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    Riscoprire l’evangelizzazione narrando il vangelo di Gesù


    Riccardo Tonelli

    (NPG 2002-01-7)



    NPG ha parlato spesso di evangelizzazione. Non potevamo certamente fare in modo diverso, dal momento che ogni buon progetto di pastorale giovanile deve prevedere, in qualche momento del suo percorso, l’annuncio, forte ed esplicito, che Gesù è il Signore e solo in lui possiamo avere la vita. Questo è dunque un riferimento obbligato, una specie di punto di non ritorno.

    Non è sufficiente affermare che la pastorale giovanile, impegnata a dare vita e speranza, fa spazio alla evangelizzazione. Un’altra cosa va subito aggiunta, per tradurre l’esigenza in ricerca sul metodo. Un buon progetto di pastorale giovanile, per aiutare a vivere non solo fa spazio alla evangelizzazione, ma cerca un modello di evangelizzazione che sia davvero capace di aiutare a vivere.
    Non è un gioco di parole.
    L’evangelizzazione può essere realizzata in tanti modi, come mostra la prassi delle comunità ecclesiali. Purtroppo non mancano esempi che documentano gli effetti non proprio affascinanti ottenuti, in situazioni concrete, da una evangelizzazione poco accorta… o troppo sicura di sé. Per questo, non possiamo dire che essa aiuta a vivere sempre e in qualsiasi modo. Vanno, al contrario, cercate e sperimentate le modalità corrette.
    Dobbiamo allora metterci a pensare e a progettare modelli di evangelizzazione, capaci di aiutare a vivere.
    Anticipo la convinzione che ispira tutto l’articolo: per aiutare a vivere veramente, i cristiani hanno un modo speciale di evangelizzare, il racconto del Vangelo di Gesù.


    Cosa significa «aiutare a vivere»?

    Se sto insegnando qualche formula di matematica o di chimica, verifico la qualità del mio insegnamento e il livello di apprendimento, chiedendo ai discepoli di ripetere e di giustificare quello che ho comunicato. L’insegnamento è fruttuoso se abilita le persone a possedere le informazioni adeguate. Se invece insegno a guidare un’automobile, so di poter dare la patente quando il discepolo sa cavarsela nel traffico della città, è in grado di partire, fermarsi, organizzarsi adeguatamente. In questo caso, il criterio di verifica è offerto dal livello di competenza acquisita. Quando faccio raccomandazioni di comportamento, posso dichiararmi soddisfatto se vedo che i miei consigli sono messi in pratica.
    A proposito di evangelizzazione, le cose percorrono altri sentieri.
    L’evangelizzazione, impegnata ad aiutare a vivere, riconosce di aver realizzato adeguatamente la sua funzione quando la confessione del nome di Gesù dà vita e speranza.
    Della vita ho già parlato tante volte. Richiamo le cose dette e le rilancio con forza ancora una volta.
    Considero la vita non come il dato biologico e neppure come l’espressione spontanea dell’esistere. Per me vita è decisione, matura e consapevole, su una qualità di vita, sapendo scegliere nella trama complessa delle mille proposte, e, nello stesso tempo, assunzione delle ragioni che giustificano la fiducia sul suo senso ultimo.
    Vita è dunque vita e speranza nella stessa esperienza.
    Aiutiamo a vivere quando condividiamo queste convinzioni e queste ragioni, all’interno di una esperienza che ci rende capaci di resistere nonostante la provocazione che viene dall’incertezza, dal dolore e dalla morte.
    Siamo capaci di trovare ragioni e motivi per tutte le scelte della nostra vita, anche per quelle più impegnative. Il dolore ingiustificato, l’incertezza drammatica verso il futuro, la morte… buttano all’aria tutta la nostra sapienza e ci lasciano senza una risposta plausibile. Qualcuno rinuncia a pensare e qualche altro cerca nei surrogati, che ci siamo costruiti con le nostre mani, qualche ragione di speranza. Non pochi finiscono nella disperazione. Anche i giovani sono minacciati da questa crisi, diffusa e pervasiva, come mostra l’indice alto e inquietante di suicidi.
    Abbiamo bisogno di un supplemento sicuro di speranza. A questo livello, tragico e inquietante nello stesso tempo, vita e speranza sono messe sotto questione. Aiutiamo a vivere quando riusciamo a restituire speranza soprattutto in queste situazioni. Sulla misura della loro provocazione, possiamo dunque verificare se e fino a che punto le proposte fatte hanno aiutato a vivere.
    I discepoli di Gesù riconoscono nel suo nome la parola sicura di speranza, anche di fronte al dolore e alla morte. Per questo, aiutiamo a vivere solo offrendo il nome di Gesù il Signore e la sua esistenza, l’uomo in pienezza di umanità (la qualità della vita), il crocifisso risorto, vincitore della morte come il primogenito dei risorti (la speranza).

    Senza Gesù e il Vangelo… non possiamo aiutare a vivere

    Come annunciare Gesù per aiutare a vivere?
    Molte esperienze in atto ci aprono ormai verso risposte affascinanti.
    La pastorale giovanile è arrivata ad un livello molto stimolante, nel suo impegno di educare alla fede, aiutando a vivere.
    Sarebbe davvero un peccato non riconoscere il felice cammino percorso e attardarci alle vecchie nostalgie o alle discussioni che hanno ormai lasciato il tempo che hanno trovato.
    Tra queste felici realizzazioni, ne rilancio una con forza.
    I discepoli di Gesù possiedono un documento fondamentale per aiutare a vivere: la persona di Gesù e il racconto di quello che lui è stato, ha detto e ha fatto per la vita di tutti.
    Questo «documento» è il Vangelo. I discepoli di Gesù, per aiutare a vivere, raccontano continuamente il Vangelo. Dicendo «Vangelo» faccio, in genere, riferimento a tutti i testi dell’Antico e del Nuovo Testamento. In questo contesto, però la mia attenzione si concentra soprattutto sui quattro Vangeli e su quel Vangelo vissuto che è costituito dagli Atti degli Apostoli.
    Non voglio affermare che le pagine del Vangelo siano l’unica fonte cui attingere per evangelizzare. Non possiamo però dimenticare che la vita quotidiana diventa sorgente di speranza solo in Gesù, in quella solidarietà costitutiva che nella grazia della sua umanità ha già trasformato la nostra stessa esperienza di vita. Per questo, è indispensabile collocare la sua persona al centro della nostra avventura quotidiana e confrontarci con lui e con il suo messaggio per decifrare il mistero in cui è avvolta la nostra esistenza.
    La conclusione è immediata: l’evangelizzazione, per aiutare a vivere, è prima di tutto narrazione del Vangelo.

