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    Il vivere come flusso


    Giuseppe De Rita

    (NPG 2002-09-29)



    Prigionieri delle proprie emozioni, prigionieri del presente. Con queste parole si possono condensare le impressioni e le valutazioni circolate nei giorni scorsi in un grande Convegno sulla comunicazione tenuto a Roma. Non c’è dubbio, guardando ai dati di una ricerca effettuata per la circostanza, che i giovani d’oggi sono anzitutto molto autocentranti sulle proprie emozioni vissute con forte coinvolgimento psichico: la felicità è possibile e da ricercare, il dolore è un’esperienza essenziale, fare famiglia è quel che serve per condividere la vita con un’altra persona, la generosità è dono, la vita è una avventura o un viaggio; la cultura è ricerca di senso, le paure sono tutte inerenti alla propria personale dimensione (malattia, morte, solitudine) e non alla guerra o alla criminalità.

    Tutta la tensione è rivolta a se stessi e alle proprie emozioni; non a caso nei primi posti fra i generi dei libri letti si ritrovano i volumi di psicologia.
    Questa prigionia in se stessi si accompagna con una parallela prigionia nel presente. Il tempo è il tempo di oggi, da consumare o valorizzare; non si dà valore alla memoria del passato e alla speranza del futuro; non si crede molto in una vita dopo la morte; non si ha paura dell’inferno perché si pensa che non ci sarà; non ci sono libri o personaggi del passato che possono dare senso ad identità future sia individuali e collettive. Vale la vita presente, qui e ora, senza attribuire un gran peso a quel meccanismo di trasmissione (di cultura, di fede, di benedizione, di esperienza) su cui si è costruita nei secoli la civilizzazione.
    I giovani d’oggi vivono dentro di sé e dentro il presente. Vivono, è stato acutamente notato, in un flusso costante, che rassomiglia molto al flusso televisivo di cui sono spettatori e figli, e dove ogni evento o fiction o talk-show è vissuto concentrato in se stesso, senza ricordo di cosa si è visto prima e senza idea di cosa si vedrà dopo.
    Come si può reagire alla citata doppia prigionia e al conseguente destino di galleggiare in un flusso emotivo, indistinto e senza tempo? Il primo impulso, e forse anche il più giusto, è quello di operare nella scuola, nella chiesa, nei gruppi, negli stessi media, nella famiglia, perché i giovani possano uscire dalla propria autocentratura (fuori dal sé, aperti agli altri, all’altro, al tu, al voi, al diverso) e dalla propria prigionia nel presente, valorizzando adeguatamente la memoria, il passato e i suoi testimoni; e recuperando il senso del tempo e della storia.
    Ma queste pur nobili intenzioni non possono restare pure intenzioni, devono potersi innestare in adeguati strumenti di comunicazione. Sta qui il problema principale da risolvere. Molti pensano che esse debbano incarnarsi nella comunicazione di massa, con una coraggiosa e intensa presenza di noi cattolici (o di chiunque abbia la stessa visione del problema) in tutte le diverse macchine della comunicazione di massa, dalla televisione ai giornali alla radio. Altri, e mi metto fra questi, pensano che è impossibile “combattere il flusso entrando nel flusso” e che sarebbe invece importante radicarsi in qualcosa; e il radicamento più naturale potrebbe essere il territorio, il lavoro culturale e religioso sul territorio, la rivitalizzazione delle realtà locali. Ci dirà il tempo chi avrà ragione o, meglio, chi saprà esprimere una maggiore offerta di senso e di identità, individuali come collettive.

    (Avvenire, 9 novembre 2002)


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