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    Il cristiano laico alla luce della “Gaudium et Spes”



    Luis A. Gallo

    (NPG 2003-03-48)


    L’assunzione della comunione come criterio-guida dell’ecclesiologia aveva già portato la Costituzione “Lumen Gentium”, nella prima tappa del cammino conciliare, a delineare l’identità e il ruolo dei cristiani laici nella comunità ecclesiale in maniera decisamente rinnovata.
    Dopo secoli in cui essi erano vissuti in condizione di inferiorità nei confronti dei pastori e dei religiosi, venivano finalmente riconosciuti nella loro dignità di membri della Chiesa a pieno titolo (LG 31-32), e quindi in condizione di parità con gli altri suoi membri. Nella seconda tappa, e più precisamente nella “Gaudium et Spes”, il Vaticano II fece ancora un passo avanti in tale riconoscimento.

    I laici, avanguardia della Chiesa

    Nel capitolo dedicato all’attività dell’uomo nel mondo, la GS fece la seguente affermazione:
    “Ai laici spettano propriamente, anche se non esclusivamente, gli impegni e le attività temporali […]. Spetta alla loro coscienza, già convenientemente formata, di inscrivere la legge divina nella vita della città terrena. Dai sacerdoti i laici si aspettino luce e forza spirituale” (n. 43).
    Il testo è, nella sua concisione, molto denso di contenuto.
    Anzitutto, il fatto di riconsegnare alla decisione della coscienza, convenientemente formata, dei laici i compiti cristiani nella città terrena, implica un chiaro superamento di quella concezione che portava a pensarli e a trattarli come “minorenni” alle dipendenza dei sacerdoti. In una Chiesa abituata per secoli a un tale concezione, l’affermazione fatta suonava come grossa novità.
    Il cambiamento fu indubbiamente effetto dell’influsso esercitato dalla sensibilità moderna sulla vita ecclesiale. Obiettivo principale del movimento della modernità, come è risaputo, fu l’emancipazione dell’uomo da ogni tutela che lo tenesse in condizioni di minorennità, sia in ambito sociale che religioso. Che la Chiesa abbia resistito per secoli all’avanzare di tale emancipazione è spiegabile per svariati motivi storici. In occasione del Vaticano II decise invece di aprirsi finalmente alle sue esigenze, traendone le conclusioni.
    Principali beneficati di tale apertura furono appunto i laici e le laiche, che poterono così “alzare la testa” e “reggersi sui propri piedi”, acquistando quella “maggiorennità” che era stata loro negata per lungo tempo. Da “ecclesialmente bambini”, si potrebbe dire, passarono a “ecclesialmente adulti”.
    Ma c’è di più nel testo citato. Esso, infatti, non solo cambia, ma addirittura inverte un altro modo plurisecolare di pensare il laicato cristiano.
    Quello secondo cui l’avanguardia della Chiesa erano i pastori, seguiti da vicino dai religiosi e dalle religiose, mentre i laici ne rappresentavano la retroguardia. In una Chiesa in cui vigeva una struttura piramidale e un’impostazione fortemente clericale, ciò era logico e naturale.
    Lo asseriva ancora con una certa solennità un documento pontificio dell’inizio XX secolo. Per sua natura, affermava, la Chiesa è una società disuguale, nella quale alcuni hanno ricevuto dal suo Fondatore il potere di insegnare, santificare e governare gli altri, e questi sono i pastori, ossia i membri della gerarchia; gli altri, la moltitudine che ne costituisce il gregge, ossia il laici, hanno da Lui ricevuto il dovere di imparare, essere santificati e obbedire (Pio X, Vehementer Nos, 1906). In questa prospettiva la Chiesa risultava nettamente divisa in due parti, una delle quali ne costituiva l’avanguardia, ed era la gerarchia, mentre l’altra ne conformava la retroguardia, ed era il laicato.
    Il nostro testo lascia trasparire un modo inverso di vedere le cose: per esso sono i laici a configurare l’avanguardia di una Chiesa evangelicamente impegnata nell’“inscrivere la legge divina nella vita della città terrena”, mentre i sacerdoti sono chiamati a fornire loro “luce e forza spirituale” per far fronte a tale impegno. Configurano, cioè, la retroguardia.
    In realtà, già la “Lumen Gentium” aveva enunciato tale modo di vedere le cose. Asseriva, infatti, nel parlare della loro partecipazione all’ufficio regale di Cristo, che “nel compimento universale di questo ufficio, i laici hanno il posto di primo piano” (n. 36). Ma qui, nella Costituzione pastorale, ciò acquista un tono molto più accentuato.
    La cosa si spiega se si tiene conto del profondo cambiamento avvenuto nella coscienza ecclesiale particolarmente durante l’elaborazione della “Gaudium et Spes”, di cui si è parlato in un articolo precedente. Se la Chiesa, nel momento più alto del suo processo di maturazione ecclesiologica, si è dichiarata “serva dell’umanità” (Paolo VI), se quindi il suo obiettivo prioritario è quello di contribuire alla crescita in umanità, sempre naturalmente alla luce del progetto di Dio, del genere umano (GS 40), risulta logico che a coloro che sono più direttamente a contatto con le sue gioie e le sue angosce, i suoi trionfi e le sue sconfitte, spettino principalmente tali compiti. E questi, dato il loro modo di vita, sono concretamente i laici e le laiche.

