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    Padre in crisi, padre assente


    Mario Pollo

    (NPG 2003-05-10)



    La ricchezza, la complessità, la bellezza e la grandezza della vita umana hanno come contrappeso la fragilità, la debolezza e l’incertezza.

    L’incertezza le deriva in gran parte dal fatto che l’uomo, come diceva Nietzsche, è “un animale non definito alla nascita”, ovvero un essere progettuale che costruisce se stesso con gli strumenti che i sistemi simbolici e la cultura sociale gli mettono a disposizione.
    L’uomo, infatti, è l’unico animale che completa i suoi organi per circa un anno e mezzo dopo la nascita, e il suo cervello e le mappe neuronali sino all’età di quindici anni.
    Questo significa che la stessa costruzione degli organi fisiologici e del cervello è profondamente influenzata dall’ambiente umano, e quindi culturale, in cui essa avviene.
    Il luogo in cui la progettualità umana si manifesta per prima e in cui la fragilità e la debolezza diventano “risorsa”, perché generano “amore” e “cura” da parte dei genitori, è la famiglia.
    Il ruolo della famiglia è ineliminabile, anche perché i suoi surrogati, non riescono a garantire tutte le funzioni che essa esercita nella promozione e nella costruzione di una nuova vita umana.
    A questo proposito occorre, ad esempio, tenere conto che all’interno della famiglia i ruoli e le funzioni materne e paterne sono il frutto di un lungo processo evolutivo strettamente intrecciato con le trasformazioni della cultura e della civiltà.
    Questo processo ha prodotto una complementarietà tra il ruolo materno e quello paterno. Infatti il padre, sin dai primordi della storia, ha sempre rappresentato in modo concreto l’insieme delle leggi e degli ordinamenti che presiedono la vita di un determinato gruppo sociale, oltre ad essere il responsabile del processo educativo che assicurava al giovane l’appartenenza allo stesso gruppo sociale. La madre, invece, ha sempre amministrato i valori più alti e più profondi, quelli del miracolo della vita umana e della natura in generale.
    Si può dire che il mondo dei padri è quello della storia, ed è relativo al livello evolutivo della coscienza raggiunto da un determinato gruppo sociale. I valori, quindi, che un padre trasmette, riguardano la vita storica che il figlio dovrà compiere all’interno del gruppo sociale al quale appartiene.
    I valori che la madre trasmette, invece, sono relativi alle dimensioni esistenziali più profonde, e prescindono dalla storia e dalla cultura locale. Sono quelli connessi ai sentimenti più profondi dell’uomo e al senso della sua vita. Ad esempio, sono tipici del mondo materno i valori connessi al ciclo della natura: della morte e della nascita, dell’amore e della sessualità, della trasformazione evolutiva o regressiva della vita.
    Le norme, le leggi, i tabù, le prescrizioni morali, gli stili e i modi di vita appartengono, per contro, al mondo paterno.
    Dopo queste premesse di carattere generale, veniamo ora più da vicino all’elaborazione della crisi e assenza del padre di cui nel titolo di questo lavoro.
    L’immagine profonda del padre che è presente nella cultura occidentale è stata prodotta dal mito greco e dal diritto romano. Essa è stata poi profondamente modificata dal cristianesimo e, in tempi recenti, dalla rivoluzione industriale.
    Rispetto alla storia che ha prodotto questa immagine, le attuali trasformazioni della figura paterna, anche se problematiche, appaiono assai modeste e non in grado di modificarla in modo significativo. Per comprendere questa affermazione è necessario riandare alla storia evolutiva che ha prodotto il fondamento della concezione del padre caratteristica dell’occidente.

