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    La vocazione come struttura antropologica originaria



    Carmine Di Sante

    (NPG 2002-04-22)


    Progetto e vocazione sono due termini che, sul piano semantico, si escludono.Perché il primo dice l’io in quanto si sceglie, fa cioè le sue scelte, e scegliendosi si costruisce e si apre al futuro proiettandosi in avanti, secondo l’etimo appunto di progetto; mentre il secondo dice l’io in quanto scelto che, se scelto, non si definisce per ciò che sceglie ma per la sua risposta ad una anteriorità che lo precede e lo sceglie chiamandolo, come vuole il termine vocazione. Progetto e vocazione sono quindi due chiavi di lettura irriducibili, e se la prima – il progetto – ha trovato la sua traduzione «epocale» nell’avvento della modernità, il cui atto di nascita o segno distintivo è il «l’io penso» cartesiano, la seconda – la vocazione – ha coinciso e coincide con la nascita del religioso e soprattutto con il racconto biblico che, nella sua radice ultima, è l’attestazione di un’alterità – l’alterità divina – come voce che, altra dall’io, lo chiama e ne attende la risposta. Due chiavi di lettura quindi irriducibili, ma sul piano dei principi, non su quello del vissuto, dove i due momenti si trovano intrecciati: per cui come non si dà un uomo «religioso» che non sia anche progettante, così non si dà un uomo progettante che non sia anche «religioso», uditore cioè di una voce che trascende il suo progetto.
    Nelle pagine che seguono delineeremo il senso della vocazione, nella bibbia, come struttura antropologica, e alla sua luce rileggeremo il senso del progettare come «servizio» o «diaconia» dell’amore. Un percorso che sarà organizzato intorno a tre parole-base (Grundwort) che tracciano come l’identikit dell’io secondo la bibbia.

