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    2. Non avrai altri dèi di fronte a me. L’unicità di Dio



    Carmine Di Sante

    (NPG 2004-03-48)


    Compagnia dell’uomo, Dio non solo si rivela come colui che ne affianca il cammino ma come colui che, per lui, rivendica di essere unico e l’unico: “Non avrai altri dèi di fronte a me”. Qui il dichiarativo del primo comandamento (“Io sono il Signore tuo Dio”) si fa imperativo (“non avrai altri dèi di fronte a me”) e l’imperativo svela la radicalità del dichiarativo: standoti accanto pretendo e ti comando che per te io sia unico e l’unico. Stare di fronte a Dio è starci escludendo ogni altro dio, ovvero ogni altra realtà che si voglia assoluta, come interpreta la traduzione dei Settanta che legge il “di fronte” (“non avrai altri dèi di fronte a me”) come “all’infuori”: “non avrai altri dèi all’infuori di me”. Dio si rivela come “unico” ed esige che Israele (Israele è sempre la pars pro toto e rappresenta il genere umano e ogni uomo) sia unico per lui. Unicità di Dio sotto lo sguardo d’Israele e unicità di Israele sotto lo sguardo di Dio! Rapporto di unicità, rapporto da unico e unico, come nell’amore l’amato al cospetto dell’amata. Quando i profeti, a partire da Osea, interpretano il rapporto tra Dio e Israele con la metafora coniugale dell’uomo perdutamente innamorato della sua donna, nonostante l’infedeltà e il tradimento di quest’ultima, non annunciano un “nuovo” Dio ma ritrascrivono, sul registro affettivo, il rapporto di unicità tra Dio e il suo popolo che costituisce il cuore stesso dell’alleanza e dei dieci comandamenti.
    Il testo nel quale, per la coscienza biblica ed ebraica, si è fissato questo rapporto di unicità tra Dio e l’uomo, è lo Shema Israel, un brano tratto dal libro del Deuteronomio (6, 4-9) e divenuto parte costitutiva della preghiera personale e della liturgia sinagogale: “Ascolta, Israele, il Signore è nostro Dio, il Signore è uno. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do ti stiano fissi nel cuore; li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando sarai seduto in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte”.
    Il rabbino E. Munk ha scritto che queste parole costituiscono “la professione di fede che accompagna l’ebreo dalla più tenera età fino alla tomba. Lo shema è con lui anche quando egli è separato o isolato da tutti i suoi fratelli, e lo rende cosciente del suo ebraismo. Lo shema è alla base del lavoro educativo dei genitori e, in ogni focolare ebraico, lo si recita quando ci si corica e quando ci si alza. Lo shema è l’assioma del pensiero e dirige la volontà sia nella vita familiare che in quella comunitaria. Lo shema è stato scelto tra i 4785 versetti del Pentateuco per essere il segno di riconoscimento d’Israele in tutti i tempi e sotto ogni orizzonte. Con lo shema i martiri sono saliti sul rogo e hanno sofferto per Israele e per il suo Dio” (E. Munk, La voi de la Torah. Commentaire du Pentateuque. Deutéronome, Fondation Samuel et Odette Lévy, Paris 19813, p. 60).
    Nello shema – solo impropriamente da ritenere una professione di fede, dal momento che in esso non è Israele a proclamare la sua fede ma Dio che, attraverso la voce di Mosè, vincola a sé il volere di Israele, in quel rapporto peculiare da unico a unico che esclude l’intrusione di ogni terzo – colpiscono soprattutto due cose: da una parte il “comandamento” dell’ascolto (“ascolta Israele”), che ha per oggetto colui che di Israele è il Signore (“il Signore è il nostro Dio”) e vuole essere ehad, “uno” e “unico”, secondo il duplice significato del termine ebraico; dall’altra il contenuto di questo ascolto, che consiste nel rivendicare, da parte di Dio, l’amore esclusivo di Israele al quale viene comandato non solo di amare un unico Dio, a differenza delle popolazioni limitrofe che avevano il culto di più dei, ma di amare solo il proprio Dio, consegnando esclusivamente a lui il proprio “cuore”. Questo, il centro dell’essere umano nella sua volontà autorealizzativa, è solo per Dio e non va consegnato ad altri, abbia questi il nome delle divinità pagane, dell’arte, di mammona o del proprio io. Lo shema istituisce Dio come uno e soprattutto come unico per Israele, e questa unicità consiste nella pretesa, da parte di Dio, di avere solo per sé “il cuore” di Israele che, per questo, è sua ”proprietà”: “Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra” (Es 19,5).