    Il padre: la rottura con la natura

    Il padre nella storia umana nasce quando supera la natura, quando compie una scelta che produce una rottura radicale con la vita naturale.
    Infatti, in natura, nella vita animale i padri svolgono una funzione riproduttiva che può essere definita di tipo quantitativo. È una osservazione comune che nella selezione naturale i maschi infedeli, seduttivi e sessualmente violenti sono quelli maggiormente favoriti. In altre parole sono favoriti i maschi che sono in grado di fecondare più femmine, ma che però non assumono alcun ruolo di cura individuale dei figli generati.
    Le madri, al contrario, svolgono una funzione qualitativa in quanto possono generare un numero limitato di figli (inferiore certamente a quelli generati dal padre) e non possono permettersi di perderli. Si può affermare che le madri sono condannate alla cura della prole.
    Ciò significa che mentre le madri non possono permettersi di non essere buone madri, i padri possono, addirittura, rifiutarsi di essere padri.
    Questo ha fatto sì che l’ascesi evolutiva dell’uomo nelle sue prime fasi fosse prodotta più dalle madri, capaci di responsabilità e di cura, e quindi di moralità, che dai padri.
    Il padre era prigioniero di quello stato di animalità che caratterizza, ad esempio, i primati. Tra i gorilla e gli scimpanzé, infatti, i maschi adulti appaiono attenti e teneri con i cuccioli, giocano con essi, difendono il territorio e, quindi, li tutelano indirettamente, ma non riconoscono i loro figli, non preparano loro il nido e non li nutrono.
    Mentre la quasi totalità delle grandi scimmie femmine genera discendenti, tra i maschi il ruolo di fecondatore è limitato ai maschi dominanti, quelli più forti che, di fatto, sono i padri di tutti i figli del gruppo.
    Ciò significa che mentre le femmine hanno un rapporto individuale con la prole, i maschi lo hanno di gruppo.
    Il comportamento delle grandi scimmie è in linea con quello dominante dei mammiferi, in cui vi è solo un tre per cento che è monogamo.
    La società umana si distingue da quella animale perché non vi è l’accoppiamento irregolare che caratterizza i primati, ma vi sono delle coppie di tipo monogamico.
    Questa osservazione consente di affermare che solo l’uomo ha sottratto la sua famiglia dalla prigione della natura. Ma non solo. Questa situazione ha modificato profondamente il modello della selezione naturale dei maschi umani.
    Nelle specie in cui si accoppiano solo i maschi dominanti, la forza e la violenza sono i requisiti richiesti ai maschi per vincere la gara della selezione naturale.
    Nella specie umana, invece, in cui tutti i maschi si accoppiano e generano figli, i favoriti della selezione naturale diventano quelli che provvedono maggiormente alla cura dei figli.
    Al contrario di ciò che pensava Freud, “il grande fenomeno che prepara l’ominizzazione e che compie, crediamo, l’homo sapiens, non è “l’uccisione del padre”, ma “la nascita del padre”. [1]
    Il fondamento della civiltà e del percorso dell’individuazione umana è collocato dagli studiosi dell’uomo preistorico in questa rottura del maschio con la natura che lo spinge ad unioni monogamiche e alla cura della prole.
    Ma non solo la monogamia è una componente essenziale della progettualità umana, in quanto essa ha fatto sviluppare nel maschio la capacità di tenere a freno il soddisfacimento immediato degli istinti, consentendo lo sviluppo di una vita meno occasionale e più strutturata secondo un progetto.
    L’uomo scopre la sua più profonda natura di essere progettuale e, quindi, culturale, rompendo con il mondo dell’istinto, assumendo la paternità, caratterizzata dalla cura individuale dei figli, e la fedeltà nei confronti della sua compagna.
    Tuttavia, osservando i comportamenti di molte persone nella società consumistica contemporanea, sembra che il passaggio da una sessualità promiscua, frenetica e quantitativa dei maschi verso un sessualità monogamica, più distesa e responsabile non sia stato compiuto una volta per tutte. Che anzi il consumismo sessuale si sia incaricato di fornire una legittimazione “civilizzata” alla sessualità arcaica che imprigiona gli animali nella natura.

