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    I confini della modernità


     

    Octavio Paz *

    (NPG 02-01-74)



    Cos’è la modernità? Innanzitutto è un termine ambiguo: tante sono le modernità quante sono le società. Ciascuna società ha la sua. Il significato della modernità è arbitrario, come l’espressione Medio Evo, che definisce l’epoca che l’ha preceduta. Se siamo moderni rispetto al MedioEvo, un giorno saremo il Medio Evo di una futura modernità? Un nome che muta con il divenire del tempo è un vero nome? Modernità è una parola alla ricerca del suo significato: è un’idea, un miraggio, un passaggio della storia?Siamo figli della modernità, oppure la modernità è una nostra creazione? Nessuno lo sa su basi scientifiche.

    Ma poco importa: la seguiamo e la perseguiamo. Per me, un tempo la modernità si confondeva con il presente, o meglio, lo produceva: il presente era il suo ultimo, estremo fiore. [...]
    L’idea di modernità è un sottoprodotto della concezione della storia come successione, come un processo lineare, che non si riproduce. Sebbene le sue origini siano giudeocristiane, rappresenta una rottura con la dottrina cristiana. Il cristianesimo ha abolito il tempo ciclico dei pagani: la storia non si ripete, ha avuto un inizio e avrà una fine; il tempo che venne dopo fu il tempo profano della storia, teatro delle azioni degli uomini caduti, sottomesso però al tempo sacro, senza inizio né fine. Dopo il Giudizio, in cielo come all’inferno non vi sarà futuro. Nell’eternità non succede nulla perché tutto è Trionfo dell’essere sul divenire. Il tempo nuovo, il nostro, è lineare come quello cristiano ma è aperto sull’infinito e non è riferito all’Eternità. Il nostro tempo è quello della storia profana. Tempo irreversibile, perpetuamente incompiuto in movimento non verso una fine ma verso l’avvenire. Il sole della storia si chiama futuro e il nome del movimento verso il futuro è Progresso.
    Per il cristiano, il mondo – o come si diceva una volta: il secolo, la vita sulla terra – è un luogo di prova: le anime si perdono o si salvano in questo mondo. Per la nuova concezione, il soggetto storico non è l’anima individuale bensì il genere umano, a volte concepito come un tutto, in altri casi come un gruppo eletto che lo rappresenta: le nazioni sviluppate d’Occidente, il proletariato, la razza bianca o qualsivoglia altra entità. La tradizione filosofica pagana e cristiana aveva esaltato l’Essere nella sua compiuta pienezza, come perfezione che non muta; noi adoriamo il Mutamento, motore del progresso e modello delle nostre società. Il Mutamento si manifesta essenzialmente in due maniere: l’evoluzione e la rivoluzione, il trotto e il galoppo. La modernità è la punta della lancia del movimento storico, l’incarnazione dell’evoluzione o della rivoluzione, i due volti del progresso. Alla fine il progresso si attua grazie alla duplice azione della scienza e della tecnica, utilizzate per dominare la natura e utilizzarne le immense risorse.
    L’uomo moderno si è definito come un essere storico. Altre società hanno preferito definirsi secondo valori e idee diversi da quelli del mutamento: i greci veneravano la Polis e il cerchio ma ignoravano il progresso; Seneca, come tutti gli stoici, fu tormentato dall’idea di eterno ritorno; Sant’Agostino credeva imminente la fine del mondo;San Tommaso costruì una scala (i gradi dell’essere) dalla creatura al Creatore; e così via. Una dopo l’altra, tutte queste idee e credenze sono state abbandonate. Mi pare che inizi ad accadere la medesima cosa con l’idea di progresso e, di conseguenza, con la nostra visione del tempo, della storia e di noi stessi. Assistiamo al crepuscolo del futuro. Il declino dell’idea di modernità e il favore accordato a una nozione così dubbia quale quella di “postmodernità” non sono fenomeni riguardanti unicamente le arti e la letteratura: noi viviamo la crisi delle idee e delle concezioni fondamentali che hanno guidato gli uomini per più di due secoli.