    A confronto con la struttura narrativa dei Vangeli

    Chi cerca modelli per raccontare il Vangelo, prima di tutto, deve studiare la struttura degli stessi racconti evangelici. Questa scoperta diventa preziosa non solo per giustificare la scelta di continuare a proporre il Vangelo secondo uno stile narrativo ma, soprattutto, per determinare la qualità di questo stile comunicativo.
    Quella dello stile con cui sono stati scritti i Vangeli, sembra una questione facile. Eppure gli addetti ai lavori ci hanno dedicato moltissimo tempo e le conclusioni non sono pacifiche per tutti.
    Secondo tutta la tradizione, l’apostolo Giovanni è l’autore del quarto Vangelo. Oltre al Vangelo a lui si attribuiscono anche tre lettere ai cristiani del suo tempo. Nella prima, la più lunga e la più bella, dichiara le sue intenzioni. Hanno tutto il sapore del testamento e della rivisitazione delle cose condivise nell’arco della sua esistenza. Scrive: «La Parola che dà la vita esisteva fin da principio: noi l’abbiamo udita, l’abbiamo vista con i nostri occhi, l’abbiamo contemplata, l’abbiamo toccata con le nostre mani. […] Siamo i suoi testimoni e perciò ve ne parliamo. […] Vi scriviamo tutto questo perché la vostra gioia sia perfetta» (1 Gv 1, 1-4).
    Un’altra dichiarazione di intenti è contenuta nell’apertura del Vangelo secondo Luca.
    Luca era uno che aveva studiato. La sua formazione dipendeva da scuole e modelli culturali di respiro greco. Ci tiene a dire che le cose scritte sono autentiche, documentate e possono tranquillamente stare a confronto con gli altri testi prodotti dalle letteratura contemporanea. Aprendo il suo Vangelo fa una introduzione diversa da quella di Giovanni. Scrive: «Poiché molti hanno posto mano a stendere un racconto degli avvenimenti successi tra di noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni fin da principio e divennero ministri della parola, così ho deciso anch’io di fare ricerche accurate su ogni circostanza fin dagli inizi e di scriverne per te un resoconto ordinato, illustre Teofilo, perché ti possa rendere conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto» (Lc 1, 1-4).
    A noi che siamo gente cui piace dividere e distinguere, viene spontaneo chiedersi: ha ragione Giovanni o Luca? I Vangeli sono scritti con la preoccupazione poetica ed esistenziale di Giovanni o con la ricerca, accurata e un po’ fredda dello storico, stile Luca?
    A questa domanda non si può dare una risposta, perché la domanda non ha senso… o, meglio, rispecchia una prospettiva di ricerca che è nostra, non degli autori dei Vangeli. Questo metodo va bene per analizzare molte delle cose prodotte oggi.
    Ma funziona poco per analizzare i Vangeli, testi prodotti duemila anni fa, da autori che avevano preoccupazioni assai diverse dalle nostre, molto simili tra loro anche se le premesse sembrano diverse.
    Mi spiego con un paragone. Lo spero non del tutto… irriverente.
    Invito a pensare ad una partita di calcio di quelle che contano, una finale al cardiopalma o il derby tra due squadre della stessa città.
    All’ultimo minuto, quando i giochi sembravano fatti, spunta un rigore. Cambia il risultato della partita. Lo so che il giudizio dell’arbitro è insindacabile… ma, accidenti, quel rigore è un fatto grosso. Ha cambiato di peso un risultato che sembrava ormai pronto per finire in archivio.
    Un tizio era allo stadio e ha assistito di persona a tutta la partita. Torna a casa e si infila nel bar dove lo aspettano gli amici. Essi la partita l’hanno vista solo in TV o, magari, l’hanno ascoltata, con il fiato in gola, solo in radiocronaca. Hanno visto tutto: con gli occhi ingannati dalle telecamere o, peggio, costretti ad immaginare quello che il commentatore raccontava. Sulle cose che contano, non basta il parere degli estranei. Ci vuole una testimonianza diretta.
    Appena entra, lo assalgono. «Tu eri allo stadio… Dicci: quel rigore… c’era o non c’era?». Siccome era allo stadio e ha visto (nel filtro del tifo della «curva» in cui era piazzato), lui può parlare. Solo lui può risolvere la questione che sta facendo discutere fino all’impazzimento.
    Certo, non può imbrogliare. I fatti li deve raccontare come sono andati davvero. Anche il tifo, infatti, ha le sue regole di oggettività.
    Il racconto del tizio che era allo stadio fila veloce, senza nessuna incertezza. Se il rigore era a favore della squadra per cui fanno tifo lui e gli amici del bar, nessun dubbio sul rigore. L’intervento dell’arbitro era sacrosanto… e guai a chi lo contesta. Ma se il rigore era contro la squadra del cuore… il povero arbitro non si salva più. I fatti sono chiari e lampanti. Stanno sotto gli occhi di tutti. Ma gli occhi hanno una capacità di penetrazione specialissima: portano a leggere fatti e particolari con la passione dell’amore e del coinvolgimento.
    La TV ci offre un’altra opportunità. Penso a quella specie di «processo» che viene fatto nel dopopartita. Si radunano un gruppo di esperti. Riguardano l’azione contestata… quel rigore che ha scosso il cuore dei tifosi delle due squadre. Riproducono il filmato dieci volte. Poi incominciano a dire la loro. Ogni tanto, qualcuno si appella ai fatti e… via di nuovo lo spezzone del filmato. Si arriva persino a volerlo revisionare al rallentatore per non perdere nessun particolare. Con gli strumenti raffinati di cui è in possesso la TV, si riesce persino a tracciare una perpendicolare tra il pallone, la mano dell’attaccante e l’erba del campo… per vedere se l’azione era dentro o fuori la linea del rigore. Le discussioni si sprecano. Ci si prende quasi per i capelli. Viene rispolverato un fatto simile, capitato quindici campionati fa.
    Risultato? Tutto come prima. Chi è entrato convinto della necessità del rigore, ne esce straconvinto, come è straconvinto del contrario chi era entrato con questo parere.
    Il racconto appassionato approfondisce l’esperienza e allarga la fiducia. Quello, arricchito delle elucubrazioni degli esperti e degli artifizi della tecnica, non sposta di un millimetro la fede.
    L’esempio aiuta a comprendere lo stile scelto dagli autori per la stesura dei Vangeli.
    Lo stile con cui sono scritti i Vangeli assomiglia molto di più al racconto appassionato del tifoso che al resoconto del «processo» in TV. Anche Luca, che fa quasi finta di percorrere un’altra strada, non ha nessuna preoccupazione del tipo «processo». Anche lui, come Giovanni, come tutti gli altri discepoli, hanno scelto Gesù come il Signore della loro vita e raccontano quel frammento di esistenza, condivisa con lui, con la preoccupazione di coinvolgere altri nella stessa esperienza.
    Fuori metafora, i Vangeli e le testimonianze apostoliche non sono mai il resoconto materiale degli avvenimenti della vita di Gesù di Nazareth, di cui i discepoli sono stati testimoni. Essi sono invece un documento di fede e di amore. I Vangeli sono l’espressione, autentica e verificabile, di avvenimenti, scritti in una stagione in cui moltissimi testimoni diretti erano ancora vivi. C’è un fatto certo e documentabile: la persona di Gesù, i gesti da lui compiuti e le parole che ha detto. C’è però la fede appassionata del discepolo e della prima comunità cristiana, nata nell’entusiasmo di questi avvenimenti meravigliosi. E ci sono persino i destinatari concreti di questi testi scritti: persone vive, piene della voglia di vita e affamate di speranza, che l’autore di ogni Vangelo coinvolge direttamente nel suo racconto.
    In sintesi, si può dire che i racconti evangelici non sono la cronaca degli avvenimenti che riguardano la persona di Gesù né, tanto meno, possiamo immaginare che i discorsi riportati siano il resoconto stenografico delle sue parole. Fatti e parole sono la trascrizione, in una ispirazione specialissima dello Spirito di Gesù, della esperienza di fede dei suoi discepoli. Fatti e parole non sono comunicati per informare su particolari sconosciuti, ma per suscitare nuove esperienze di fede.
    Per questo, i Vangeli sono, in ultima analisi, un documento tessuto di fede e di storia, pieno di avvenimenti documentabili e traboccante della vita concreta di chi scrive e di chi legge. Questo modello speciale di scrittura rende i Vangeli capaci di suscitare altre esperienze di fede, come è capitato all’inizio e continua a capitare nell’esistenza di tante persone. Sono un pezzo di storia, vera e autentica, scritta però più in «amorese» (la lingua in cui diciamo agli altri il nostro amore) che in «matematichese» (la lingua in cui siamo abituati a descrivere «scientificamente» le nostre conoscenze e i fatti impegnativi della nostra esistenza). Chi preferisce il «matematichese» anche per parlare della esperienza di Gesù e del suo dono per la nostra vita e la nostra speranza… non può capire nulla dei modelli narrativi e non riuscirà mai a sopportare che nel racconto si intreccino particolari che non corrispondono alla lettera del testo evangelico o che, eventualmente, il… numero dei pani e dei pesci che Gesù ha condiviso per sfamare le persone che l’avevano ascoltato, non corrisponda esattamente alla indicazione di Luca (Lc 9, 10-17) o a quella di Matteo (Mt 14, 13-21) o a quella di Marco (Mc 6, 30-44) o a quella di Giovanni (Gv 6, 1-14).

