell’educazione del sentimento nei ben noti processi educativi che distinguono la pastorale giovanile. In principio, l’asse vertebrale dei desideri non può essere altro che l’umanizzazione nella quale si concretizza quell’unione tra fede e vita che è l’obiettivo di ogni prassi cristiana. L’educazione, vista come maieutica dell’interiorità e della fede, e la prassi compassionevole… costituiscono, poi, la doppia annotazione finale.

    Incarnazione e umanizzazione

    Il Dio che crea per salvare e ama gratuitamente e incondizionatamente è, in fondo, una costante pro-vocazione: iniziativa previa e chiamata universale capace di provocare anche le risposte più generose e coraggiose. La pastorale giovanile deve canalizzare le sue proposte sottolineando il tema della fede come risposta alla provocazione di Dio, alle istigazioni della vita e della storia attraverso le quali ci si rivela questo amore sfidante e salvatore. Da una parte, allora, nessuna vocazione cristiana specifica affiorerà, da questo punto di vista, come “elezione per selezione” o “chiamata per eletti”; invece il Dio che ci regala tutto – dono della fede incluso – e che sempre ci sostiene, allo stesso tempo stimola e provoca la risposta della fede con la tensione e l’audacia con cui ognuno è disposto a darla. Dall’altra, annunciare il Vangelo non consisterà tanto nel sollecitare nelle donne e negli uomini del nostro tempo la fede in Dio, quanto nel presentare e rendere credibile la stupenda fede che Dio ha in tutti gli esseri umani.
    Umanizzazione e divinizzazione compongono un’unica realtà, lo stesso paesaggio guardato da sponde diverse. Le difficoltà per comprenderle unitariamente provengono, soprattutto, dalle trappole nascoste nei dualismi religiosi (immanente e trascendente, sacro e profano, interessi di Dio e interessi dell’uomo…). Di fronte ad essi dobbiamo essere chiari: non esistono, per il cristianesimo, né due mondi né due sfere diverse di interessi. La continuità fra creazione e salvezza o redenzione si rivela quando si penetra a fondo il mistero dell’Incarnazione: è l’umanità storica dell’uomo quella che si ricrea e si conferma come percorso per eccellenza sia della salvezza che della sua verificazione (quella possibile, trattandosi di un mistero che ci avvolge) nei diversi processi di liberazione.
    Quanto ci è stato rivelato e cerchiamo di vivere e interpretare si condensa in una frase molto breve: “Dio ama l’uomo”; ciò che conosciamo sotto il concetto di “dottrina cristiana” non ha altre pretese se non affermare che Dio è così, che la sua presenza nella vita umana ha senso solo affinché sia affermata e confermata di fronte alla sua pienezza. Se giustamente si parla della salvezza come futuro della liberazione o della liberazione come presente o forma storica della salvezza, tocca adesso fare leva sul bisogno di tradurre entrambi gli aspetti in termini di “senso” per qualunque vita umana. Perciò rimandiamo all’umanizzazione come “terreno comune” per definire la correlazione tra fede e vita, cultura e vangelo: la rotta per crescere e maturare come persone in una maniera tale che favorisca e contenga l’esperienza di fede; credere significa amare con tanta intensità le persone, le cose e l’universo da diventare impossibile dichiararli un semplice gioco di azzardo o un puro assurdo da sopportare tutti insieme come meglio possiamo.

    Maieutica educativa e prassi compassionevole

    Perché “tutti abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”, l’educazione alla fede deve essere, più che mai, un esercizio maieutico: non si tratta tanto di introdurre qualcosa di esterno nei giovani, bensì di aiutarli a partorire – tramite l’amore e l’orientamento umano (verità) dei desideri e del sentimento –, a scoprire e far crescere la loro interiorità, l’intimità più radicale abitata da Dio, le loro capacità autenticamente umane. Sotto l’ottica dell’educazione dei desideri, inoltre, e come abbiamo appena indicato, appare ugualmente chiaro il bisogno di “invertire il processo di trasmissione della fede”: più che mostrare prove di Dio, più che invitare e spingere a credere in Dio… dobbiamo cercare di trasmettere, di dire e rendere visibile la fede di Dio nell’uomo, come Dio – quanto!– crede in ogni giovane.
    Non dobbiamo dimenticare che, purtroppo, oggi sembra che la volontà sia sparita della scena. La cosiddetta postmodernità rifiuta il concetto di decisione volontaria, perché considera che l’“io” – e la responsabilità – si diluiscono in una fitta rete di relazioni. La tendenza a favorire la “debolezza della volontà”, a fomentare l’anarchia dei desideri, delle tendenze e, in correlazione, la perdita del centro di gravità (attorno al quale gerarchizzare idee, interessi, rapporti, ecc. della vita) finiscono per oscurarne il senso.
    Per questo, la strategia educativa concreta deve orientarsi attraverso prassi compassionevoli affinché ogni giovane possa riconoscere se stesso guardando il volto dell’altro, e in particolare quello in cui si riflette l’ingiustizia a cui porta il desidero inumano. Si dovranno privilegiare, dunque, impegni e prassi concreti che esprimono quella fratellanza in cui la lotta per i diritti del fratello rende visibile la vita che Dio stesso assunse nell’incarnazione.
    Racconta J. Barnes – nella sua Storia del mondo in dieci capitoli e mezzo – come da quando le grandi navi sostituirono le vedette con uomini che guardavano di tanto in tanto uno schermo di punti luminosi mobili, finirono le possibilità di salvezza per i naufraghi solitari. Il radar non li segnalava in quanto troppo piccoli.
    Un qualcosa di simile accade nel complicato ingranaggio della vita nel nostro mondo di oggi: abbiamo rinunciato alle sentinelle e depositato nelle mani del sistema di turno la responsabilità di prendersi cura dei naufraghi che esso stesso produce. E… chiaro!, i suoi radar non si preoccupano di queste minuzie.
    “Tutto è secondo il dolore con cui si guarda” (M. Benedetti)… È questione di cuore: abbiamo bisogno di una solidarietà compassionevole, quella del “patire cum” o del commuoversi affettivamente ed effettivamente davanti al dolore e allo sfruttamento dei più deboli (adolescenti e giovani tante volte…); dobbiamo recuperare il “corso del ricordo” – che significa “tornare a ri-passare nel cuore” (ri-cor/dis) – affinché i volti delle vittime scuotano e rimuovano gli umori egoisti e individualisti che stanno uccidendo la misericordia. L’educazione del sentimento, la strutturazione dei desideri e, in genere, la prassi cristiana con i giovani devono situarsi particolarmente in quest’ambito dell’esercizio della compassione.

     

    NOTE

    [1] Cf J.A. Marina, El laberinto sentimental, Anagrama, Barcelona 1996.

    [2] A. Torres Queiruga, Recuperar la creación. Por una religión humanizadora, Sal Terrae, Santander 1997, 39.

    [3] A. Vergote (Psicología religiosa, Taurus, Madrid 1969, 101-216) si riferisce a questo, nel contesto religioso, in termini di “eros materno” come cammino per rendere possibile la posteriore fiducia religiosa

    [4] Cf il classico studio di E. Jones, El complejo de Jehová, en: Id., Ensayos de psicoanálisis aplicado, Tiempo Nuevo, Caracas 1971, 179-203.

    [5] Abbiamo trattato, in forma narrativa, questo tema dei rapporti Dio-uomo in: Creado creador. Apuntes de la historia de Dios con el hombre, Ed. CCS, Madrid 1999.

     


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