    La voce

    Il termine vocazione, come si è notato, rimanda a voce e l’io, per la bibbia, è definito da questa voce che lo inabita in profondità e non ha nome se non quello, appunto, di voce: presenza, suono, parola o istanza, la cui potenza e persistenza si impone all’io amabilmente, suscitandone e rispettandone la libertà, ma imperativamente, esigendone una risposta che non può non essere data. Una storia eschimese narra che, oltre al tuono, Dio ha un altro modo di rivelarsi, cioè «il tempo pieno di sole, la calma del mare, o i bambini che giocano innocentemente, che non comprendono. I bambini odono una voce dolce e riservata, come una voce di donna. Essa parla loro in tono di mistero, ma così amabilmente che non se ne spaventano» (J. Goetz, cit. da A. Rizzi, Differenza e responsabilità. Saggi di antropologia teologica, Marietti, Casale Monferrato 1983, p. 90).
    La presenza e persistenza di questa voce inconfondibile e irresistibile è attestata da tutte le culture (compresa la nostra che si vuole areligiosa e secolarizzata) e, con un linguaggio simbolico quasi universale, è nota e tramandata come voce della coscienza. Formula mirabile, da intendere non come la voce che proviene dalla coscienza, bensì come la voce che istituisce l’uomo come coscienza: non la coscienza psichica, la sede del piacere e dispiacere, né la coscienza razionale, la sede della conoscenza sintetica e riflessiva, ma la coscienza etica o morale, il luogo-non luogo dove l’io è posto di fronte al bene e al male, elevato ad una scelta alla quale non può sottrarsi. In una delle sue pagine più belle, nella costituzione riguardante il suo rapporto con il mondo, il Vaticano II scrive:
    «Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire, e la cui voce che lo chiama sempre ad amare e a fare il bene e a fuggire il male, quando occorre, chiaramente dice alle orecchie del cuore: fa’ questo, fuggi quest’altro. L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al suo cuore: obbedire ad essa è la dignità stessa dell’uomo, e secondo questa egli sarà giudicato. La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria. Tramite la coscienza si fa conoscere in modo mirabile quella legge che trova il suo compimento nell’amore di Dio e del prossimo» (Gaudium et spes 16).
    Se tutti i testi religiosi, nella loro essenza, sono la traduzione narrativa di questa voce che «chiama sempre ad amare e a fare il bene», questo vale soprattutto per il racconto biblico per il quale Dio è Parola che chiama Abramo ad uscire dalla sua terra per stringere con lui un’alleanza, e sottrae Israele alla schiavitù egiziana per portarlo sul Sinai e istituire con lui un patto. Il racconto biblico è il racconto di questo patto stipulato sul monte Sinai dove Dio istituisce Israele, in rappresentanza dell’umanità, come suo partner, aspettandone ed esigendone la risposta. Un midrash narra ciò che accadde sul Sinai quando Dio vi condusse Israele dopo la liberazione dall’Egitto:
    «Quando Dio sul Sinai promulgò i Dieci Comandamenti, le sue parole si spartirono in settanta lingue acciocché anche gli altri popoli del mondo le potessero intendere. Dio voleva evitare che gli altri popoli si lamentassero perché non si era offerta la Torah anche a loro. Così sul Sinai i Dieci Comandamenti furono promulgati non solo in lingua ebraica agli israeliti, ma in tutte e settanta le lingue del mondo che allora esistevano. Dio andò con le tavole della Legge prima dai babilonesi e chiese loro: ‘Volete accettare la Torah?’. Ed essi dissero: ‘Cosa contiene?’. Dio rispose: ‘Non devi commettere adulterio!’. ‘No’, replicarono i babilonesi, ‘proprio in questo noi troviamo piacere’. Allora Dio offrì i comandamenti agli assiri. Anch’essi chiesero: ‘Cosa c’è scritto?’. ‘Non devi uccidere!’. ‘Noi non possiamo obbedire a questo comandamento perché lo sterminio dei popoli è la nostra caratteristica dominante’. Poi Dio andò dagli amaleciti. Ma anch’essi respinsero i Dieci Comandamenti perché contenevano il divieto del loro mezzo di sostentamento: il divieto di rubare. Altri popoli risposero che non potevano accettare i comandamenti di Dio perché contenevano il divieto dell’idolatria mentre essi avevano ricevuto in retaggio dai loro padri proprio il culto dei loro idoli e non se ne volevano staccare. Dunque, nonostante Dio andasse con le tavole della Legge di popolo in popolo e le offrisse a ognuno, gli ebrei furono gli unici disposti ad accettarle e seguirle» (I. Z. Kanner, Fiabe ebraiche, Mondadori, Milano 1991, pp. 61-63).
    Ciò che accadde sul Sinai fu un doppio evento: l’evento della parola di Dio all’uomo, e l’evento della parola dell’uomo a Dio. Evento dialogico che interrompe la catena del determinismo, per il quale il divino è l’insieme delle forze naturali alle quali è impossibile per l’uomo sottrarsi, e istituisce l’umano – il vero umano – come responsabilità, come possibilità di dire sì o no, come vuole il midrash con il racconto d’Israele che, tra tutti i popoli, è il popolo che sceglie liberamente Dio. Il Sinai è l’accadimento di questo duplice evento che trascende l’ordine naturale, che vi assiste incredulo e stupefatto, e che, dentro l’ordine naturale, introduce un nuovo ordine, quello della libera iniziativa di Dio e quella della libera risposta o responsabilità dell’uomo:
    «Durante la rivelazione di Dio sul Sinai, il mondo intero restò immoto: sole, luna e stelle non si mossero dal loro posto, non soffiò un alito di vento, nessun animale si mosse, né l’uccello nell’aria, né il pesce nell’acqua, né l’animale domestico nel campo. Gli uccelli non cinguettavano, nessun bove muggiva. Perfino le onde e i flutti del mare si trattennero. Non si udiva alcun suono. E in questo silenzio le parole di Dio pervasero l’intero universo: ‘Io sono il Signore Dio tuo’» (ivi, p. 63).