    Come proporre i contenuti

    Narrare il Vangelo, continuando l’esperienza dei suoi discepoli (come ho appena ricordato) comporta al massimo il tentativo di attualizzare il testo biblico oppure al narratore si aprono differenti opportunità, in una fedeltà «in amorese» al testo stesso?
    Se per narrare fosse sufficiente aggiungere qualche particolare al testo, magari tentando una sinossi sulle differenti redazioni, ho l’impressione che la fatica sarebbe inutile. È ingiustificata l’aggiunta di particolari non contenuti nel testo. È impraticabile la ricerca di una sintesi letteraria su documenti nati da preoccupazioni diverse, dal momento che la differenza tra una redazione e l’altra dipende dalla reazione dell’evangelista allo stesso avvenimento e dalla sua preoccupazione di misurarlo con i vissuti dei suoi concreti interlocutori. In questi casi, considero molto più saggio proclamare il testo ufficiale (eventualmente nelle diverse redazioni), cercando al massimo una traduzione la più vicina alla lingua corrente.
    La mia ipotesi è diversa. Proprio la struttura e la qualità narrativa dei Vangeli mi sollecita verso la ricerca di modelli alternativi. Non si sostituiranno al testo scritto del Vangelo, ma lo possono precedere, per assicurare quel coinvolgimento che la proclamazione del testo riporterà poi al livello sacramentale.
    Prima di affrontare i particolari di questo impegnativo discorso, desidero avanzare una specie di esempio, di confronto e di illuminazione.
    Luca dichiara, senza incertezze, che Maria «dice» (Lc 1, 46) quel testo che ci siamo abituati ad intitolare il «Magnificat» dalla prima parola della sua traduzione latina. La formula di Luca dà l’impressione che Maria abbia improvvisato un testo, ricchissimo di riferimenti biblici, con una vena poetica insolita. Le cose sono andate veramente così? Non lo sappiamo con certezza. Oggi però gli esperti sono concordi nel riconoscere che «nel cantico di Maria, Luca trasmette una tradizione palestinese, interessata a conservare non tanto le parole letterali della Vergine quanto il senso della sua preghiera, modello di quella del popolo di Dio. Maria celebra la presenza del Regno di Dio nelle espressioni classiche di un salmo di ringraziamento e utilizzando i temi tradizionali del salterio» (X. Léon-Dufour). Luca, in altre parole, pone sulle labbra di Maria un canto che forse lei non hai mai pronunciato in questo modo. Lo fa però non inventandosi qualcosa… perché poteva venire utile al suo racconto, ma nella convinzione, profonda e motivata, che queste cose Maria le ha dette tante volte e nella certezza, condivisa da tutta la comunità apostolica, che Maria le poteva dichiarare in autenticità e verità.
    Il testo evangelico non offre un resoconto documentato di un avvenimento, ma lo reinterpreta, affermandone il senso, la prospettiva, la destinazione.
    Il racconto del Magnificat è un modello, splendido e autorevole, di narrazione evangelica.
    L’esempio citato propone una possibilità di ricostruzione narrativa di avvenimenti. Non è l’unica. Ne possiamo immaginare altre, come tento di fare nelle pagine che seguono.

    Il Vangelo come una delle tre storie

    La prima modalità narrativa rilancia, quasi in modo ripetitivo, lo stile con cui sono stati costruiti i Vangeli.
    Il testo che ci è stato tramandato propone il ricordo di un avvenimento importante della vita di Gesù, trasfigurato dall’esperienza di fede dell’evangelista (sotto la guida speciale e misteriosa dello stesso Spirito di Gesù, come ci invita a riconoscere la fede della Chiesa), e attento alle attese e alle sensibilità dei possibili interlocutori. Per questa ragione, il Vangelo secondo Matteo è diverso da quello secondo Luca… e persino i racconti della Cena sono conservati e tramandati secondo redazioni diverse.
    Nei testi che possediamo c’è quindi una storia di salvezza, costruita su tre differenti storie: l’evento di Gesù, la fede appassionata dei suoi discepoli, le attese e le esperienze dei destinatari, che diventato contenuto stesso del Vangelo, per la loro vita e per il consolidamento della loro speranza.
    Noi possiamo continuare nello stesso stile.
    La prima delle tre storie è quella decisiva e normativa: la storia di Gesù, tramandata nei testi scritturistici (l’attesa, il vissuto, l’esito: Antico Testamento, quattro Vangeli, gli Atti degli Apostoli), la storia di chi imposta la narrazione, la storia di coloro cui si rivolge la narrazione. Le tre storie si intrecciano; ciascuna però conserva la sua rilevanza e la sua importanza in ordine all’obiettivo che la narrazione si propone: aiutare a vivere e non solo assicurare l’ascolto. In ogni racconto sono presenti ed evidenti queste tre differenti storie: la storia di Gesù e della fede che ha suscitato nei suoi discepoli e della prassi che ha scatenato; l’esperienza, le attese, le delusioni, i sogni e le speranze del narratore e della comunità ecclesiale attuale; il vissuto delle persone che cercano ragioni di vita e di speranza, con una passione mai spenta.
    Un esempio può mostrare in concreto questa prima modalità:

    I PIEDI DI BARTOLOMEO [1]

    Carissimi,

    l’altro giorno ho ricevuto questa lettera: «Caro vescovo, io non sono né marocchino, né tossicodipendente, né sfrattato. Temo, perciò, di non avere udienza presso di te, perché ho l’impressione che oggi se non si appartiene a quel campionario di umanità, che ha a che fare con la violenza, con la prostituzione e con la miseria economica e morale, non si è in possesso dei titoli giusti per entrare nel cuore di Dio. Ma è colpa mia se la casa io ce l’ho, e il lavoro anche? Debbo farmi uno scrupolo se non ho mai rubato e in Tribunale non ci sono entrato neppure come testimone? Mi devo proprio affliggere se, grazie a Dio, non ho grossi problemi di salute, né soffro di solitudine? Quando ti sento parlare degli ultimi e affermi che la Chiesa, ad imitazione di Gesù, deve esprimere un amore preferenziale verso coloro che sono precipitati nell’avvilimento del vizio e dell’alcol, io che per giunta sono astemio, mi sento quasi un escluso. È mai possibile, mi chiedo, che il Signore mi scarti solo perché non frequento le bettole, e la sera mi ritiro a casa in orario? Debbo proprio ritenere una disgrazia il fatto che nella graduatoria, sia pure effimera, dell’estimazione pubblica, invece che gli ultimi posti, occupo posizione di tutto rispetto? Ricco non sono, ma non mi manca il necessario per tirare avanti con una certa tranquillità. Non ho mai tradito mia moglie. I miei figli, che non sono né malati di AIDS, né disoccupati, mi danno tantissime soddisfazioni. Mi reputo fortunato e sarei l’uomo più felice della terra se da un po’ di tempo a questa parte, a seguito di certi discorsi che ascolto in chiesa e a certe lettere che scrivi tu, non mi fosse venuto il dubbio che senza un certificato di emarginazione, di stato magari dalle patrie galere, mi sarà difficile l’ingresso nel regno di Dio. Dimmi, Vescovo, ma un po’ d’acqua, nel suo catino, Gesù Cristo non ce l’avrebbe anche per me?».
    Non ho dato ancora riscontro a questa lettera, ma siccome so che gli stessi interrogativi sono condivisi da più di qualcuno, ho pensato bene di rispondere, per così dire, ad alta voce.
    Mi viene in aiuto la figura evangelica di Natanaele, identificato dalla maggior parte degli studiosi col figlio di Tolomeo, e detto perciò Bar-tolomeo. Era un uomo così pulito e trasparente che quando Gesù lo vide la prima volta esclamò: «Ecco davvero un israelita, in cui non c’è falsità!».
    Secondo l’Evangelista Giovanni, questo apostolo simbolizza, addirittura, tutta una categoria di persone, e cioè gli israeliti fedeli, che non hanno tradito mai il Dio dell’Alleanza, si sono mantenuti irreprensibili, fino alla venuta del Messia e da Lui sono stati invitati ad entrare nella sua nuova comunità.
    Ebbene, la sera del Giovedì Santo, Gesù si è curvato a lavare anche i piedi di Bartolomeo, l’uomo onesto, nei cui occhi, un giorno, mentre si trovava sotto il fico, Egli, il Maestro, aveva visto specchiarsi il cielo limpido della rettitudine. Anche quel cielo, però aveva la sua piccola nube. Quando, infatti, Filippo gli andò a dire che Gesù di Nazareth era il Messia, lui, l’israelita integerrimo, il galantuomo, aveva replicato: «Da Nazareth, può mai venire qualcosa di buono?».
    Carissimi fratelli onesti, Bartolomeo è la vostra immagine. Non abbiate paura, perciò di essere discriminati dal Signore. Egli nel suo catino, l’acqua ce l’ha pure per i vostri piedi, che se si sono contaminati è solo per la polvere della strada percorsa per andarlo a trovare. Vi lava e vi asciuga con la stessa tenerezza perché vi vuol bene da morire. Anzi, vorrei aggiungere, che Egli sulle vostre estremità indugia di più, così come si indugia di più a detergere un cristallo di Boemia, che a lavare un bicchiere di creta carico di tartaro. I vostri piedi li lava e li asciuga con identico amore, anche perché forse, tra gli alluci, si nasconde una piccola macchia difficile a scomparire: la riluttanza a ricevere.
    Dite la verità: non avete mai affermato, pure voi, che cosa può venir di buono da Nazareth? Forse questo è il vostro peccato, piccolo quanto volete, ma che vi colloca tra gli ultimi pure voi. Vi siete esercitati solo a dare, a ricevere no. Da un drogato può mai venire qualcosa di buono? Dalla prostituta? Da un avanzo di galera? Che cosa può dare mai un marocchino se non un pericolo di infezioni? Forse questa è l’unica colpa che obbliga Gesù ad inginocchiarsi dinanzi a voi e che spinge la Chiesa a fare altrettanto. Non voler ammettere, sia pure per raffinate ragioni estetiche, che i poveracci abbiano qualcosa da insegnarvi in termini di crescita umana. Sicché gli emarginati sono quasi lo spazio dove esercitare le virtù della generosità, ma solo nella direzione del dare e mai dell’avere.
    Non abbiate paura, fratelli irreprensibili e buoni, Gesù Cristo si piega anche su di voi, se non altro per dirvi che non serve a nulla svuotare la casa per gli infelici, se poi non sapete introdurre qualcosa che essi possano offrirvi, sia pure un souvenir. A me e a tutti voi, che apparteniamo alla confraternita dei galantuomini, conceda il Signore di capire che metterci sulla pelle la camicia dei poveri, vale più che lasciarci scorticare vivi per loro, come San Bartolomeo, appunto.
    Un affettuoso saluto.