    Innanzi tutto, la concezione di un processo aperto sull’infinito e sinonimo di progresso continuo viene messa in dubbio. Debbo solo ricordare quanto tutti sappiamo: le risorse naturali non sono infinite e un giorno si esauriranno. Tuttavia abbiamo causato danni forse irreparabili all’ambiente naturale e la stessa specie è minacciata. D’altro lato, gli strumenti del progresso, la scienza e la tecnica, hanno dimostrato con terribile evidenza di potersi trasformare facilmente in strumenti di distruzione. L’esistenza delle armi nucleari, ad esempio, è un rifiuto dell’idea di progresso inerente alla storia. Un rifiuto, insisto, che non si può che definire cosmico.
    In secondo luogo, vi è il destino del soggetto storico, vale a dire della collettività umana nel ventesimo secolo. Raramente i popoli e gli individui hanno sofferto tanto: due guerre mondiali, tirannie nei cinque continenti, la bomba atomica e, infine, il riprodursi di una delle istituzioni più crudeli e portatrici di morte tra quelle che gli uomini hanno sperimentato, il campo di concentramento. I benefici prodotti dalla tecnica moderna sono incalcolabili, ma non si possono chiudere gli occhi davanti ai massacri, alle torture, umiliazioni, violenze di cui milioni di innocenti sono stati vittime nel corso del nostro secolo.
    In terzo luogo, vi è la credenza nella necessità del progresso. Per i nostri nonni e i nostri padri le rovine della storia – cadaveri, campi di battaglia devastati, città distrutte – non negavano la sostanziale «bontà» del processo storico. I patiboli e le tirannie, le guerre e le barbarie delle lotte intestine erano il prezzo del progresso, il tributo di sangue da offrire al dio della storia. Un dio? Sì la ragione stessa, divinizzata e capace di crudeli astuzie, secondo Hegel. La supposta razionalità della storia è svanita. Nel territorio eletto dell’ordine, della regolarità e della coerenza – nelle scienze esatte e nella fisica – ricompaiono i vecchi concetti di accidente e di catastrofe. È una resurrezione inquietante che mi fa pensare alle paure dell’anno Mille e alle angosce degli Aztechi alla fine di ogni ciclo cosmico.
    Per concludere questa rapida enumerazione, bisogna ricordare il crollo di tutte le ipotesi filosofiche e storiografiche che pretendevano di conoscere le leggi dello sviluppo storico. Quanti in esse credevano, hanno costruito Stati potenti su piramidi di cadaveri. Questi orgogliosi edifici, destinati in teoria a liberare gli uomini, molto rapidamente si sono trasformati in gigantesche prigioni. Oggi li vediamo crollare; li abbattono non gli avversari ideologici, bensì la spossatezza e lo slancio libertario delle nuove generazioni. Fine delle utopie? No, piuttosto esaurirsi dell’idea di storia come fenomeno di cui si conosce in anticipo lo sviluppo. Il determinismo storico è stato una fantasia costosa e sanguinosa. La storia è imprevedibile poiché il suo protagonista, l’uomo, è l’indeterminazione personificata.
    Questo breve riassunto dimostra che, molto probabilmente, siamo giunti alla fine di un’epoca storica e all’inizio di un’altra. Fine o mutazione dell’Età Moderna? Difficile saperlo. A ogni modo il fallimento delle utopie ha lasciato un grande vuoto, non nei Paesi dove questa ideologia ha compiuto le sue prove e ha fallito, bensì in quelli dove molti l’hanno abbracciata con entusiasmo e speranza. Per la prima volta nella storia, gli uomini non vivono più, come un tempo, all’ombra di quei sistemi religiosi e politici che li opprimevano e li consolavano allo stesso tempo, ma in una sorta di deserto spirituale. Le società sono storiche ma tutte hanno vissuto, guidate e ispirate da un intreccio di credenze e idee metastoriche. La nostra è la prima che si appresta a vivere senza una dottrina metastorica; i nostri assoluti – religiosi o filosofici, etici o estetici – non sono collettivi ma privati. L’esperienza è un arrischio.
    Non possiamo sapere se le tensioni e i conflitti prodotti da questa privatizzazione delle idee, delle pratiche e delle credenze che tradizionalmente appartenevano alla vita pubblica, non finiranno per incrinare la struttura della società. Gli uomini potrebbero venire nuovamente posseduti dagli antichi furori religiosi e dai fanatismi nazionalisti. Sarebbe terribile se la caduta dell’idolo astratto dell’ideologia annunciasse la resurrezione delle passioni sepolte delle tribù, delle sette, delle chiese.Disgraziatamente, i segnali sono inquietanti.