    Il padre: le radici mitiche greche

    L’Iliade propone due figure di padri molto diverse tra di loro. Achille, che domina la scena con le sue gesta eroiche, ma che appare però preda della hybris, che manifesta con la sua furia egoistica e omicida, rimanda ad una figura arcaica di padre che ha generato ma che con il figlio, Neattolemo, non ha un rapporto. Un padre che ha nella forza e nella violenza il suo valore.
    Un padre che sta completamente all’interno della cultura che regola la società micenea, in cui i padri più che doveri nei confronti dei figli hanno arcaici diritti.
    Ettore, al contrario, è già un padre nel senso moderno del termine, che sa che non è sufficiente aver donato la vita ai figli, ma che è necessario rinnovare ogni giorno questo dono offendo ad essi il progetto, l’ordine morale e gli strumenti capaci di aprire loro il futuro e di realizzare la propria umanità.
    Ettore è anche un padre che, a differenza degli altri eroi dell’epoca che lottano per la fama, l’onore e l’oro, lotta per i bambini.
    Si può dire che Omero con Ettore ha inserito nel suo poema una profezia circa l’evoluzione della paternità. Profezia impensabile in quell’epoca.
    Il gesto simbolico che riassume la paternità di Ettore è quello che è descritto nel sesto libro dell’Iliade quando, prima di affrontare il combattimento con Achille, Ettore tende le braccia al figlio e questi, spaventato dall’armatura e dall’elmo con la sua chioma, si rifugia tra le braccia della nutrice. A quel punto Ettore si toglie l’elmo ed eleva in alto il figlio pronunciando un augurio e una preghiera: “Zeus e voi altri dei, rendete forte questo mio figlio. E che un giorno, vedendolo tornare dal campo di battaglia, qualcuno dica: È molto più forte del padre”.
    Un gesto che apre al figlio il futuro, che lo rende figlio nel senso pieno e che rompe con la tradizione che voleva gli uomini diventare sempre più deboli con il passare delle generazioni.
    Tuttavia Ettore era troppo in anticipo sui tempi e soccombe di fronte alla figura terrifica del padre arcaico. La morte di Ettore, infatti, sottolinea la possibilità concreta della regressione verso l’istinto che è presente nella vita umana, così come la dissoluzione del padre quale fonte della progettualità umana.

    Il padre: le radici romane

    Nell’Eneide si afferma che “l’amore paterno non lascia mai la mente a riposo”. Come si può notare, questa espressione colloca l’amore connesso alla paternità nell’ordine della mente e non in quello del cuore. Un ordine che si basa sul pensiero, sulla valutazione e sulla volontà. Il padre romano deve, infatti, garantire stabilità, responsabilità e sicurezza per poter essere il fondamento dell’ordine sia pubblico che privato.
    La paternità romana ha anche un altro aspetto particolare: si diventa padri non perché si è generato un figlio ma perché lo si adotta, sollevandolo pubblicamente. Il padre poi è anche il maestro del figlio.
    Comunque nel mondo romano la paternità appare come un diritto del padre e non come un diritto del figlio.
    La semplice generazione di un figlio non costituisce una vera paternità ma, a partire dal II secolo, solo l’obbligo di nutrirlo. Il diritto romano distingue tra “pater” e “nutritor”.
    Si potrebbe quasi affermare che il modello romano dell’adozione del figlio formalizza, a livello giuridico, ciò che è presente sin dalle epoche più arcaiche nella vita umana, ovvero che la paternità richiede la decisione di essere padri e l’assunzione delle responsabilità conseguenti. Tutto ciò diversamente dalla madre che non può, se non con una rottura grave con se stessa e la propria natura, non essere madre.
    È con l’imperatore Giustiniano prima e con il diritto canonico successivamente che viene stabilito che i figli nati nel matrimonio avessero automaticamente come padre il marito della madre. Se questo, da un lato, ha indubbiamente garantito i nuovi nati, ha privato i padri del rito dell’elevazione/adozione del figlio che li faceva crescere e li immetteva in una paternità piena e responsabile.

