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    La voglia di diventare grandi


    Franco Garelli

    (NPG 2002-09-25)



    Qualche giorno fa alcuni ragazzi di Roma sono stati interrogati all’uscita da scuola da un cronista della tv sulle loro passioni ed interessi. Quanto siete coinvolti dallo studio? Qual è la materia che più vi ispira? Il disagio dei giovani era evidente nel trovare una risposta credibile. Finché, tra l’ironico e il serioso, un ragazzo se ne è uscito con questa frase: “L’unica attività che mi fa perdere la nozione del tempo è viaggiare in Internet”! La risposta ha rinfrancato i compagni presenti, che hanno confessato anch’essi i loro campi di coinvolgimento, tutti individuali ed esterni a quelle mura scolastiche in cui dovrebbero “formarsi”.

    È un ulteriore segno, tra i tanti, della crisi della scuola? Che ne sarà di una generazione che frequenta le istituzioni con la testa da un’altra parte? Perché molti giovani non si identificano con le attività formative, sentendole estranee e pesanti? Non si indebolisce così il senso della “memoria” e il capitale culturale di una nazione? Come aiutare i giovani a crescere e a dare il loro apporto alla società?
    Diventare grandi e Diventare adulti sono i titoli di due recenti libri che riprendono il dibattito sui giovani d’oggi, con l’intento – un po’ provocatorio – di analizzare le responsabilità e le potenzialità della scuola e di altri “luoghi formativi”. La provocazione riguarda anzitutto giovani stessi, che sembrano non aver molta fretta di crescere e fan di tutto per prolungare la loro adolescenza. Sul banco degli imputati vi sono poi gli adulti e le varie istituzioni (scuola, famiglia, lavoro, ecc.), che riempiono i giovani di superfluo e li privano dell’essenziale: di progetti e ideali, di passione per la vita, di voglia di partecipazione, di credenziali formative per costruirsi un domani a loro misura. Il dibattito sui giovani si allarga e rispecchia nell’incertezza con cui la società guarda al proprio futuro.
    Il primo libro Diventare grandi in tempi di cinismo (Il Mulino, pp.282, e 18,50) è del politologo Roberto Cartocci, che affronta la questione dei giovani a partire dalle tematiche (care alla sinistra) del civismo. Si tratta di una ricerca promossa dall’Istituto Cattaneo di Bologna, che ha interessato un campione di 6000 studenti (nati tra il 1977 e il 1981) delle ultime classi delle scuole superiori della penisola, coinvolgendo 92 istituti e 23 province.
    Il deficit di senso civico che alligna nel paese ha ormai contagiato anche le giovani generazioni. In gioco non è tanto l’inno di Mameli o la bandiera italiana, che torna puntualmente a sventolare con le vittorie della Ferrari, in attesa dei gol dei nostri calciatori ai prossimi Mondiali. Il deficit assume forme più subdole, incarnandosi nella sfiducia negli altri, nel discredito delle istituzioni, in un individualismo esasperato, nella rimozione dei miti della nostra storia.
    Tutt’al più dell’Italia si apprezzano le bellezze naturali, l’arte, la letteratura; ma si tratta pur sempre di un orgoglio declinato al passato, che non si alimenta di ciò che siamo oggi e dei passi da gigante compiuti dal paese nelle ultime generazioni.Proprio i giovani più istruiti sono i meno orgogliosi delle conquiste dell’italia e dei suoi assetti istituzionali ed economici.
    Fin qui, dice Cartocci, nulla di nuovo sotto il sole. I giovani succhiano il latte dei loro “padri”, riflettono la cultura politica dei genitori, contagiati da un clima di sfiducia e di “cinismo” che pervade gli anni della loro formazione intensiva.
    Tuttavia, qualche segno di novità non manca, che non è però da scambiare per una nuova domanda politica. I legami sociali sono deboli in un contesto in cui il 90% dei giovani ritiene che la gente pensi per lo più ai propri interessi, mentre il 75% reputa che non si è mai troppo prudenti nel trattare con gli altri. Ma il cinismo, il discredito cioè dei valori morali, sembra più un meccanismo di difesa che un’opzione condivisa. Si può essere cinici per necessità, per garantirsi la sopravvivenza, coscienti che questo non è un valore ma il peggior difetto degli italiani. Di qui la nostalgia di una società diffusa, la domanda di “comunità”, che si esplica in forme di altruismo e di solidarietà gratuita nel proprio intorno immediato per causa particolari (volontariato).