    Il declino delle ideologie che ho definito metastoriche, quelle che, in altri termini, assegnano una fine e una direzione alla storia, implica il tacito abbandono delle soluzioni globali. Siamo sempre più propensi, e a ragione, ad adottare rimedi parziali per risolvere questioni concrete. È saggio astenersi dal legiferare sull’avvenire.Il presente però non reclama unicamente soluzioni per problemi contingenti: ci obbliga anche a una riflessione globale e più rigorosa. Da molto tempo credo – e lo credo fermamente – che il tramonto del futuro annunci l’avvento dell’oggi. Pensare l’oggi significa, innanzi tutto, riconquistare lo sguardo critico. Per esempio, il trionfo dell’economia di mercato – una vittoria ottenuta per abbandono dell’avversario – non può essere unicamente motivo di giubilo. Il mercato è un meccanismo efficace, ma come tutti i meccanismi non è dotato di coscienza e tanto meno di pietà. Bisogna trovare una maniera per stringerlo nella società in modo che risulti espressione di un patto sociale e strumento di giustizia ed equità. Le società democratiche sviluppate hanno raggiunto un livello invidiabile di prosperità; al contempo però, sono isole di abbondanza in un mare di universale miseria. La questione del mercato è strettamente relazionata con il degrado dell’ambiente naturale. L’inquinamento non infesta solo l’acqua, i fiumi e le foreste ma anche le anime. Una società in preda alla frenesia di produrre di più per più consumare tende a trasformare le idee, i sentimenti, l’arte, l’amore, l’amicizia e le stesse persone in cose da consumare. Tutto si trasforma in oggetti da acquistare, usare e gettare. Nessuna società come la nostra ha prodotto tanti rifiuti. Tanti rifiuti materiali e morali.
    Riflettere sull’oggi non significa rinunciare al futuro né dimenticare il passato: il presente è il luogo di incontro di questi tre tempi. Né significa confondersi con il facile edonismo. L’albero del piacere non cresce nel passato o nel futuro, ma nell’oggi. Anche la morte è un frutto del presente.Non possiamo ignorarlo: è parte della vita. Vivere bene comporta una buona morte. Dobbiamo imparare a guardare la morte in volto. Alternativamente luminoso e offuscato, il presente è una sfera dove si riflettono due immagini, l’azione e la contemplazione. Così come abbiamo avuto filosofie del passato e del futuro, dell’eternità e del nulla, domani avremo una filosofia del presente. L’esperienza poetica può esserne un fondamento. Che cosa sappiamo del presente? Nulla o quasi nulla. Tuttavia i poeti sanno una cosa: il presente è la fonte delle presenze.
    Nel corso delle mie peregrinazioni alla ricerca della modernità mi sono perduto e ritrovato molte volte. Sono ritornato alle mie origini e ho scoperto che la modernità non sta al di fuori ma dentro di noi. È l’oggi e il più antico passato, è il domani e l’inizio del mondo, ha mille anni e sta per nascere. Parla nahuati, traccia ideogrammi cinesi del nono secolo e appare sullo schermo della televisione. È il puro presente che appena dissotterrato scuote la polvere dei secoli, sorride e, tutto d’un tratto, s’invola e scompare attraverso la finestra. Simultaneità di tempi e di presenze: la modernità rompe con il passato immediato solo per riscattare il passato millenario e di un’immagine di fertilità del neolitico farne una nostra contemporanea. Inseguiamo la modernità nelle sue incessanti metamorfosi ma mai riusciamo ad afferrarla. Fugge sempre: ogni incontro è una fuga.
    L’abbracciamo e svanisce: era solo un soffio. È l’istante stesso: un passero che è dovunque e in nessun luogo. Vorremmo catturarlo vivo ma lui apre le ali e scompare, trasformandosi in un pugno di sillabe.
    Restiamo con le mani vuote.Allora si aprono le porte della percezione e appare l’altro tempo, quello vero, quello che cerchiamo senza saperlo: il presente, la presenza.

    * Premio Nobel per la letteratura 1990

    (Il Sole 24 ore, 17 gennaio 1999)


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