    Il padre: la rivoluzione industriale

    Il padre nella tradizione dell’occidente per molti secoli è rimasta una figura di riferimento stabile per i figli. Nelle società preindustriali la grandissima maggioranza della popolazione era formata da contadini, a cui si aggiungeva una piccola quota di artigiani e di commercianti.
    In quel contesto sociale i figli lavoravano con il padre, passavano gran parte del loro tempo libero in famiglia, dove ascoltavano le storie, raccontate dai genitori o dai nonni, attraverso cui veniva trasmessa loro la memoria culturale e quella della loro famiglia.
    L’identificazione dei maschi con il padre era il modello naturale, una conseguenza del modello di vita in cui erano immersi.
    Il padre era colui che insegnava loro il lavoro, che forniva loro il modello dei valori e delle norme sociali, che mediava il loro rapporto con il mondo adulto.
    In quell’epoca non erano in circolazione modelli alternativi di adulti, come accade oggi con i mass media, a cui i giovani potessero rivolgersi come a dei modelli da imitare. L’analfabetismo impediva poi l’accesso alle narrazioni letterarie.
    Tutto questo dava alla figura paterna una grande stabilità e autorevolezza, al di là dei suoi meriti. Si può affermare che in quel contesto storico e sociale i padri non si dovevano guadagnare la credibilità e l’autorevolezza che era loro data “a priori”.
    La rivoluzione industriale si abbatte come un cataclisma in questo mondo stabile, sconvolge le relazioni sociali, tra cui quelle familiari.
    Tra l’altro questa rivoluzione strappa letteralmente le mogli e i figli ai padri, inserendoli come operai nella fabbriche, rendendoli soggetti a una diversa autorità, a una gerarchia esterna impersonale che in molti casi sostituisce quella paterna.
    Nel periodo del decollo industriale si verifica, addirittura, che la fonte del reddito familiare siano la moglie e i figli.
    Questo perché gli imprenditori dell’epoca preferiscono assumere donne e bambini che costano meno degli uomini, anche se li sottopongono a dure fatiche.
    Anche quando il padre recupererà il ruolo di produttore, andando lui in fabbrica e lasciando a casa moglie e figli, la società industriale continuerà il suo ruolo di erosione del ruolo paterno tradizionale, relegandolo nel ruolo di produttore di reddito, di colui che col proprio lavoro assicura il mantenimento della famiglia.
    Salvo che per questo ruolo il padre diventa “assente”, specialmente quando per garantire il mantenimento della famiglia è costretto ad emigrare.
    Il padre, comunque, perde il proprio ruolo di maestro e di iniziatore dei figli alla vita adulta.
    Altre figure educative si occuperanno di questa funzione, senza però poter raggiungere compiutamente ciò che il padre garantiva, soprattutto nell’ordine simbolico.
    Anche quando lo sviluppo dell’economia industriale libererà più tempo per i padri e, quindi, questi potrà rientrare in modo più significativo nella vita relazionale della famiglia, non potrà, comunque, più recuperare il suo antico ruolo.
    Per molti versi continuerà ad essere assente o perlomeno a non poter essere più il simbolo che era stato nel passato.
    Questo anche perché molte famiglie diventano fragili, si rompono con le separazioni e i divorzi, in cui solitamente i figli vengono affidati alla madre. E questo contribuisce a rarefare ulteriormente la presenza paterna.
    L’eclisse del padre prodotta dalla industrializzazione è stata accompagnata poi dal travaso di molte funzioni del padre allo stato, all’impresa, ai gruppi sociali, ecc. e, quindi, dalla loro collocazione nel sistema sociale.
    Nelle dittature, ad esempio, questo trasferimento è talmente forte che i figli per fedeltà allo stato e al partito non esitano a denunciare i loro padri.
    Il padre, stato o partito, è un padre molto più potente e importante del padre persona.