    Un secondo tratto di novità emerge in una particolare subcultura giovanile, quella degli studenti cattolici, che vivono la fede in modo attivo e convinto. La rete delle parrocchie e degli oratori, nota Cartocci, è oggi una delle poche palestre di civismo presenti nel paese. Del conflitto fra Chiesa e Stato, dell’atteggiamento anti-istituzionale dei cattolici, non vi è più traccia nei giovani credenti, che più dei loro coetanei si identificano con le istituzioni e conservano la memoria dei momenti fondativi della nostra storia. La lealtà e la fiducia verso il paese derivano anzitutto dalla esperienza positiva che li caratterizza nel clima familiare, nei gruppi e nelle associazioni, nei rapporti interpersonali. Da sempre il “convivere” determina il “concredere”. Le buone ragioni della convivenza (rapporti che producono fiducia, che alimentano progetti e ideali) sono alla base di una presenza sociale costruttiva, che non si fa condizionare dalla cattiva pedagogia delle istituzioni e dal clima di lamento sulla situazione nazionale veicolato dai mass-media e dall’opinione pubblica.
    Questi segnali positivi già rappresentano implicitamente una risposta al “che fare?” con cui Cartocci chiude il suo bel libro, assai colto e denso di tensione etica. I giovani possono alimentare il “capitale sociale” (le risorse morali e di spirito civico presenti in una collettività) solo se vivono in condizioni di “normalità”, se elaborano esperienze positive, se sono sollecitati a maturare interessi e fiducia. Se scuola, famiglia e associazioni non rappresentano “luoghi” di socialità costruttiva, allora prevale la deriva dell’individualismo o il fascino del populismo e della demagogia. A fare educazione etica oggi sembrano rimasti solo i preti, mentre l’educazione civica è la cenerentola delle materie scolastiche e i più si danno alle passerelle a “Porta a porta” o ai girotondi e alle denunce politiche.
    Più incentrato sul rapporto scuola-lavoro è invece il volume Diventare adulti di due studiosi americani, Mihaly Csikszentmihalyi e Barbara Schneider (Raffaello Cortina, pp.296, e 19,80). Anche in questo caso si tratta di un’ampia indagine, condotta con strumenti psico-sociologici innovativi, che ha permesso ai ricercatori di raccogliere per alcuni giorni dati inediti sul modo in cui gli studenti trascorrono il tempo, sulle sensazioni che provano nelle diverse esperienze, sul livello di conoscenza delle attività intraprese. L’intento era di analizzare come gli adolescenti si pongono nei confronti del loro futuro.
    Il loro domani non dipende soltanto dal capitale culturale di base, dalle risorse acquisite dalla famiglia di origine. Oltre a ciò un ruolo rilevante è svolto dalle caratteristiche personali, dall’ottimismo con cui si affrontano le varie esperienze, dal livello di autostima maturato nel tempo. In particolare, i giovani più attrezzati sono quelli che svolgono attività (scolastiche, associative, di tempo libero, ecc.) che propongono una sfida che migliorano le capacità. Si produce in tal modo quella condizione di “flow” (così la chiamano i due studiosi americani) che favorisce nei giovani il massimo di apprendimento e di sviluppo delle capacità. Rodari ne avrebbe ricavato il titolo di una nuova fiaba, dando a questo tipo umano il nome di “Non vedo l’ora...”, per dire “mi sento tutt’uno con l’attività stessa”, “perdo la nozione del tempo”. L’ideale è quando l’orologio si ferma non soltanto per il divertimento, ma anche e soprattutto tra i banchi di scuola, per le attività scolastiche e curriculari.
    La molla, dunque, è di spingere i giovani a dare il meglio di sé, offrendo adeguati incentivi e input formativi. Si tratta di far leva sulla leadership dei giovani, sulle qualità potenziali che essi devono trasformare in capacità, sia per sé che per gli altri. In questo meccanismo occorre però evitare gli eccessi: da un lato un entusiasmo privo di fondamenti cognitivi; dall’altro lato un realismo rassegnato. Il troppo entusiasmo può essere tipico di chi prende tutto come un gioco, sottovalutando i supporti formativi necessari per realizzare i propri ideali; per contro, il troppo realismo si riscontra in quanti “volano basso” per paura di non farcela.
    Un altro rischio è che i giovani si disperdano in tante attività, anche lavorative, in quei mille lavori e lavoretti che offrono loro un po’ di autonomia economica. Fare i baby sitter, i bagnini, i camerieri, ecc. aiuta certamente a colmare il gap tra scuola e lavoro e a misurarsi con la concretezza della vita. Si tratta però di esperienze che per molti non producono identificazione, che rappresentano una parentesi o anche un intralcio rispetto ai propri progetti e ideali.
    Ancora una volta ci giunge da Oltreoceano un nuovo monito: occorre essere esigenti nei confronti dei giovani, proporre loro mete impegnative, renderli consapevoli delle loro qualità e responsabilità; a patto di offrire ad essi tutte le credenziali formative di cui hanno bisogno per realizzare i compiti dello sviluppo.Tutto ciò, tradotto nella cultura “nostrana”, significa parlare di meno del disagio giovanile e far crescere i giovani in un clima di maggiori stimoli, conoscenza e fiducia.
    (La Stampa, 4 maggio 2002)


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