    L’attualizzazione del Vangelo

    Un’altra modalità in cui realizzare la narrazione di testi evangelici è quella che il titolo del paragrafo indica come «attualizzazione».
    L’espressione è abbastanza eloquente per dire di che cosa si tratta.
    Pensiamo dal concreto.
    Gesù, per indicare al dottore della legge la via maestra per la vita eterna, ha invitato ad amare Dio e il prossimo e, alla richiesta di chiarimenti, ha precisato chi è il prossimo, raccontando la storia del «buon samaritano» (Lc 10, 25-37).
    In quella storia, la proposta di Gesù è molto chiara e precisa: non possiamo fare un elenco di chi merita di essere considerato «prossimo» per noi e di chi, al contrario, non lo merita; l’atteggiamento verso il prossimo è qualcosa di strettamente personale. Si tratta di «farsi prossimo» a chiunque ha bisogno di noi e non di definire in anticipo chi ha bisogno e chi non ne ha.
    Gesù racconta la storia, utilizzando personaggi ricavati dalla cultura dei suoi interlocutori. I Giudei consideravano buoni il dottore della legge, il sacerdote e il levita.
    E valutavano poco affidabili i samaritani. Gesù capovolge la valutazione: l’unico che riscuote il suo consenso totale è il poco raccomandabile… samaritano.
    Anche i particolari sono espressivi per chi lo ascoltava: la strada, deserta e assolata, che da Gerusalemme porta a Gerico, i briganti che l’infestavano, il mezzo di trasporto…
    La storia del buon samaritano è già molto eloquente. Lo può diventare ancora di più, se viene attualizzata, cambiando i personaggi e le circostanze secondo le abitudini e i modelli culturali degli ascoltatori.
    Narrare il Vangelo attualizzando significa, in ultima analisi, realizzare questa trasposizione: cambiare contesto, nomi e particolari… per mostrare quanto la proposta ci riguarda da vicino. L’operazione è semplice: forse è quella più alla portata di mano di chi cerca modelli narrativi per il Vangelo.
    Ecco un esempio, collegato direttamente con la parabola del suon samaritano, di cui ho appena parlato:

    LA CIVETTA IN AUTOSTRADA [2]

    Non gli era mai successo di trovarsi solo, di notte, con il motore guasto in autostrada dove, di solito, la gente non si ferma. E perché dovrebbe fermarsi? Ci sono apposta le colonnine di SOS. Non è neanche omissione di soccorso, perché il soccorso c’è, ciascuno si arrangi a raggiungerlo con le sue gambe, se le ha buone; e se non le ha buone, si arrangi in altro modo, fatti suoi; e se, come quella notte, piove, apra l’ombrello; e, se non ha l’ombrello, peggio per lui che l’ha dimenticato, un’altra volta se ne ricorderà.
    Non gli era mai successo. Aveva visto altri in panne: qualche volta si era fermato, più spesso aveva tirato diritto, con la scusa del soccorso di Stato (o dell’Aci), augurando che la colonnina non fosse troppo lontana e che funzionasse.
    Adesso che era capitato a lui, quell’augurio così poco costoso – se mai qualcuno, passando rapido, gliel’avesse fatto – gli pareva una beffa; e la colonnina, sotto la pioggia, la immaginava lontanissima. (E chissà se funzionava!)
    Scese dall’auto e, riparandosi alla meglio con un impermeabile, cominciò a fare segni disperati. Passò un alto dirigente e quasi si infastidì. Perché la gente doveva mettersi per strada col motore in disordine? Se uno viaggia con la macchina vecchia porti un meccanico con sé e non infastidisca il prossimo! Si prende apposta l’autostrada per far presto. Se si dovesse fare i soccorritori tanto varrebbe prendere le vie ordinarie; e si risparmierebbe pure il pedaggio. Pigiò l’acceleratore e si allontanò rapidamente.
    Passò un ricco signore con una macchina riccamente accessoriata, dal radiotelefono al frigobar. Aveva anche l’autista, un accessorio in più che utilizzava nei viaggi brevi, più per rappresentanza e per prestigio che per necessità, perché di guidare era capace anche lui.
    «Ci fermiamo?» domandò l’uomo al volante.
    «Figurarsi! Con tutti i drogati, emigrati, zingari, delinquenti che ci sono in giro... Tira, tira diritto!»
    E l’autista tirò diritto.
    Passò un politico e fece subito il suo calcolo. Fermarsi, un uomo importante come lui, certo era bello e forse gli avrebbe fruttato qualche voto. Però era atteso ad una cerimonia e arrivare in ritardo era brutto e gli sarebbe costato più voti di quanti ne avrebbe potuto guadagnare. Affare in perdita: non conveniva.
    Passò un prete. Si fece un rapido ripasso della morale e del Vangelo; e sì, stando a quello che c’era scritto, avrebbe proprio dovuto fermarsi. Ma pensò ai suoi fedeli che l’aspettavano in chiesa... Non conveniva farli attendere; e le riflessioni sulla carità le riservò per l’omelia che avrebbe fatto di lì a poco, puntualmente.
    Le macchine continuavano a passare, la pioggia seguitava a cadere, l’uomo seguitava a fare gesti inutili. E gli montò dentro una gran collera. Possibile che neanche un cane, un gatto o nessun altro si fermasse? Già la gente aveva altro da fare e da pensare.
    Proveniva da Roma, aveva costeggiato piazza del Popolo piena di scalmanati bianchi, neri, gialli, rossi e di tutti i colori: insieme là a gridare e a cantare, a sprecare tempo per difendere quegli scalzacani di immigrati che venivano qui, a rubare pane e lavoro; come se l’Italia fosse un istituto di beneficenza e non avesse abbastanza problemi per suo conto, da doversi inguaiare con i problemi degli altri...
    Le macchine seguitavano a passare, la pioggia seguitava a cadere; e neanche un cane che si fermasse: un cane, un gatto, un animale qualsiasi... Quasi evocato dalla sua esasperazione, da un albero calò, amichevole, il chiu-chiu della civetta.
    L’uomo sibilò una bestemmia che solcò il cielo a razzo, diretta verso Dio che non c’entrava niente per ricadere sulla bestia che non c’entrava niente neanche lei. Subito dopo, abbassando il tiro, da Dio nell’alto dei cieli all’animale nell’alto dell’albero, bofonchiò:
    «Uccellaccio del malaugurio!»
    Aveva appena emesso l’imprecazione che si fermò un’auto. Era una macchina scalcagnata; e ne discese un uomo malvestito e con un viso nero che, nella notte, quasi non si vedeva.
    «Posso aiutare?» e, nel suo italiano un po’ stentato, lo invitò a salire, scusandosi per la povertà del mezzo. «E un’auto rimediata. Di solito, noi immigrati facciamo l’autostop» disse, scherzando bonariamente sulla propria miseria. Lo portò alla colonnina di soccorso, che funzionava! Lo riportò alla macchina in avaria, in attesa del carro-attrezzi.
    Dall’albero, amichevole, ricantò la civetta: «Chiuchiu». L’uomo nero guardò in alto (e si videro, nel nero della notte e della pelle, i denti bianchi del sorriso).
    «Buona bestia» esclamò. «Buona bestia. Porta bene!».


    Non posso però nascondere una serie di perplessità. Non le ricordo per negare la funzionalità del modello ma per invitare verso utilizzazioni accorte e critiche.
    I testi evangelici hanno il pregio, enorme, di essere facilmente generalizzati verso tutte le circostanze della esistenza. Non dividono in buoni e cattivi e, soprattutto, non danno ragione ad una categoria di persone, mettendo l’altra con le spalle al muro.
    L’attualizzazione eccessiva, al contrario, riduce la prospettiva, restringendo le categorie dei possibili destinatari e, soprattutto, esprimendo facili valutazioni etiche… senza avere l’autorevolezza di proporle.
    È latente il rischio di strumentalizzare il Vangelo ai propri interessi. Qualche volta l’attualizzazione si trasforma in un gioco al massacro nelle mani del narratore.