    La soggettività come responsabilità

    La nascita del soggetto responsabile o l’avvento dell’uomo alla responsabilità è l’inedito ignoto alla natura che, per questo, vi assiste attonita, ed è un evento di cui sorprendersi recuperandone la stra-ordinarietà a partire già dal piano del linguaggio.
    Nei dizionari occidentali la parola responsabilità ha subìto un’inversione semantica radicale non dissimile dal termine soggetto, che da io sottoposto è venuto a significare il suo contrario, l’io che si autopone liberandosi da ogni forma di sotto-missione. È comune l’affermazione che la responsabilità è il tratto peculiare dell’epoca moderna caratterizzata dalla nascita dell’io adulto, secondo la celebre definizione di Kant sull’illuminismo, per cui non è più bambino ma responsabile. Affermazione incontrovertibile, ma con una annotazione sostanziale: che la responsabilità che la modernità rivendica come il suo tratto peculiare è altra cosa da ciò che il termine responsabilità da sempre ha significato secondo il suo etimo, che è rispondere: non – si noti – il rispondere a sé, a ciò che l’io vuole, ma il rispondere all’altro irriducibile all’io e alla sua volontà. Il rispondere – un rispondere che sia veramente tale e non figura di soliloquio o solipsismo – è il rispondere sempre ad un altro irriducibile all’io e alla sua volontà di desiderio o di potenza. In assenza di alterità, non si dà risposta se non a sé; ma la risposta dell’io a sé più che affermazione di responsabilità – del rispondere all’altro – ne è la negazione, perché la risposta di sé a sé è semplicemente la conferma e il radicamento dell’io nel solipsismo della sua identità. Utilizzando il termine responsabilità bisogna quindi essere consapevoli che esso, per la modernità, ha acquistato un significato che ne ha capovolto il senso originario, avvicinandola a progetto, lo spazio dell’io dove nessuna voce giunge dall’esterno e dove ogni voce è soltanto l’eco della propria voce. Per la modernità la responsabilità, da risposta dell’io all’altro, si è fatta risposta dell’io a sé. La modernità – e, per il pensatore francese E. Lévinas, tutto il pensiero occidentale, dagli inizi ad oggi – è questa «allergia» per l’altro o sua negazione che ha creato un mondo, logico e ontologico, egologico, dove a parlare è sempre e solo l’io, e dove la responsabilità all’altro si è transustanziata in fedeltà a sé, coerenza con le proprie scelte e assunzione delle conseguenze da esse derivanti. Conquista elevata e certamente irrinunciabile, ma da non identificare con la responsabilità come risposta all’altro che l’io non sceglie e dal quale è scelto e pro-vocato, e al quale non può non dare una risposta decidendosi per un sì di adesione o un no di negazione.
    La vocazione quindi è l’essere dell’io di fronte ad una voce che non è il simbolo o la proiezione di ciò che di più profondo si nasconde nelle pieghe della psiche, della natura o della storia, ma è l’irruzione, nell’io, di un’alterità assoluta che gli si erge di fronte in-quietandolo e dischiudendogli un al di là del progetto che è la responsabilità indeclinabile. Nel suo saggio del 1936 «La domanda rivolta al singolo», M. Buber scrive:
    «Responsabilità presuppone uno che mi appella primariamente, da una regione indipendente da me, al quale io debbo rendere conto. Egli mi parla di qualcosa che mi ha affidato e mi chiede di prenderne cura. Egli mi appella a partire dalla sua fiducia e io rispondo nella mia fedeltà, oppure nella mia infedeltà nego la risposta, o ancora, dopo essere caduto nella infedeltà, me ne libero con la fedeltà della risposta. Questa è la realtà della responsabilità: rendere conto di qualcosa che ci è stato affidato a un essere che ci dà fiducia, in modo tale che fedeltà e infedeltà vengano alla luce, ma non con uguali diritti, perché ora la fedeltà appena rinata può vincere l’infedeltà. Dove nessun appello primario mi può toccare, perché tutto è ‘mia proprietà’, la responsabilità è diventata un’ombra. E contemporaneamente si dissolve il carattere reciproco della vita. Chi non dà più risposta, non percepisce più la parola» (M. Buber, Il principio dialogico e altri saggi, Edizione italiana a cura di A. Poma, San Paolo, Cinisello Balsamo 1993, p. 234).