    La responsabilità laicale nel mondo

    Le cose però non sono da intendere come se al laicato competesse l’impegno e la responsabilità nel temporale, e ai pastori e ai religiosi nello spirituale. O, in altro modo, come se al primo toccasse il mondo, e ai secondi la Chiesa. Una tale divisione è totalmente contraria al pensiero innovativo del Vaticano II.
    Già nel determinare ciò che si doveva intendere quando si parlava di laici, la “Lumen Gentium” disse che essi erano i “fedeli che, dopo essere stati incorporati a Cristo col battesimo e costituiti popolo di Dio e, nella loro misura, resi partecipi dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, compiono per la loro parte, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo cristiano” (n. 31).
    Restava così bandita la spartizione sopra accennata, poiché ai laici veniva riconosciuta l’appartenenza all’unico popolo di Dio, la partecipazione agli uffici di Cristo propria di tutti i suoi membri, e la responsabilità dell’unica missione ecclesiale tanto all’interno della stessa Chiesa quanto nel mondo. D’altra parte, poche righe più avanti la stessa Costituzione specificava che tanto i membri dell’ordine sacro quanto i religiosi hanno anche a che vedere, ognuno a modo suo, con “le cose del mondo”. Quindi, anche da questo punto di vista la menzionata divisione restava esclusa.
    Nel testo più sopra citato, la GS tornò tuttavia a ribadire ciò che aveva detto la “Lumen Gentium”: all’interno dell’unica esistenza ecclesiale, l’indole secolare è propria e peculiare dei laici; solo che essa lo disse in maniera più chiara e più comprensibile: ai laici, affermò, spettano propriamente, anche se non esclusivamente, gli impegni e le attività temporali.
    Quali? Tutti quelli che richiede la vita delle città terrena in quanto tale.
    Altro testo del Vaticano II li aveva precedentemente identificati, quello precisamente che trattava dell’attività apostolica dei laici, nello spiegare ciò che intendeva per “ordine temporale”. Diceva che erano “i beni della vita e della famiglia, la cultura, l’economia, le arti e le professioni, le istituzioni della comunità politica, le relazioni internazionali e così via, la loro evoluzione e il loro progresso” (Apostolicam Actuositatem 7).
    L’ultima specificazione di questo testo è quella sulla quale fissò particolarmente l’attenzione la GS. Dato che essa caratterizzò la situazione attuale del mondo come un passaggio da una concezione piuttosto statica dell’ordine delle cose a una concezione più dinamica ed evolutiva” (n. 5), era logico che impostasse il suo discorso alla luce di detta caratterizzazione.
    Il laici e le laiche, quindi, sono chiamati ad “agire” nel mondo, tenendo chiara coscienza di questa situazione dinamica ed evolutiva alla quale è soggetto. Tutto infatti in esso – la famiglia, la cultura, l’economia, le arti e le professioni, le istituzioni della comunità politica, le relazioni internazionali – è segnato da un tale andamento, il che richiede un’attenzione e una duttilità prima sconosciuta da chi vuole operare in esso e a suo servizio.