    Tradurre in racconto la proposta teologica del Vangelo

    Per commentare questa terza modalità narrativa, trascrivo prima di tutto una storia, molto bella ed espressiva.

    LA PECORELLA SMARRITA [3]

    Una pecora scoprì un buco nel recinto
    e scivolò fuori.
    Era così felice di andarsene.
    Si allontanò molto e si perse.
    Si accorse allora di essere seguita da un lupo.
    Corse e corse,
    ma il lupo continuava ad inseguirla.
    Finché il pastore arrivò
    e la salvò riportandola amorevolmente all’ovile.
    E nonostante che tutti l’incitassero a farlo,
    il pastore non volle riparare il buco nel recinto.


    Il testo presentato contiene due parti molto distinte.
    Nella prima è riassunto, quasi alla lettera e con le stesse espressioni, il testo del Vangelo, secondo il racconto di Luca (Lc 15, 3-6). Nella seconda parte si aggiunge una battuta che riferisce la decisione del pastore di non chiudere il buco nel recinto, nonostante i consigli e le pressioni dei suoi colleghi, saggi e prudenti. Questa nota non è contenuta nel testo del Vangelo, in nessuna delle redazioni e… neppure in qualche documento apocrifo. Sembra inventata di sana pianta.
    A pensarci bene, in una meditazione trasversale di tutto il Vangelo, l’atteggiamento del pastore è tutt’altro che strano e originale. Gesù continuamente afferma che così fa Dio per noi: ci ama per primo, ci accoglie quando ci spunta dentro la nostalgia del suo abbraccio, ci insegue con il suo amore accogliente anche quando abbiamo deciso di camminare lontano da lui. Non ci ritira il dono della libertà e della responsabilità, anche se decidiamo di fare di esso un uso suicida.
    L’autore del racconto della pecorella smarrita ha collegato due fatti: il racconto di Gesù e la sua teologia. Ha trasformato quello che Gesù ha ripetutamente dichiarato in parole in un particolare, concreto e imprevedibile, della sua storia. Non ha aggiunto un messaggio teologico alla sua storia; ha trasformato il messaggio in una storia, interpretando in modo narrativo il Vangelo.
    Questo rappresenta, nella rassegna di modelli che sto offrendo, un ipotesi affascinante di narrazione evangelica: il fatto narrato viene trasfigurato perché nel racconto viene esplicitata una conclusione a sorpresa che dice qualcosa di evangelico anche sul merito del racconto.

    Una storia costruita su differenti pagine del Vangelo

    Il quarto modello di narrazioni evangeliche ci riporta ancora alla struttura del Vangelo.
    Una cosa ha fatto impazzire coloro che hanno tentato di ricostruire una cronologia plausibile degli avvenimenti relativi alla vita di Gesù. L’esempio più concreto è dato dalla settimana che precede la morte di Gesù sulla croce. Gli avvenimenti sono tanti e collocati in contesti così differenti che sembra improbabile che tutti si siano realizzati nello stesso arco di tempo.
    L’evangelista ha fatto anche lui i suoi conti… ed è arrivato certamente alla stessa conclusione cui siamo giunti noi. Una differenza c’è però tra la nostra preoccupazione e la sua: a lui non interessava offrire uno spaccato cronologico della vita di Gesù. Gli interessavano i fatti raccontati. Le cose impegnative da comunicare stanno nei fatti, non nella scansione temporale in cui sono avvenuti.
    Questa constatazione mi ha suggerito un modello di narrazione evangelica in cui un insieme di avvenimenti, di collocazione spazio-temporale diversa, sono narrati come un’unica storia, perché al narratore sta a cuore cogliere e rilanciare un messaggio, attraverso la struttura del racconto stesso, e non, al contrario, dire come si sono svolti veramente i fatti e in quale ordine si sono succeduti.
    Anche questa volta, lo dico con un esempio: la storia della fedeltà di Maria alla causa che Gesù le ha consegnato, quasi come gesto di riconoscenza per tutto quello che la mamma sua gli ha donato.

    LA FEDELTÀ ALLA CAUSA [4]

    Trent’anni passati con Gesù vicino, condividendo, giorno dopo giorno, lo stesso ritmo di vita, non erano, di certo, pochi. Maria si era abituata. Ed era felice.
    Era ormai lontano il ricordo di quanto era successo tanti anni prima a Gerusalemme, in quel viaggio organizzato per festeggiare il dodicesimo compleanno di Gesù. Maria ogni tanto ci ritornava nella sua preghiera; lo temeva un presagio di qualcosa che doveva capitare. Man mano che il tempo passava, però, la preoccupazione si faceva sempre meno inquietante. Gesù stava, buono e tranquillo, in casa con sua mamma. Niente sembrava turbare la gioia della convivenza.
    All’inizio era lei che gli insegnava i segreti dell’esperienza religiosa. Gli raccontava le storie gloriose del suo popolo. Approfittava di qualche pagina meno felice per fargli le raccomandazioni di cui ogni mamma circonda il figlio.
    Un poco alla volta, però, si sono invertiti i ruoli. Gesù aveva troppe cose importanti da dire. Sembrava conoscere, quasi d’esperienza diretta, qualche segreto del mistero di Dio. Ogni tanto gli scappava persino di chiamarlo «Padre» con un tono originale che lasciava stupiti.
    Ad un certo punto qualcosa cambia. Prima con qualche battuta e poi con un tono sempre più deciso, Gesù incomincia a parlare di un suo progetto, grande e impegnativo. Diceva: «Sai, mamma, come si comporta chi cerca perle preziose? Guarda dappertutto, con ansia; si informa; la pensa di giorno e di notte. Poi, quando viene a sapere dell’esistenza di una perla dal valore inestimabile, vende tutto per comprarla. Quella perla è il sogno della sua vita. Tutto il resto conta meno: è bello, interessante, gradevole... ma la perla... gli toglie il sonno e spegne ogni altro desiderio». Aggiungeva subito, trasognandosi in volto: «Io ho trovato la perla preziosa. Devo andare. Presto abbandonerò tutto. Il Padre mi ha affidato un compito che è come la perla preziosa». Maria ascoltava e pensava. Sperava che quel giorno non venisse mai. Se lo augurava lontano.
    Un giorno, quasi all’improvviso, Gesù abbraccia sua mamma, saluta gli amici, organizza le sue poche cose, e parte, con l’entusiasmo di chi ha trovato finalmente la perla preziosa attorno a cui gira tutta l’esistenza.
    I primi giorni sono stati duri per Maria. Senza Gesù accanto tutto le sembrava triste. La casa era vuota. Mille cose le ricordavano il figlio lontano, perduto dietro una passione strana e un poco pericolosa.
    Maria sapeva pregare. L’aveva insegnato lei a Gesù. Così, anche questa volta, ha ripensato, meditato e pregato. Nella preghiera scopre che il progetto di Gesù non riguarda solo suo figlio. Era anche suo: un pezzo decisivo della sua vita. Gesù le aveva regalato la passione per la perla preziosa.
    Passano lunghi mesi.
    Ogni tanto le arrivano, a ondate successive, espressioni e ricordi che le riempiono il cuore di gioia. Gesù parla parole di pace e di speranza. Si impegna per la vita di tutti. Sa resistere persino ai farisei e ai sommi sacerdoti che la facevano da padroni nel nome di Dio. Glielo confidano quelli che passavano da Nazareth e avevano incontrato Gesù da qualche parte. Qualcuno, ogni tanto, le portava persino i saluti del figlio in missione.
    Un’ombra attraversava, qualche volta, il suo cuore di mamma: speriamo in bene... toccare i potenti è sempre pericoloso.
    Un giorno incontra per strada una donna. La stava cercando. «Tu sei Maria? Sei la mamma di Gesù?». Non fa a tempo a rispondere di sì. Le butta le braccia al collo e le stampa un bacio sulla fronte. «Maria, grazie per averci regalato Gesù... Mio figlio era morto per una malattia misteriosa e incurabile. Pensa: dieci anni, strappato violentemente dalla morte; e io sono vedova. Ero disperata. Lo stavano già portando alla tomba. È arrivato Gesù come un raggio di sole nella notte. Ha fermato il funerale e ha chiamato per nome mio figlio. Ora è vivo. Sta bene. Maria, grazie...». E giù un altro bacio, più solenne del primo.
    Maria si commuove. Condivide la causa di suo figlio con la stessa ardente passione. Se lo sente vicino, nei segni di vita che la sua presenza ha seminato tutt’attorno.
    Però... quanta nostalgia di Gesù. Possibile che non passi mai da queste parti?
    Finalmente arriva la volta buona. Un’amica, un giorno, entra in casa di Maria come un fulmine. «Sai, Maria, Gesù è da queste parti. Sta predicando nel villaggio vicino. Andiamo a salutarlo. Vieni?».
    Qualche preparativo alla veloce; una raccomandazione ai vicini di casa... e via di corsa verso il villaggio dove c’era Gesù.
    Nella piazza principale una grande folla è radunata. In mezzo c’è Gesù. Sta parlando. Maria si ferma ai bordi della folla. Vede lontano Gesù. Lo scruta con lo sguardo di mamma. Si è un po’ sciupato. Ma gli occhi e la voce... è sempre lui. Quanta gente lo ascolta, con gioia e interesse. È bello... la lontananza è ripagata dal bene che sta facendo.
    Maria aspetta. Forse Gesù non si è accorto di lei. Aspetta... appena smette di parlare e ha un po’ di pace, l’abbraccio ripagherà l’attesa.
    Tra la folla, c’è anche la donna di qualche giorno prima. Con lei c’è il figlio: un bel ragazzo, che scoppia di salute.
    La donna la guarda. Si fa avanti. «Maria, Gesù non ti ha visto. Chiamalo. Va’ in prima fila. Se non ti vede, Gesù continua a parlare. Sai... mi hanno riferito che qualche volta si fa notte. Lui parla benissimo. Tutti lo ascoltano volentieri. Ma il tempo passa inesorabile. Fatti avanti».
    «Sta’ buona. Aspetto. Non ho fretta. Mi basta vederlo da lontano. Gesù ha i suoi impegni. Non posso interromperlo». Nel suo cuore pensava alla perla preziosa, di cui tante volte Gesù le aveva parlato negli ultimi tempi.
    Anche l’amica insiste: «Maria, fatti avanti... qui non si torna più a casa. Fatti vedere da Gesù. Sei o non sei sua madre?».
    Maria tenta di tranquillizzarla. Non può interrompere Gesù. Certo, è suo figlio. Sa però che la causa di Gesù ha dei diritti anche sulla carne e sul sangue. Davanti alla causa della vita che Gesù sta servendo nel nome di Dio, anche lei, come tutti gli amici di Gesù, è «soltanto serva».
    Le viene in mente il primo momento della sua maternità... quel giorno, misterioso e affascinante, in cui aveva avuto il coraggio di porsi davanti al mistero di Dio come «serva» dei suoi progetti.
    Allora... non era per nulla chiaro. Si è fidata di Dio. Ora, però, le cose si fanno chiare. Riafferma la sua disponibilità piena e totale.
    Ci pensa, con gioia e timore, mentre la voce di Gesù risuona lontana.
    Si rifà avanti la donna di prima: «Maria, chiamalo. Non avere paura. È tuo figlio. Qui ci sono tante mamme. Ti capiranno».
    «No. Aspetta. Lascialo finire», insiste Maria. La donna non ne può più. Ci pensa lei adesso: sa cosa vuol dire essere madre. «Gesù», grida, facendosi coraggio «qui c’è tua madre... una donna fortunata ad avere un figlio come te. C’è tua madre, Gesù».
    Gesù si interrompe per un attimo. Tutti si voltano verso Maria. Qualcuno accenna ad un applauso. Maria se lo merita proprio... con un figlio così.
    La risposta di Gesù non si fa attendere: «Maria, mia mamma, ha capito benissimo la storia della perla preziosa. La causa della vita di tutti sta prima della carne e del sangue. Maria lo sa e l’ha scelto. Continuiamo...».
    Sembrano dure e implacabili le parole di Gesù. Maria le comprende benissimo. Le ha vissute per tanto tempo. Ora deve scegliere: riafferma con forza la sua scelta di fedeltà. E aspetta, tranquilla.
    La storia della fedeltà di Maria alla causa di Gesù ha un epilogo triste e violento: la croce. Ai piedi della croce, Maria riafferma, nel pianto, la sua fedeltà. Lo fa anche per noi. Per dichiarare l’esigenza e per assicurarci sull’esito.
    Questa è la fedeltà che il servizio alla causa del Vangelo chiede a coloro che Gesù invita a collaborare con lui: la vita e la speranza di tutti stanno prima di tutto, persino prima dei diritti della carne e del sangue.