    E a Stirner, l’autore de L’unico e la sua proprietà, il filosofo dell’io come egoismo, il quale ironizzava sulla responsabilità definendola «una menzogna», Buber risponde:
    «Ciò che con successo Stirner combatte con la sua forza distruttiva è il surrogato di una realtà non più creduta; è la responsabilità apparente di fronte a una ragione, a una idea, a una natura, a un’istituzione, a ogni sorta di spettri illustri, a tutto ciò che essenzialmente non è persona e quindi non può, come invece padre e madre, sovrano e maestro, sposo e amico, come Dio, realmente sollecitare alla responsabilità. Egli vuole mostrare nella sua nullità la parola degenerata [la parola responsabilità] a frase fatta; la parola vivente non l’ha mai conosciuta, egli svela ciò che conosce; non conoscendo la realtà, che gli appare come finzione, egli ne mostra il carattere di apparenza. ‘Ciò che chiamate responsabilità è menzogna’, egli grida, e ha ragione; è menzogna. Ma c’è una verità. E, una volta conosciuta la menzogna, è più libera la via che conduce alla verità» (Ivi, cit. p. 235).
    Buber è d’accordo con Stirner nella critica alla responsabilità se questa viene identificata con la responsabilità «di fronte a una ragione, a una idea, a una natura, a un’istituzione», realtà che orientano l’io ma non gli parlano, per cui non sono in grado di istituirlo responsabile. «Di fronte a una ragione, a una idea, a una natura, a un’istituzione», più che di responsabilità, si dovrebbe parlare di lealtà critica. Pensare, come vuole Stirner, che la responsabilità sia definibile in rapporto ad un principio universale, per cui rispondere sarebbe rispondere ad «una ragione, a una idea, a una natura, a un’istituzione» è, per Buber, pensare a degli «spettri», ad una «finzione» o «apparenza» che con la responsabilità non ha a che fare e che è bene smascherare, come ha fatto Stirner al quale il filosofo ebreo riconosce il merito di «dissolvere la dissoluzione»: «‘Ciò che chiamate responsabilità è menzogna’, egli grida, e ha ragione; è menzogna».
    La responsabilità, quella vera, non si istituisce di fronte a un principio, di cui la ragione è portatrice, ma di fronte ad una persona, che è irriducibile alla ragione e si presenta come «padre e madre, sovrano e maestro, sposo e amico», e soprattutto, per la bibbia come «straniero», come «povero», come «orfano», come «vedova» e come «nemico». Con il linguaggio di Lévinas, a istituire la responsabilità è il volto, il luogo originario dove risuona «la voce» (la voce della coscienza o, per le religioni, la voce di Dio) e dove accade la rivelazione prima che fonda la rivelazione seconda, che sono la bibbia e i testi sacri delle religioni e delle letterature:
    «Quel che si chiama Parola di Dio non mi giunge forse nella supplica che mi interpella e mi reclama e, ancor prima di ogni invito al dialogo, lacera la forma sotto la quale l’individuo che mi rassomiglia mi appare e si mostra solamente, per farsi volto dell’altro uomo?» (E. Lévinas, Di Dio che viene all’idea, Jaca Book, Milano 1983, p. 203).
    L’affermazione che l’altro nella sua alterità o volto è il luogo originario dove Dio parla per istituire l’io responsabile, più che la provocazione di un filosofo originale, è il senso stesso della bibbia che è parola di Dio, non perché parla di Dio, ma dell’uomo che Dio libera dal determinismo del suo «progetto» o «desiderio» di cui è prigioniero per elevarlo alla responsabilità come bontà o santità.