    È a questa unicità di Dio così intesa – il suo essere l’unico ad “occupare” il cuore d’Israele – che nel corso plurimillenario della sua diaspora ha attinto la forza il popolo ebraico e molti dei suoi figli, tra i quali il leggendario rabbi Aqiba che, condannato a morte nel 135 d.C., in seguito al fallimento della rivolta di Simone bar Kobba (“figlio della stella”), fece del suo martirio una vera e propria celebrazione dello shema: “Il sole nascente inondò la terra dei suoi dolci raggi e l’oriente si colorò di porpora. Allora Rabbi Aqiba, portandosi la mano sugli occhi, pronunciò con mano ferma: ‘Ascolta Israele, l’Eterno, nostro Dio, l’Eterno è uno. Tu amerai l’eterno, tuo Dio, con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze’. ‘Quest’uomo è uno stregone!’, gridò Tinio Rufo. ‘Possiede un talismano che lo rende insensibile al dolore’. I discepoli di Rabbi Aqiba si avvicinarono allora al luogo del supplizio e Rabbi Meir si rivolse al martire con queste parole: ‘Rabbi, Rabbi, il nostro cuore sanguina nel vederti soffrire così atrocemente’. ‘Miei cari figli – rispose Rabbi Aqiba – non affliggetevi per me! Finalmente sono arrivato al culmine dei miei desideri. È da 24 anni che sono consumato dalla voglia di dare la mia vita per la santificazione del Nome, come è detto: Tu amerai l’Eterno, tuo Dio, con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze. Ora questo momento è giunto e Dio sia lodato!’. Poi mormorò ancora: ‘Ascolta, Israele, l’Eterno nostro Dio, l’Eterno è Uno’. E pronunciando la parola ehad (Uno) fu afferrato dal brivido della morte e, in uno slancio supremo, la sua anima volò verso le sfere celesti” (M. Lehmann, Rabbi Aqiba, Merkos L’Inyonei Chinuch, Paris 1979, p. 299).
    Ma il secondo comandamento, oltre ad istituire l’unicità di Dio, ne vieta contemporaneamente qualsiasi forma di rappresentazione e oggettivazione: “Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo né di quanto è laggiù sulla terra”. La ragione di questo divieto va ricercata nel fatto che, per la bibbia, qualsiasi oggettivazione dell’unicità di Dio ne mette in questione l’assolutezza e l’alterità, essendo un Dio oggettivato un Dio a disposizione dell’uomo. Ma, per la bibbia, un Dio di cui l’uomo può disporre sarebbe la negazione stessa di Dio che, soggetto e mai oggetto, è lui ad irrompere nella coscienza umana sorprendendola, inquietandola e “ordinanandola”, nel duplice senso di darle degli ordini e di introdurvi l’ordine. Per la bibbia un Dio che l’uomo si rappresentasse o deducesse dal suo mondo – desiderio, inconscio, volontà, razionalità o ideologia – sarebbe semplicemente un dio “idolo”, termine che nell’originale ebraico rimanda a pesel, dal quale il nostro italiano “fasullo”. Un Dio rappresentato, frutto del cammino e della ricerca umana, è, per la bibbia, un Dio ”fasullo”, falso e privo di ogni valore e di ogni senso.
    Affermando l’unicità di Dio e vietandone la pensabilità e ogni forma di rappresentazione, il secondo comandamento ne istituisce e custodisce l’assoluta e irriducibile alterità che, irraggiungibile e impossedibile dall’uomo, è l’unico a raggiungerlo e possederlo.


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