    È facile realizzare un’operazione di discernimento critico sul testo appena riportato. Ci sono diversi rimandi a testi evangelici (per esempio: Mc 3, 31-35, Gv 19, 26-27). Altri particolari non sono documentabili (la mamma del ragazzo di Nain che abbraccia riconoscente Maria)… ma non ci vuole eccessiva fantasia per constatare che se le cose non sono andate esattamente così è solo perché le circostanze non hanno permesso l’incontro di queste due mamme.
    Un filo logico collega tutti i frammenti di storie: l’esperienza del narratore che ha attivato un forte processo ermeneutico tra i testi del Vangelo e il suo vissuto concreto, restituendo al Vangelo una forza provocatoria speciale e alla propria vita un orizzonte insperato.
    In questo caso, alla radice della storia non sta un episodio concreto del Vangelo: ce ne sono tanti… forse anche qualcuno di quelli di cui parla Giovanni a conclusione del suo Vangelo: «Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome» (Gv 20, 30-31).
    C’è però una «teologia» dal Vangelo: una rilettura del mistero di Dio e di quello che siamo noi in lui, a partire dalla parola definitiva di questo grande complementare mistero, che è Gesù di Nazaret.
    Anche questo… è un modo di raccontare storie per aiutare a vivere.

    Un’utilizzazione per diversi momenti

    Prima di concludere questo capitolo, davvero importante nell’insieme della proposta che sto facendo, desidero suggerire qualcosa di concreto. Ho indicato la necessità di raccontare il Vangelo per aiutare a vivere, e ho mostrato alcune delle tante possibilità aperte per chi condivide la mia proposta.
    Una domanda viene spontanea: come si può fare?
    La narrazione può essere utilizzata in tanti momenti. Ne propongo alcuni, come esempio da cui è possibile partire, con un pizzico di fantasia, allargare la prospettiva verso altre utilizzazioni.

    L’uso delle storie per una proposta formativa

    Uno dei momenti tra i più interessanti nella evangelizzazione dei giovani, è quello delle giornate di ritiro, di riflessione e di approfondimento. Questa esperienza rappresenta ormai un punto di riferimento frequente nei gruppi impegnati e in quelli che stanno maturando verso impegni e responsabilità.
    In questi incontri la narrazione può rappresentare uno strumento prezioso di formazione.
    Tre elementi caratterizzano questa esperienza:
    – il confronto con pagine del Vangelo, capaci di provocare e orientare;
    – la sollecitazione a mettere in questione la propria vita, a partire dalla forza interpellante del testo evangelico, percorrendo l’itinerario «salvifico» tipico di ogni confronto serio con il Vangelo: la messa sotto giudizio, l’accoglienza che spinge alla conversione, la decisione di passare subito a fatti nuovi;
    – la constatazione di una solidarietà profonda tra le persone, da quelle più vicine a quelle facilmente dimenticate, che nasce dalla scoperta di come la propria storia sia anche storia di altri.
    Attraverso il confronto della storia narrata, in cui si intrecciano differenti storie, la proposta formativa non solo assume i toni di una sollecitazione alla conversione, radicata nel vissuto e tutta aperta alla speranza, ma viene vissuta nella consapevolezza gioiosa di una progressiva scoperta di solidarietà. Viene riscoperto il Vangelo: nel testo proclamato e in quello vissuto da tanti fratelli.
    Per raggiungere questi obiettivi il modello narrativo offre contributi preziosi, alla condizione che sia utilizzato in modo sapiente. Suggerisco, a grandi linee, un possibile percorso.

    Scegliere il tema in chiave ermeneutica

    La prima cosa da fare è la scelta del tema. Spesso ho ricordato la categoria con cui scegliere: la prospettiva «ermeneutica». Si tratta, in altre parole, di scegliere articolando le attese dei giovani, quelle immediate e quelle più profonde, con le esigenze educative e progettative che ogni educatore e ogni comunità ecclesiale conosce e riconosce. Questo primo momento è di grande rilevanza: permette davvero la realizzazione di un percorso formativo, capace di accompagnare e di sollecitare nello stesso tempo.

