Carmine Di Sante
(NPG 2004-02-49)
Più che un comandamento, la prima parola che Dio pronuncia è parola di autoattestazione: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù”. In queste parole, in cui si riassume l’evento esodico, Dio si rivela e si presenta come colui che ha agito nella storia di Israele e vi ha introdotto un sovvertimento, liberando un gruppo di oppressi – gli ebrei in Egitto –, stipulando con essi un’alleanza e introducendoli in una terra fertile di ogni bene in cui sarebbero rimasti a condizione che fossero stati fedeli alle clausole dell’alleanza.
In questa autodefinizione divina, che solo la ripetizione abitudinaria impedisce di cogliere nella sua vertiginosa altezza, si cela l’idea più rivoluzionaria della storia umana che soltanto la bibbia ha osato pensare e soltanto il popolo ebraico testardamente testimoniare e tramandare: l’idea di un Dio unico che non è il Dio di Israele ma il Dio di tutti gli uomini e di tutti i popoli, e che è sovrano di tutto ciò che esiste. In essa si condensa cioè l’affermazione del monoteismo biblico-ebraico alla quale nessuna cultura è pervenuta e che costituisce il cuore segreto delle religioni abramatiche, ebraismo, cristianesimo e islam, che insieme compongono quasi metà dell’attuale genere umano: “L’idea religiosa della Bibbia, percepibile negli strati più antichi che compenetrano persino le leggende ‘magiche’, è quella di un Dio supremo, che sta al di sopra di una legge cosmica, di ogni destino e di ogni costrizione: ingenerato, increato, impassibile, indipendente dalle cose e dalle loro forze; un Dio che non combatte le altre divinità o le forze dell’impurità, che non sacrifica, non divina, non profetizza né pratica la stregoneria; che non pecca né ha bisogno di espiazione, un Dio che non celebra le feste della sua vita. Una volontà divina libera che trascende ogni ente – questo contrassegna la religione biblica e ne costituisce la differenza rispetto a tutte le religioni di questa terra” (Y. Kaufmann, citato in H. Küng, Ebraismo. Passato presente futuro, Rizzoli, Milano 1993, p. 47).
In questa autodefinizione divina, riassuntiva e fondativa dell’altezza del monoteismo, va sottolineata innanzitutto la libertà sovrana con la quale Dio si presenta e si attesta come Signore: “Io sono il Signore”. “Signore” non di un popolo, di un collettivo, di una totalità ma della singolarità umana – di ogni singolarità – che per questo è istituita ed è come suo “tu”: “Io sono il Signore tuo Dio”. Dio signore dell’io: è questa la parola prima del Dio biblico. Parola non motivata, non giustificata, non rivendicata ma data, per così dire, come dato, nel senso di “ciò che è dato” e che esiste prima e indipendentemente dal volere e dalla coscienza dell’io. Come “c’è” (il y a, es gibt, there is…) il caldo, il freddo, l’amore, l’amicizia, la gioia, la follia, ecc. così c’è la signoria di Dio sul mio io. “Io – anochi, nell’originale ebraico – sono il Signore tuo”.
Signore di fatto dell’io, il senso di questa signoria è nel suo essere offerta di liberazione: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù”. Dio è Dio e rivendica la sua signoria sull’io per questa volontà di liberazione di cui gli israeliti hanno fatto esperienza uscendo dall’Egitto dove erano sfruttati e oppressi.
Questa autodefinizione – “io sono colui che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione schiavitù” – è, nella bibbia, l’autodefinizione di Dio per eccellenza che, rispetto alle autodefinizioni degli altri dèi o divinità pagane, si presenta tre volte rivoluzionaria.
Innanzitutto perché il Dio biblico non si definisce in base a ciò che opera all’interno del ciclo naturale, riproducendone e legittimandone l’ordine vitale ma gerarchico e immodificabile, come avviene nelle altre religioni che, per questo, sono naturalistiche, ma in base a ciò che egli opera all’interno della storia, irrompendo in essa e introducendovi un nuovo ordine che dell’ordine naturale, gerarchico e violento, è la messa in crisi radicale.