    La diaconia dell’amore

    L’affermazione che l’altro, nella sua alterità o volto, è il luogo dove Dio parla (si ricordi tra tutte le pagine bibliche quella del giudizio escatologico, dove il figlio dell’uomo, in veste di giudice escatologico, è presente anonimamente negli affamati, negli assetati, negli stranieri, nei poveri e nei carcerati) ci introduce alla comprensione più profonda della vocazione come struttura antropologica originaria e al senso di questa «struttura», anche se si tratta – è necessario precisarlo – di una struttura paradossale che inerisce all’ordine della possibilità e quindi dell’evento che, della struttura come determinismo, è la messa in crisi. La vocazione come struttura antropologica originaria vuol dire, per l’io, una nuova comprensione dell’altro e, a partire dall’altro, di se stesso.
    Nella tradizione occidentale, a quattro possono essere ricondotte le concezioni o chiavi di lettura con cui ci si è accostati all’altro. Concezioni tematizzate soprattutto da Platone e che, da Platone in poi, hanno segnato profondamente l’occidente cristiano, fondandone l’antropologia e la stessa ontologia e metafisica. Nel Simposio Platone si interroga sul perché gli esseri umani si cercano gli uni gli altri (siano questi il partner, l’amico, il figlio o il simile), desiderano la giustizia, la sapienza e la saggezza, amano ciò che è bello e buono mentre fuggono ciò che è brutto e cattivo.
    La prima risposta è data attraverso il mito androgino, il racconto secondo il quale alle origini l’uomo era una unità o sfera risultante dall’insieme del maschile e del femminile. Come tale egli non aveva bisogno di nulla, era autosufficiente e onnipotente, capace di fare concorrenza agli dèi e di ribellarvisi. Zeus allora, per vendetta, lo divise in due separandolo in maschio e femmina. Ma una volta separati, l’uno tendeva verso l’altro, alla ricerca della metà perduta.
    Oltre che nella formulazione dell’androgino, dell’unità del maschile e del femminile, il mito presenta anche due varianti, secondo cui all’origine esisteva pure l’unità del maschile con il maschile e del femminile con il femminile. A parte queste diverse formulazioni, importante è la concezione dell’altro che il mito veicola, come la parte mancante senza cui l’io è incompiuto e infelice:
    «Dunque da così tanto tempo è connaturato negli uomini il reciproco amore degli uni per gli altri che ci riporta all’antica natura e cerca di fare di due uno e di risanare l’umana natura» (191 D).
    Se la prima figura dell’alterità è quella dell’altro come metà o tessera di un mosaico, che ricompone l’unità e la totalità originarie, la seconda è quella che, con un’altra immagine, vede l’altro come specchio o alter ego nel quale l’io si riflette contemplando e ritrovando il meglio di se stesso:
    «A giusta ragione dobbiamo inneggiare a Eros il quale nella vita presente in sommo grado ci giova, conducendoci verso ciò che ci è più proprio, e per la vita futura ci offre le speranze grandissime che, se saremo riverenti nei confronti degli dèi, ristabilendoci nella nostra antica natura e risanandoci, ci renderà felici e beati» (193 D).
    L’altro ci conduce «a ciò che ci è più proprio», « a casa», secondo il testo originale, cioè a sé, come vuole ancora la lingua francese dove a casa si dice chez soi («presso di sé»).
    La terza figura dell’alterità è quella che Platone mette sulla bocca di Socrate che, a sua volta, la mette sulla bocca della profetessa di Mantinea, Diotima, e che consiste nel cogliere l’altro come portatore di un valore – il bello – che risveglia l’io e lo mette in cammino dal meno al più fino alla pienezza del bello in cui risiede la felicità:
    «È questo il momento, nella vita, o caro Socrate – disse la straniera di Mantinea – che più di ogni altro è degno di essere vissuto da un uomo, ossia il momento in cui un uomo contempla il Bello in sé. E se mai ti sarà possibile vederlo, ti sembrerà ben superiore all’oro, alle vesti, e anche ai bei ragazzi e ai bei fanciulli» (211 D).
    In questa terza figura – fondatrice della concezione dell’uomo come viandante o pellegrino senza la quale resterebbe incomprensibile buona parte della nostra letteratura – l’altro è portatore di un valore che, come una scintilla, accende nell’io il fuoco del desiderio che si placa solo nel possesso dell’infinito che è il bello. Comune a queste tre accezioni – l’altro come metà, come specchio o come scintilla – è che egli sia portatore di un valore che, per Platone, si riassume nella bellezza che l’io non ha o ha solo parzialmente, e verso la quale tende per prenderne possesso e arricchirsene.
    Dove l’altro non ha, per l’io, valore alcuno, gli rimane estraneo e indifferente per cui, per il mondo greco, è un barbaro, cioè un pre-umano o sotto-umano balbuziente. E se è vero che, per la modernità, l’altro non è negato e cancellato ma riconosciuto e rispettato, è altrettanto vero che questa alterità non è, per l’io, portatrice di valore ma un limite da non oltrepassare che, in quanto tale, non lo tocca in quanto io sovrano. Popper amava dire che la libertà di movimento della mia mano finisce dove comincia il naso dell’altro. Se è indubitabile che il naso dell’altro pone un limite al movimento della mia mano, è altrettanto indubitabile che il limite posto non dice nulla sul senso di questo movimento.