    La scelta del testo evangelico da mettere al centro

    Scelto il tema, l’attenzione va concentrata sulla scelta di un testo evangelico da mettere al centro del progetto formativo.
    La scelta del testo da porre al centro richiede una doppia fatica: la decisione di quale sia il brano (la storia) cui fare riferimento e l’elaborazione di una nuova storia, costruita sul testo evangelico, per inserire nella storia evangelica la storia di chi narra e quella di coloro cui la narrazione è offerta.
    Questa operazione è molto delicata. A monte del racconto e come suo riferimento normativo stanno i testi del Vangelo: un documento che fonda il racconto, gli assicura la forza salvifica, lo rende capace di risultare significativo e coinvolgente nell’ordine della speranza. Senza questa centralità del testo evangelico, l’operazione diventerebbe una vuota e inutile fabulazione letteraria.
    I modi di raccontare la stessa storia sono però davvero tanti. Una buona narrazione del Vangelo non solo sa articolare in modo accorto tempo, personaggi e trama. Deve assicurare anche un collegamento consequenziale con il testo evangelico di riferimento.
    Come assicurare tutto questo? La condizione, prima e pregiudiziale, è la conoscenza attenta del testo evangelico che è posto al centro della giornata. In un altro capitolo ho già ricordato alcune modalità di questa indispensabile conoscenza (per esempio, al livello esegetico, per non far dire al testo ciò che non vuole affatto dire). Qui, sul piano pratico, ricordo alcune raccomandazioni che vengono dall’esperienza:
    – Leggere bene il testo più volte, meglio se scritto su un foglio in caratteri grandi con spazio per scrivere e sottolineare. È bene servirsi di traduzioni diverse per confrontare verbi, ripetizioni, diversità e avere una visione più ampia che rispetta la versione originale.
    – Analizzare il testo, delimitarlo, scegliendo quale parte deve essere oggetto della lettura e vedere quali sono gli elementi che lo discostano da ciò che precede e segue; trovare gli elementi: personaggi, luoghi, indicazioni di tempo e gli avvenimenti. È necessario raccogliere la maggior quantità di informazioni che non balzano subito agli occhi. Un altro elemento utile è definire il significato di parole specifiche come ad esempio: fariseo, esattore delle imposte, essere giusti, ecc. Sarebbe bene usare colori diversi a seconda dell’elemento che si vuole sottolineare.
    – Studiare l’intreccio confrontando i cambiamenti dall’inizio alla fine, l’importanza dei personaggi e luoghi, il valore simbolico di alcuni elementi, la presenza dell’intreccio di più storie, la conclusione se è sospesa, verificare cosa c’è in causa.
    – Precisare il ruolo dell’autore, più specificatamente se è un commentatore, se è solo narratore, cercare di scoprire il suo intento.
    – Formulare il messaggio, o i messaggi, visto che possono essere diversi.

    Un modello di approfondimento

    Scelto il tema, il testo e il messaggio, inizia il lavoro di approfondimento e di confronto, personale e di gruppo.
    L’approfondimento può assumere il ritmo che segue.

    – Primo momento
    Viene presentato il tema attraverso il racconto della storia, scelta per evocarlo in tutta la sua forza provocante e coinvolgente. La presentazione della storia può essere fatta in modalità diverse, selezionate sulla misura di coloro cui la storia è offerta. Il modello più semplice (e forse quello più efficace) è il racconto della storia. Il racconto può essere realizzato anche a più voci e con un minimo di drammatizzazione. Molte storie si prestano anche a presentazioni… multimediali. In questo primo momento è importante assicurare coinvolgimento e affidare alla storia la capacità di far intravedere problemi e prospettive.

    – Secondo momento
    Il secondo momento è dedicato ad un lavoro a gruppo, orientato a riflettere sulla storia, per coglierne tutta la ricchezza propositiva e l’attualità rispetto ai destinatari.
    Dopo un primo momento di approfondimento, il gruppo può essere opportunamente invitato a cercare storie simili a quella offerta. La somiglianza può essere assicurata per convergenza o per divergenza. Se la storia è fondamentalmente una storia evangelica, è interessante far cercare al gruppo passi paralleli, per cogliere l’atteggiamento di Gesù in circostanze simili a quelle all’ordine del giorno nella storia scelta.
    Il lavoro di gruppo si conclude attraverso la costruzione di una nuova storia «di gruppo», in cui possono convergere le riflessioni di approfondimento, le esperienze personali, le storie parallele.

    – Terzo momento
    Si ritorna in assemblea per ascoltare le storie che i singoli gruppi hanno prodotto. L’operazione è destinata ad assicurare non solo la condivisione del lavoro di gruppo, ma soprattutto l’esperienza felice di sentirsi immersi in una storia generale, che spalanca attenzioni, interessi e preoccupazioni verso una visione molto più ampia e generale.

    – Quarto momento
    La giornata di formazione si conclude con una celebrazione «solenne». Essa può assumere questo ritmo:
    * proclamazione del testo evangelico che sta a fondamento della storia raccontata, per incontrare la parola di Dio nella sua autenticità e pienezza. Nessuna parola nostra può diventare sostitutiva della parola di Dio che i testi della Scrittura propongono. Tutto il lavoro precedente converge su questo momento. Non è inutile ricordare la necessità di realizzare questo momento in modo davvero solenne;
    * un impegno «collettivo»: la storia è sempre orientata a far nostro l’invito di Gesù: «Fa’ anche tu lo stesso». Viene studiato assieme questo impegno possibile.
    Una volta condiviso, va studiata la possibilità concreta di realizzarlo e i momenti in cui verificare assieme come si sta operando sul merito;
    * una preghiera conclude l’incontro, per ringraziare e per affidare allo Spirito di Gesù le prospettive, personali e comunitarie, che l’esperienza ha suscitato.

    Per una educazione etica

    Viviamo in una stagione culturale che, per molti aspetti, è inedita. Di conseguenza propone prospettive e pone problemi a cui, di solito, gli educatori sono rimasti indifferenti, proprio perché abituati a pensare e a progettare secondo logiche abbastanza differenti.
    Uno di questi aspetti è quello della soggettivizzazione. Con questa espressione si intende quella situazione culturale in cui prevale la valutazione soggettiva sui dati oggettivi. In situazione di soggettivizzazione non sono rifiutati né i valori né le esigenze etiche, ma gli uni e le altre sono accolti e filtrati attraverso la percezione che ogni persona ha della importanza, rilevanza e significatività di tutto questo per la propria vita e per il mondo dei propri progetti.
    Tutto questo produce quello stato di deriva morale che preoccupa spesso gli educatori.
    Come uscirne? Propongo il confronto narrativo con il Vangelo, allargato al vissuto dei grandi credenti, come via di uscita interessante e stimolante.

    A confronto con la prassi ecclesiale

    È molto interessante il confronto con il vissuto ecclesiale. Lo riconosciamo fonte autorevole di indicazioni anche per l’oggi.
    La Bibbia propone, con insistenza, le esigenze etiche soprattutto attraverso la narrazione di storie di vita: viene mostrato il progetto di Dio sull’uomo attraverso il racconto delle vicende dei personaggi che questo progetto hanno incarnato e, dal negativo, di coloro che l’hanno tradito e ne hanno dovuto subire le conseguenze. Essa è davvero una grande proposta di senso e di prospettiva, tracciata attraverso la trama complessa di personaggi, che di questa storia sono i protagonisti e, nello stesso tempo, i rivelatori del progetto di Dio sulla storia.
    Basta qualche rapido richiamo.
    Dio si è fatto storia nelle storie di Abramo, Mosè, Samuele, Davide, dei patriarchi e dei profeti.
    Nel Nuovo Testamento, lo svelamento del progetto di Dio e della storia della sua salvezza in atto culmina nella storia di Gesù di Nazareth. Nella sua persona Dio si rivela all’uomo in modo definitivo. Nella sua storia Dio indica agli uomini la strada che porta alla salvezza, in una adesione di fede e in una esperienza morale coerente.
    «La morale cristiana è stata predicata per secoli raccontando gli eventi della vita di Cristo ed è stata concepita e presentata come partecipazione viva a questi eventi e come conformazione al loro protagonista» (G. Gatti). Questo è capitato all’inizio della storia della Chiesa: il libro degli Atti degli Apostoli ne è una riprova eccellente. Gli Atti dei Martiri dei primi secoli sono una continuazione logica di queste narrazioni evangeliche, orientate a suscitare la fede e una qualità etica di vita coerente.
    In seguito poi il repertorio agiografico si è arricchito con la presentazione delle storie di vita dei monaci, dei grandi pastori di anime, dei cristiani più impegnati, testimoni tutti di una qualità evangelica di vita.
    Del resto, non si poteva fare altrimenti.
    Questo modo di fare non ha, infatti, solo una funzione parenetica, propria di ogni letteratura edificante, ma ad esso va attribuito un ruolo euristico, anche teoretico. Un’autentica ermeneutica delle tendenze costitutive dell’uomo dalla prospettiva del progetto di Dio, richiede, in altre parole, non solo un’operazione di logica formale, ma soprattutto il confronto provocante ed evocativo con il vissuto.
    Di conseguenza, la scelta di un modello comunicativo in cui le proposte sono offerte attraverso il racconto della vita di persone concrete, che hanno fatto scelte etiche coraggiose o hanno tradito il progetto che era stato loro consegnato, è una ipotesi necessaria per due ragioni: prima di tutto esso è esigito dalla preoccupazione di dire qualcosa che risulti espressivo e coinvolgente; inoltre, il fondamento della proposta, le motivazioni che la giustificano e la speranza che ne sorregge l’attuazione… non sono «ragionamenti», ma «eventi», momenti che costituiscono la storia della salvezza. Per coinvolgere e per proporre eventi, il modello narrativo è quello più pertinente ed efficace, come ho cercato di motivare lungo le pagine di questo studio.

