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    Un crogiolo di trasformazioni


    Mario Pollo

    (NPG 2002-03-32)



    Il doloroso stupore che dopo l’11 settembre pervade la coscienza collettiva dell’occidente sembra essere resistente a ogni esorcismo, a ogni tentativo narrativo di dare ad esso un senso e, quindi, di riportarlo dal regno del mostruoso a quello dell’ordinario dando di esso una spiegazione che consenta di iscriverlo tra le forme, seppur aberranti, dell’umano.

    I vari tentativi di spiegazione che hanno utilizzato le categorie del fanatismo religioso, dell’odio verso la potenza imperiale, del cancro della povertà e dell’ingiustizia che affligge la vita della maggioranza degli abitanti del pianeta, infatti, pur avendo un fondamento reale, non sembrano in grado di offrire ragioni sufficienti a «comprendere» quel gesto mostruoso.
    Inconsapevolmente si avverte che prima di queste «cause» ve ne sono forse altre che dovrebbero essere portate alla luce.
    Queste cause oscure vanno ricercate nel crogiolo delle trasformazioni sociali e culturali che il mondo attuale sta vivendo e che stanno producendo una frattura nei confronti del passato, e anche del futuro, priva di qualsiasi riscontro in altre epoche della storia umana.
    Frattura che si fonda su una radicale trasformazione delle dimensioni del tempo e dello spazio che hanno caratterizzato le epoche precedenti, tra cui in particolare quella moderna e dal ruolo assunto all’interno di questa trasformazione dall’immaginazione.
    Questa crisi culturale, secondo le letture più aggiornate, sarebbe il prodotto di due fenomeni congiunti – l’avvento dei media elettronici e le migrazioni – sull’opera dell’immaginazione, che, come è noto, è un tratto caratteristico della soggettività moderna.
    Le migrazioni di massa, pur essendo un evento che costella la storia umana fin dalla preistoria, hanno assunto nel mondo contemporaneo un carattere assolutamente nuovo perché esse interagiscono con il flusso mondiale delle immagini mass mediatiche. Ciò produce la situazione inedita di immagini e spettatori che sono entrambi in movimento. In questo fenomeno, secondo alcuni studiosi, risiederebbe il nucleo della relazione tra globalizzazione e modernità.
    L’immaginazione nel mondo post-elettronico ha abbandonato i territori tipici in cui ha sempre abitato, come, ad esempio, quelli dell’arte, del mito e del rito, per entrare a far parte del lavoro quotidiano della gente comune in molte società. [1]
    Infatti, nella vita sociale attuale, l’immaginazione ha assunto un ruolo inedito che la vede non più come un’opera della fantasia, una forma di evasione, un passatempo per élite colte, ma come un elemento essenziale di ogni forma di azione individuale e sociale.
    In questo contesto i media elettronici sono divenuti per le persone delle risorse per la sperimentazione di costruzioni di sé. Infatti, «consentono di intrecciare sceneggiature di vite potenziali con il fascino delle star dello schermo e di trame cinematografiche fantastiche, ma consentono anche a quelle vite di agganciarsi alla plausibilità degli spettacoli di informazione, dei documentari, e di altre forme in bianco e nero di telemediazione e di testi a stampa. Solo per via della molteplicità delle forme in cui appaiono (cinema, televisione, computer e telefoni) e a causa della rapidità con cui si muovono attraverso le ordinarie attività quotidiane, i media elettronici forniscono risorse per l’immaginazione del sé come un progetto sociale quotidiano». [2]
    È interessante notare come l’adattamento degli immigrati, e la loro stessa decisione di partire, sia spesso profondamente influenzato dall’immaginario mass mediatico.
    Questo fa sì che la vita delle persone sia sempre più immersa nella «finzione», ovvero nel mondo delle immagini prodotto dai mass media elettronici.
    Questa immersione sembra aver dilatato enormemente le conoscenze di cui sono in possesso le persone, mentre in realtà ha solo reso astratti gli oggetti del loro conoscere. [3]
    Infatti sempre più oggi si è convinti di conoscere, quando in realtà si è in grado solo di riconoscere.
    Solo perché una cosa la si è vista si pensa di conoscerla, come ad esempio accade nei confronti dei personaggi televisivi che la gente crede di conoscere ma che in realtà riconosce solamente, perché vedere non significa necessariamente osservare, comprendere e interpretare.