    È anche questa una delle ragioni per cui la Costituzione pastorale enfatizzò la dimensione profetica della vita cristiana, attuata nello sforzo di discernere “negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni, cui [il popolo di Dio] prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo, quali siano i veri segni della presenza o del disegno di Dio” (n.11). Un discernimento spesso difficile da realizzare, ma indispensabile se si vuole rendere un servizio proficuo alla crescita del genere umano secondo il piano di Dio. Dalla diagnosi effettuata dipende, infatti, la pertinenza degli interventi da intraprendere.
    Va ancora rilevato che in questo sforzo di discernimento, arduo ma imprescindibile, il ruolo dei cristiani laici si rende particolarmente indispensabile. Sono essi, infatti, quelli che di solito vivono più a contatto con “gli avvenimenti, le richieste e le aspirazioni” degli uomini e delle donne del momento presente, e quindi anche quelli che possono con maggior competenza identificarli e scrutarli alla luce della fede.
    Un altro tratto che deve segnare il servizio laicale nella città terrena è quello del rispetto dell’autonomia delle realtà che la conformano. La segnalazione fatta dalla nostra Costituzione al riguardo non costituisce una novità assoluta nell’ambito della riflessione conciliare, ma ha una particolare rilevanza.
    Nel n. 36 della “Lumen Gentium” si era già detto che, nell’intervenire nelle realtà del mondo, i laici devono “riconoscere che la città terrena, legittimamente dedicata alle cure secolari, è retta da propri principi”. Ora, nella GS, si fanno due aggiunte ulteriori, che arricchiscono tale affermazione.
    Anzitutto, si dà una specie di definizione di ciò che s’intende per “autonomia delle realtà del mondo”. Lo si fa nel contesto di una distinzione che introduce tra un’autonomia legittima e un’autonomia inaccettabile da parte della fede. Della prima si dice:
    “Se per autonomia delle realtà terrene si vuol dire che le cose create e le stesse società hanno leggi e valori propri, che l’uomo gradatamente deve scoprire, usare e ordinare, allora si tratta di una esigenza d’autonomia legittima: non solamente essa è rivendicata dagli uomini del nostro tempo, ma è anche conforme al volere del Creatore” (n. 36).
    La sua legittima esigenza, a cui accenna il testo, è quella che deve venir rispettata da laici e laiche quando, secondo la loro vocazione peculiare, agiscono nel mondo. La seconda aggiunta è espressa nei seguenti termini:
    “Quando essi, dunque, agiscono quali cittadini del mondo, sia individualmente sia associati, non solo rispetteranno le leggi proprie di ciascuna disciplina, ma si sforzeranno di acquistare una vera perizia in quei campi” (GS 43).
    Solo laici e laiche seriamente competenti nelle proprie professioni e impegni potranno collaborare proficuamente a “inscrivere la legge divina nella vita della città terrena”. Pensare, come più di una volta accadde in passato, che la fede può sostituirsi a tale competenza significa ignorare il giusto ordine del volere del Creatore. Egli, infatti, chiamando il mondo all’esistenza lo dotò di consistenza e di leggi proprie, e solo nel rispetto di tale consistenza e di tali leggi può essere incorporato nel piano di salvezza. Salvando le distanze, si può dire che succede in questo campo qualcosa di analogo a ciò che avvenne nell’incarnazione, nella quale fu la vera e reale umanità dell’uomo Gesù quella che fu assunta del Verbo di Dio, nel pieno e totale rispetto della sua autonomia. Il contrario sarebbe “monofisismo”.


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