    La proposta

    Tutto questo fonda la mia proposta: sempre, la formazione etica richiede percorsi comunicativi di tipo narrativo; oggi la scelta è particolarmente urgente, in una stagione di larga e diffusa soggettivizzazione. In tempo di soggettivizzazione, soprattutto le narrazioni dei vissuti sono capaci di provocare e di sollecitare a decisioni coerenti.
    Certamente non è sufficiente cavalcare l’onda dominante per essere sicuri di fare proposte serie e autentiche. Non sono più serie quelle tutto giocate sul filo di una razionalità fredda e sicura. Non lo sono neppure quelle che percorrono le logiche esperienziali, solo perché assicurano ascolto e consenso.
    Alcune condizioni vanno ricordate con forza, per assicurare alla proposta quella intenzionalità formativa che mi sta fortemente a cuore.
    Ne ricordo tre.
    * La prima riprende un tema già sottolineato molte volte: la proposta narrativa, impegnata a far fare esperienze, ha bisogno di suscitare una autentica esperienza. Richiede, di conseguenza, il sostegno alla libertà e responsabilità personale e la conseguente attenzione a cogliere il messaggio dentro l’evento, la proposta nella storia narrata. Non possiamo narrare una bella storia di vita e poi concludere con una batteria di suggerimenti morali, perché il racconto deve essere già messaggio. Il racconto diventa messaggio perché, sulla forza provocatoria del racconto, i giovani sono aiutati a riflettere e ad interiorizzare ciò verso cui il racconto sollecita.
    * Come seconda condizione ricordo una esigenza cui oggi siamo particolarmente sensibili. Vale per tutte le proposte educative, ma possiede una rilevanza tutta speciale quando si riferisce al racconto di fatti di vita, minacciati sempre di enfasi indebite o generalizzazioni scorrette.
    Con una espressione di sintesi, chiamo questa seconda condizione la serietà critica. «Ciò che della vita dei santi può essere portatore di indicazioni precise e vincolanti per il discorso teologico-morale deve essere anzitutto sottratto alle amplificazioni, alla retorica, agli abbellimenti e ampliamenti leggendari da cui un certo tipo di letteratura agiografica non va purtroppo esente» (G. Gatti).
    * Anche per la terza condizione va ricordato un tema su cui siamo particolarmente sensibili oggi, da riaffermare e utilizzare continuamente. L’ho spesso chiamato il sospetto ermeneutico per ricordare la necessità di un continuo atteggiamento di discernimento, capace di distinguere ciò che è permanente da ciò che invece risente dei modelli culturali dominanti in una determinata stagione, ciò che va considerato «proposta», forte e coraggiosa, e ciò che invece è legato alla sensibilità personale dell’individuo di cui raccontiamo il vissuto edificante.

    La meditazione quotidiana del Vangelo

    Il modello narrativo può rappresentare anche una modalità interessante per realizzare, nell’arco della giornata, quell’esercizio di riflessione personale e di approfondimento che è spesso raccomandato con la formula «meditazione».
    Purtroppo oggi è un poco in crisi. Non mi preoccupa, prima di tutto, la sua crisi istituzionale, il fatto cioè di prevedere un orario e una postura in cui «fare meditazione», come raccomandavano i maestri di spirito. È fuori discussione la constatazione che senza un minimo di organizzazione è difficile trovare il tempo e la calma, necessari per riflettere e meditare, nel ritmo forsennato di tante nostre giornate.
    Mi preoccupa soprattutto il fatto che stiamo privandoci di questo spazio di interiorità, irrinunciabile per sopravvivere come persone mature e come discepoli di Gesù.

    Recuperare l’interiorità

    La narrazione non serve a recuperare l’interiorità. Richiede, al contrario, una forte capacità di interiorità, per poter raggiungere gli scopi che si prefigge.
    L’utilizzazione della narrazione come momento meditativo prerichiede, di conseguenza, l’abilitazione alla interiorità e, di conseguenza, sollecita i responsabili dei processi formativi ad assicurare l’esercizio di interiorità.
    Interiorità dice spazio intimissimo e personale, dove tutte le voci possono risuonare, ma dove ciascuno si trova a dover decidere, solo e povero, privo di tutte le sicurezze che danno conforto nella sofferenza che ogni decisione esige. Il confronto e il dialogo serrato con tutti sono ricercati, come dono prezioso che proviene dalla diversità. La decisione e la ricostruzione di personalità nascono però in uno spazio di solitudine interiore, che permette, verifica e rende concreta la «coerenza» con le scelte unificanti la propria esistenza.
    La capacità di interiorità è così la condizione irrinunciabile di un processo formativo per un tempo di complessità.
    In questo spazio di esigente e indiscutibile soggettività la persona valuta e interpreta tutto, prende le proprie decisioni, soffre la faticosa coerenza con le scelte.

    Il contributo della narrazione

    Ho indicato nella capacità di interiorità una specie di precondizione esistenziale per la formazione. Essa non spunta all’improvviso nel percorso formativo della persona, e tanto meno è frutto della trama di buone raccomandazioni di cui la persona viene circondata. Nasce sull’esercizio e sulla verifica.
    Un momento prezioso di questo esercizio formativo è costituito dalla capacità di ritagliare tempi di silenzio, di riflessione e di meditazione nel ritmo della propria giornata.
    Sappiamo però tutti, anche d’esperienza diretta, del rischio di vanificare questi tempi di silenzio, lasciandoli in balia di un pellegrinaggio da un’emozione ad un’altra, da una preoccupazione ad un’altra.
    Per farli diventare scuola di interiorità ed esercizio della funzione che all’interiorità compete, dobbiamo «riempirli».
    A questo livello si pone il contributo dei modelli narrativi. La narrazione può così diventare un sapiente momento di meditazione.

    Un percorso

    Suggerisco un percorso che viene dalla esperienza personale.
    La prima cosa da fare, dopo un momento di preghiera personale in cui ci si colloca nella presenza accogliente dello Spirito di Gesù, può consistere nel tentativo di individuare problemi e inquietudini, chiamandoli coraggiosamente per «nome», attraverso uno scavo di responsabilità e di scelte. Una buona meditazione «da discepoli di Gesù» non li lascia fuori dalla porta, con la pretesa di concentrarsi sulle cose che contano… se è vero che la vita, il suo senso e la speranza sono davvero la cosa che conta più di tutte.
    La questione è un’altra: la comprensione seria dell’evento che inquieta e fa problema, e la ricerca di prospettive di soluzioni capaci di collocarci di fronte al mistero di Dio, in verità e responsabilità.
    Per questa ragione suggerisco la lettura personale, a ritmo calmo e riflessivo, di una pagina del Vangelo che abbia qualcosa da dire sui problemi e sulle inquietudini.
    Non solo sottolineo la necessità di ritrovare nella Parola di Dio la chiave per comprendere, affrontare e risolvere ciò che ci inquieta. Sottolineo, con la stessa forza, la necessità di confrontarsi con una pagina che abbia qualcosa da dire proprio sul mio problema… per far diventare parola per me la parola che incontro.
    A questo punto è tempo di realizzare qualcosa che assomigli – nel segreto della meditazione personale – alla logica generale della narrazione. Propongo di tentare la costruzione di una storia di vita, in cui s’intrecci quel frammento della nostra esistenza che abbiamo portato all’interno del momento meditativo, con la storia dell’esperienza salvifica che i discepoli di Gesù riferiscono nel testo meditato. Nasce così una nuova storia, capace di offrire prospettiva di speranza e di responsabilità al problema, immerso nel mistero del progetto di Dio, scoperto nel testo evangelico.
    A conclusione, quello che è stato meditato può diventare, almeno qualche volta, un testo scritto: la nuova storia, scritta prima nello spazio dell’interiorità personale, e messa poi in carta, per ricordare e per memorizzare meglio la decisione personale verso la conversione.

    NOTE

    [1] Bello A., Dalla testa ai piedi, Luce e vita, Molfetta 1989 – trascrizione dalla cassetta registrata.

    [2] Zarri A., Apologario. Le favole di Samarcanda, Camunia, Milano 1990.

    [3] De Mello A., Il canto degli uccelli. Frammenti di saggezza nelle grandi religioni, Paoline, Milano 1986.

    [4] Tonelli R., Trenta storie da meditare e raccontare per un progetto di pastorale, Elledici, Leumann 1999, 43.


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