    Questa immersione nel regime della finzione mass mediatica fa sì che si produca un indebolimento della capacità di rapportarsi all’altro, che è si visto ma che contemporaneamente è privato della sua realtà complessa e reso astratto in una immagine, in un simulacro.
    L’aver sostituito i media alle mediazioni simboliche ha, infatti, prodotto una interruzione o un rallentamento della dialettica identità/alterità. I media, infatti, consentono spesso solo di ri-conoscere, dando però l’illusione di conoscere. Questo indebolisce indubbiamente la possibilità di stabilire un contatto con l’altro reale offrendo in cambio la possibilità di un contatto esteso con il simulacro dell’altro. Se l’alterità è un simulacro anche l’identità diviene un simulacro. Perdere il contatto con l’altro significa perdere il contatto con se stessi.
    Questa crisi della capacità di alterità mette in crisi anche l’identità delle persone che, come è noto, si nutre della dialettica identità/alterità.
    Alcuni studiosi osservano, sulla scia della lezione di Durkheim, nell’indebolimento della dialettica tra alterità ed identità un fattore di produzione della violenza.
    Oltre che dell’individuo l’immaginazione odierna è una proprietà della collettività. Infatti, i media rendono possibile la creazione di una «comunità di sentimenti», di un gruppo, cioè, che immagina e sente cose collettivamente. La fruizione collettiva di video e film può creare quelli che vengono definiti sodalizi di culto e carisma.
    Questi sodalizi sono comunque sempre comunità che possono passare dall’immaginazione condivisa all’azione collettiva.
    Un esempio di questo sodalizio è quello che si è sviluppato, all’interno dell’islamismo radicale, intorno al terrorista Bin Laden.
    Il fatto che questi sodalizi siano spesso transnazionali, fa sì che al loro interno si possano intrecciare le diverse esperienze locali, che convergono nella produzione dell’azione translocale.
    Un particolare effetto l’immaginazione collettiva lo esercita sulla deterritorializzazione, che, nel mondo moderno, vivono grandi masse di persone che emigrano dal loro luogo di origine alla ricerca di lavoro.
    Basti pensare agli immigrati che attraverso i media elettronici possono restare in contatto con l’immaginario del proprio paese. Il tassista pakistano che nel suo taxi a New York ascolta la cassetta dell’omelia del mullah che gli hanno spedito i suoi parenti. O, ancora, l’immigrato turco che in Germania ogni sera vede i programmi televisivi del suo paese di origine.
    Per non parlare della possibilità offerta da internet, non solo di contatti in tempo reale con i propri connazionali, ma anche, più semplicemente, di leggere i quotidiani appena editati dei propri paesi di origine.
    In alcune situazioni la deterritorializzazione «crea sentimenti esagerati o intensificati di critica o attaccamento emotivo verso la politica dello stato di provenienza» [4] e, quindi, essa è spesso al centro di fondamentalismi globali, compreso quello islamico.
    In altri casi la deterritorializzazione è al centro della creazione di vere e proprie patrie inventate. Un esempio è il «Khalistan» che è una patria inventata dalla popolazione sikh residente in Inghilterra, Canada e Stati Uniti.
    In alcuni casi tutto questo è all’origine di azioni violente, ma nel contempo è anche all’origine di forme di business, come ad esempio delle agenzie di viaggio che prosperano sul bisogno di contatto da parte della popolazione deterritorializzata con la patria, reale o inventata.
    In ogni caso, per l’effetto congiunto di migrazioni e media elettronici, i nazionalismi che compaiono in molte parti del mondo sono basati su forme di patriottismo che non sono esclusivamente di tipo territoriale. Anche perché, in questo contesto, gli stati nazionali non sembrano essere più in grado di regolare, nel lungo periodo, la relazione tra modernità e globalità.
    Basta pensare ai dibattiti sul multiculturalismo e, quindi, alla perdita di legittimità della possibilità da parte di uno stato nazionale di «imporre» a tutti i suoi cittadini e, quindi, anche alle proprie minoranze, un modello culturale. Anche perché gli stati nazionali non possono impedire alle minoranze etniche presenti nei loro territori di collegarsi alle più ampie aggregazioni di affiliazione etnica o religiosa.