In secondo luogo perché irrompendo nella storia (e intendendo per storia, prima che la somma degli accadimenti la soggettività umana che ne è l’agente) Dio “si schiera” dalla parte di chi, nella società, occupa l’ultimo posto, “schiavi” e “oppressi”, dischiudendo loro un al di là della loro sorte o destino, l’al di là del possibile cambiamento e di un nuovo ordine che, per la bibbia, è l’ordine della responsabilità, della uguaglianza e della fraternità. Scandalo e miracolo di un Dio “partigiano” che si rivela come liberatore degli ultimi e degli oppressi! Ma un Dio “partigiano” che, nel suo mettersi a fianco degli oppressi non esclude gli oppressori ma, liberando gli uni, libera anche gli altri e che, rivolgendosi alla singolarità dell’io (“Io sono il Signore tuo Dio”), libera l’io da quell’originario incatenamento che è l’incatenamento dell’io a se stesso, per aprirlo alla libertà – vera libertà – della responsabilità, della giustizia e della fraternità.
In terzo luogo perché, rivelandosi come colui che si preoccupa dell’altro da sé e non di sé (“Io sono colui che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto…”), il Dio biblico opera l’impensabile rottura della identità, dove essere è essere sempre e necessariamente da sé e per sé, e annuncia l’altrimenti che essere, dove essere è far essere, limitando e riducendo il proprio essere. Sulla bocca di Dio l’“io”, questo pronome personale di forma singolare, fondamento dei nostri linguaggi e delle nostre grammatiche, subisce una trasvalutazione semantica radicale dalla quale non ci si lascerà mai sorprendere a sufficienza: un io che, nella sua autoattestazione – “Io sono il Signore tuo Dio” – non è più l’io identitario, padrone e sovrano, ma l’io dis-identitario, preoccupato non di sé ma dell’altro.
Un Dio il cui essere non è di essere per sé ma per l’altro è la definizione stessa del tetragramma, le quattro lettere (Jhwh) impronunciabili con le quali Dio si rivelò quando Mosè gli chiese: “Ecco, io arrivo agli Israeliti e dico loro: Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Ma mi diranno: Come si chiama? E io che cosa risponderò loro?” (Es 3, 13). La controrisposta di Dio è nota: “Io sono colui che sono… Dirai agli Israeliti: Io-Sono mi ha mandato a voi” (Es 3,14). Ma cosa vuol dire, per il testo biblico, “Io sono colui che sono”, questo Nome non-Nome che in greco è tradotto con Kyrios, in latino con Dominus e in italiano con Signore?
Con questa formula enigmatica Dio non dà di sé una definizione ontologica, come ha voluto l’esegesi soprattutto medioevale per la quale, in questo testo, Dio si sarebbe autopresentato come la pienezza dell’Essere di cui gli altri esseri sarebbero la partecipazione e il riflesso. Al contrario, con questa risposta, egli sembra sottrarsi a qualsiasi definizione, se è vero, come pensano alcuni interpreti, che la formula “Io sono colui che sono” può esprimere anche la volontà di non rispondere come quando, di fronte ad una domanda indiscreta, si dice: “vado dove vado” o “faccio quel che faccio”. A parte il problema di come interpretare la formula “Io sono colui che sono”, se come rivelazione del nuovo nome di Dio o come suo rifiuto di consegnarlo all’uomo, l’importante è cogliere l’irrilevanza del nome divino, per la bibbia, non lasciandosi il Dio biblico imprigionare da nessuna definizione, essendo la sua vera definizione quella di una Presenza che sorprende e si prende a cuore la sorte dell’altro: “Dicendo ‘sono con te’, ‘ti sono presente’, Dio non riserva a sé il proprio nome, ma neppure sostituisce a un nome ontologico (secondo la filosofia dell’essere) un nome dinamico (secondo una filosofia del divenire o della persona); semplicemente esprime un nome-funzione, che si risolve interamente nell’attestato e nella promessa. Come a dire: non importa come io mi chiami. Ciò che importa è che sarò sempre con te. Alla teologia del nome si sostituisce una teologia della promessa” (A. Rizzi, Esodo. Un paradigma teologico-politico, Edizioni Cultura della Pace, San Domenico di Fiesole, FI, 1990, p. 15).
Dio per la bibbia non ha nome perché il suo vero nome è di essere sempre accanto all’uomo che mai abbandona anche se è abbandonato. Egli è compagnia. La compagnia. Alla cui presenza l’uomo non è mai solo.