Elisa Storace
(NPG 2004-04-80)
Una ragazza di spalle, seduta in una vasca da bagno. Accanto a lei un uomo, che con un dito conta le vertebre della sua schiena nuda… È la locandina di un film, ma è anche un’icona del nostro tempo.
Un tempo in cui la ricerca dell’essenziale si abbatte sui corpi come una scure, un tempo confuso in cui della corporeità non rimane che un profilo stilizzato, segno labile che non delimita più i confini con il mondo.
La bellezza come sottrazione di materia: il protagonista del film – un orafo ossessionato dall’idea di portare alla luce lo “spirito delle cose” – forgia il corpo della donna che ama convincendola a negarsi il cibo.
Ne fa un altro oggetto della sua arte, perché quello che lui cerca è un’idea di donna – astratta e inquietante – che non esiste in nessuna declinazione reale, che si muova nel mondo come senza ombra…
È solo un film, certo, ma getta una luce fredda su un problema reale.
Un problema che non è tanto o solo quello dell’anoressia – che pure oggi è stata dichiarata una “patologia sociale” – quanto quello del corpo, nella sua accezione più ampia.
L’altra sera, dopo cena, guardavo la televisione con i miei quando ci siamo imbattuti in quel nuovo programma (Bisturi mi pare che si chiami…), in cui i protagonisti dello “show” – sotto l’occhio impietoso delle telecamere – si sottopongono a operazioni di chirurgia estetica per migliorare il proprio aspetto fisico…
Gente di ogni età, uomini e donne.
Una moltitudine dolente e insoddisfatta del proprio corpo, incapace di vedere la bellezza dei propri “difetti”, segni speciali che ci fanno unici fra gli altri corpi, a volte segni del tempo che passa ed è perciò sempre tempo vissuto, denso di ricordi…
Ignorano, loro, il fascino segreto di quelle piccole rughe del viso che sono la traccia dei nostri passati sorrisi, così come ignorano il piacere estetico di un naso “particolare”, che attira gli sguardi e distingue un viso tra mille…
Forse il punto difficile da comprendere è che noi non abbiamo un corpo, noi siamo il nostro corpo.
Un corpo che non è un oggetto e neppure un’idea, un corpo che appunto siamo noi stessi, luogo reale che media per noi fra l’intimità dell’io e l’esteriorità del mondo.
Perché il corpo è sempre anche un modo di essere nel mondo, e allora probabilmente la lacerazione è proprio in questa relazione tormentata.
Chi scrive queste righe è una ragazza di venticinque anni, un metro e settanta per cinquanta chili.
Pochini, lo so, ma – ringraziando Dio – senza nulla di patologico: c’è chi non prende facilmente peso, neppure cadendo in un barattolo di Nutella, e chi litiga con la bilancia nonostante le diete ferree.
E tuttavia io so di dover fare attenzione, perché la linea d’ombra che separa sanità e malattia, in queste cose può essere molto sottile…
Qualche anno fa, erano molto “trendy” delle magliette con scritte su delle frasi tratte da film e romanzi, le Parole di cotone si chiamavano.
Io ne avevo una nera, che in piccole lettere azzurre recitava un antichissimo proverbio turco, molto poetico:
“Prima di amare, impara a camminare sulla neve senza lasciare traccia”.
Un paradosso, perché nessuno può camminare sulla neve senza lasciare traccia, a meno che… non sia Nessuno.