    Tutto questo porta all’emersione di un ordine postnazionale basato sulle relazioni tra soggetti eterogenei come i movimenti sociali, i gruppi di pressione, i corpi professionali, le ONG, le forze armate e di polizia, i corpi giudiziari.
    La domanda che sorge tra gli studiosi di questa trasformazione è se questo ordine postnazionale riuscirà a creare alcune convenzioni minime intorno ad alcune norme e valori, senza per questo chiedere l’adesione ai principi della tradizione democratico-liberale della modernità occidentale.
    Per ora questo processo, negoziale, è ben lungi dall’aver prodotto risultati apprezzabili, e in questa fase storica la violenza e la barbarie sembrano espandersi prive di un efficace controllo.
    La ricerca dell’omogeneizzazione culturale non è comunque la via per vincere la violenza e la barbarie, per cui la sola speranza concreta è che i processi di globalizzazione riescano a costruire questo nuovo ordine basato sulla eterogeneità.
    Per raggiungere questo obiettivo è però necessario tenere conto che il mondo è diventato un sistema di interazioni di tipo nuovo e di nuova intensità, che lo rende molto diverso da quello del passato, in cui le «transazioni culturali erano solitamente contenute, a volte per via di costrizioni geografiche ed ecologiche, altre volte per una voluta resistenza all’interazione con l’Altro». [5]
    La guerra e il proselitismo religioso sono stati sino al XX secolo le due forme principali di interazione sistematica tra i diversi gruppi sociali.
    Questo significa che il mondo attuale si trova a vivere una situazione inedita nella storia umana che, spesso, non viene compresa perché ad essa si applicano modelli che sono antecedenti o inadeguati per affrontare questo nuovo mondo.
    Basti pensare alle paure indotte dal considerare la globalizzazione come il luogo dell’omogeneizzazione. Omogeneizzazione che alcuni vedono come il prodotto della americanizzazione e, altri, della mercificazione.
    I fautori di queste tesi, semplificatrici, non riescono ad osservare che le «cose» quando vengono importate in società diverse tendono, abbastanza rapidamente, ad essere indigenizzate e che spesso queste paure sono sfruttate dagli stati nazionali per allontanare lo sguardo dei loro cittadini dalle ingiustizie e dalla minacce egemoniche locali.
    Per sfuggire al riduzionismo è necessario osservare che la complessità della nuova economia culturale globale nasce dalle disgiunzioni in essa presenti tra economia, cultura e politica. Disgiunzioni che sono osservabili solo attraverso la lente delle cinque principali dimensioni dei flussi culturali globali.
    Queste dimensioni sono costituite dalle persone in movimento (turisti, immigrati, rifugiati, esiliati, lavoratori ospiti, ecc.), dalla ineguale distribuzione della tecnologia prodotta dalla relazione complessa tra flussi di denaro, possibilità politiche, disponibilità di forza lavoro specializzata o generica, dalla disposizione del capitale globale, dalla distribuzione della capacità di produrre e diffondere informazione e dalla distribuzione di termini, immagini e idee di tipo politico come libertà, democrazia, benessere sovranità, rappresentanza, ecc.
    Occorre tenere conto che ognuno di questi flussi risponde da un lato alle sue regole e alle sue situazioni interne, ma, dall’altro lato, esso è condizionato e condiziona gli altri flussi e questo rende l’economia culturale imprevedibile e disgiuntiva.
    È all’interno di questi flussi culturali che potrà essere disegnato il nuovo mondo in cui la globalizzazione diventa garanzia della eterogeneità ma anche del rispetto di norme e di valori essenziali al di là dei diversi orizzonti religiosi, politici, etnici e dei diversi mondi immaginati.
    La condizione perché questo si realizzi è anche, se non soprattutto, che l’immaginazione mediatica sia trasformata in conoscenza dalla riscoperta dell’alterità e da una progettualità umana e sociale che restituisca il tempo alla storia.
    Un tempo in cui l’uomo possa scoprire e tessere il senso della sua vita.

     
    NOTE

    [1] Appadurai A., Modernità in polvere, Meltami, Roma 2001, p.19.

    [2] Ivi, pp.16-17.

    [3] Augè M., La guerra dei sogni, Elèuthera, Milano 1998.

    [4] Appadurai A., Modernità in polvere, cit., p.58.

    [5] Ivi, p. 45


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