    L’altro come limite alla libertà dell’io è la quarta figura dell’alterità che, dall’epoca moderna in poi, si è imposta come egemone nelle democrazie occidentali. Figura nobile perché riconosce l’altro accanto all’io, ma ambigua perché riconoscere l’altro accanto non vuol dire che cessi di essere, per l’io, indifferente. Il sacerdote e il levita della parabola lucana del buon samaritano riconoscono e passano accanto al malcapitato (lo «vedono», nota il testo evangelico), ma il loro passarvi accanto non riduce di un millimetro il muro dell’indifferenza che li separa. Il principio tolleranza, che riconosce l’alterità dell’altro come limite per l’io, è certamente una delle più grandi conquiste della modernità, ma non è in grado di abbattere il muro dell’indifferenza che separa l’io dall’altro.
    Per la bibbia, al di là del suo essere portatore di un valore che attira, e al di là dell’essere un limite da rispettare, l’altro, per l’io, è un appello che lo chiama ad uscire da sé e lo eleva all’altezza della bontà o responsabilità. Appello o chiamata – ciò è di assoluta rilevanza – non perché portatore di un desiderabile che attira e di cui l’io si arricchisce, ma in quanto non desiderabile e, per questo, altro in quanto altro, cioè «carente», «povero», «misero», «sfigurato», come il servo sofferente del quarto carme di Isaia presentato «come uno davanti al quale ci si copre la faccia» (Is 53, 3).
    L’altro che, in quanto altro, è appello, chiamata o vocazione, è la concezione che la bibbia ha dell’altro: un altro in-quietante che toglie all’io la sua quiete, quella dei suoi sogni e desideri, dove l’io è sempre solo con se stesso e dove la sua quiete è quella dell’io identitario, e lo innalza ad una dimensione che non è quella del progetto ma della responsabilità, dove l’io risponde non a sé ma all’altro che, nella nudità del suo volto, chiama ed invoca «pane» e «perdono». L’altro quindi non come colui che compie l’io mancante, non come colui che ne riflette l’immagine ideale come in uno specchio, non come colui che ne mette in moto il cammino verso l’infinito come una scintilla, né come colui che pone dei limiti all’io da rispettare. Anche per la bibbia l’altro è, per l’io, tutto questo (compimento, alter ego, spinta o limite); però è più di questo: è colui che, nella sua indesiderabilità o inimicizia, reale o presunta, là dove l’io è tentato di metterlo da parte e di negarlo (la tentazione dell’omicidio come possibilità sempre oggettiva per l’io!), si fa parola assoluta e incontrastata, traccia dell’assoluto – Dio – che invoca l’amore e il perdono comandandomi: «amami».
    Cosa chiede infatti l’altro, nella sua indesiderabilità, se non di essere accolto, dissetato, nutrito, ospitato e perdonato? Cosa chiede se non l’amore? L’amore non di desiderio o di concupiscenza, ma l’amore di alterità o bontà, lo stesso del Padre che fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi, che è pura gratuità e disinteresse, che si preoccupa non del proprio bene ma di quello dell’altro, che preferisce soffrire piuttosto che far soffrire, che non risponde alla violenza con la violenza e che, come canta Paolo nel suo inno all’amore,
    «è paziente, benigno, non invidioso, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (1 Cor 13,4-7).
    È a questo punto che si coglie il senso profondo della vocazione come struttura originaria della soggettività umana: il luogo-non luogo dove risuona una voce che è la voce dell’amore: non la voce che dice all’io di scegliere l’amore ma di essere stato scelto dall’amore, prima di ogni sua scelta. Dall’amore che non è energia, forza, spinta, pulsione, bisogno o desiderio ma gratuità, disinteressamento, perdita di sé, misericordia che si dona e chiede all’io di farsi a sua volta gratuità, disinteressamento, perdita di sé e misericordia di fronte all’altro o volto che accade di incontrare.
    Scelto e comandato dall’Amore, che gli parla dal volto dell’altro o prossimo, l’io da progettante si scopre inserviente, come il cameriere il cui servire è rispondere a ciò che l’altro ordina e non a ciò che piace al suo io. L’io come vocazione è l’io «servitore» o «schiavo» dell’amore, come si definisce Paolo presentandosi nelle sue lettere come «schiavo di Cristo», schiavo di colui che, dell’amore disinteressato e senza ritorno, il Cristo, è l’incarnazione disarmante.
    Come la musica di Mozart o di Beethoven rivive solo attraverso le mani e il cuore di chi la esegue, così «la musica dell’amore di Dio» – il Bene, la Bontà, la Felicità, l’Assoluto – entra nella storia e si fa carne non attraverso il dispiegamento del principio (essendo l’amore divino non un principio o forza naturale ma, per la bibbia, libertà d’amore o volontà di bene!), ma attraverso l’evento della «libera esecuzione» della soggettività umana, attraverso la responsabilità o risposta dell’io – di ogni io – nella sua unicità e singolarità. Io, la cui definizione, per questo, è di essere servizio o diaconia dell’amore. L’eletto dall’amore all’amore.


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     Etty


    Semi e cammini 
    di spiritualità
    Il senso nei frammenti
    spighe


    Ritratti di adolescenti
    A cura del MGS


     

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