    Il padre: l’uscita dalla modernità

    A rendere ancora più complessa l’eclisse del padre, nei tempi più recenti, si sono aggiunte le dimissioni di molti padri dal loro ruolo. Si tratta dei padri che rinnegano l’adozione che conduce alla paternità per ridiventare soltanto maschi, preda di una sessualità promiscua, frenetica e quantitativa.
    Si tratta in questi casi di una vera e propria regressione, di una fuga del maschile dalla civiltà e, quindi, dalla responsabilità.
    Accanto ai maschi che fuggono dalla paternità, vi sono altri maschi oggi che vivono una paternità trasformata, di tipo primario e per molti versi maternalizzata.
    Sono i padri che hanno un rapporto “diadico” con il figlio, che si prendono cura di lui come farebbe una madre, e proprio per questo sono interscambiabili nella cura del figlio con la madre, ma che hanno rinunciato a essere i traghettatori del figlio non solo verso il collettivo e, quindi, verso la società e le sue leggi, ma anche verso il trascendente.
    Infatti al padre, tradizionalmente, non è mai stata richiesta la cura “primaria”, ma l’inserimento del figlio nella società, il metterlo in contatto con il tempo della storia, con le generazioni, con la memoria e le tradizioni, il fargli scoprire il soprannaturale.
    Il padre, per questo motivo, non può essere accogliente incondizionatamente, come la madre, perché deve chiedere al figlio di compiere i sacrifici e gli sforzi necessari per elevarsi al di sopra della condizione naturale, per entrare cioè nel mondo della cultura e della spiritualità.
    In altre parole il padre non può non proporsi come limite che offre alla manifestazione del desiderio del figlio una forma finita in cui esprimersi. Un limite che impedisce al desiderio del figlio di disperdersi nel territorio dell’assenza delle regole e delle norme, che è il luogo in cui l’energia della vita si trasforma in quella della distruttività e della morte.
    Molti padri oggi per inseguire la madre nella relazione primaria hanno abdicato a questo ruolo divenendo padri che non spaventano più i figli, che sanno rendere a questi la vita comoda, ma che però non sanno più elevarli, non sanno più dare loro la benedizione che consente ai figli di ereditare la cultura di cui i padri sono portatori.
    La domanda che sorge spontanea è se questi padri maternalizzati, questi padri che comunicano con i figli prevalentemente con le emozioni e il corpo, possono ancora essere chiamati padri.

    Conclusione

    La conclusione di questa rapida riflessione sul padre, che ha un enorme debito nei confronti del libro Il gesto di Ettore di Luigi Zoja, [2] è molto semplice e forse banale.
    Essa può essere riassunta nella considerazione che lo sviluppo umano ha bisogno del padre, così come della madre, incarnati in un uomo e una donna. E non, come avviene oggi in molte situazioni, di un padre e di una madre uniti in una sola figura, non importa se maschile o femminile.
    Ma non solo la vita e la civiltà umana hanno bisogno di un padre che riacquisisca un ruolo da protagonista nei processi educativi e che più in generale sappia giocare un ruolo complementare a quello della madre, assumendo pienamente il suo ruolo simbolico di colui che assume responsabilità verso il figlio elevandolo, benedicendolo e iniziandolo alla vita nella società.
    Un padre, quindi, che riprenda, nel modo adatto al tempo presente, la radice della sua natura che è alla base della civiltà dell’occidente, e non solo.
    Un mondo senza padri, di sole madri, può essere un mondo affascinante per la tenerezza e l’intensità affettiva che esprime, ma è certamente un mondo che non consente alla persona di uscire dai confini della propria soggettività per costruire quell’insieme complesso che è la cultura e la società, senza le quali l’uomo rimane al di sotto delle proprie potenzialità e non riesce a dare risposta ai suoi bisogni più profondi e rispondere positivamente al progetto che Dio ha posto in lui.

     
    NOTE

    [1] Morin E., Il paradigma perduto, Bompiani, Milano 1974.

    [2] Zoja L., Il gesto di Ettore, Bollati Boringhieri, Torino 2001.


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