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    (NPG 2002-09-59)


    L’occasione è stata offerta dalla presentazione del libro “Animazione culturale. Teoria e metodo” (LAS 2002) di Mario Pollo, che raccoglie e organizza tutta la riflessione degli ultimi venti anni sul tema dell’animazione culturale che ha rappresentato una ventata d’aria fresca nel panorama delle teorie e metodi di educazione, con una rilevante pregnanza per la sua assunzione anche nella pastorale giovanile. I lettori, soprattutto quelli che ci conoscono da tempo o che hanno “sudato” nei vari corsi e campi per animatori, hanno potuto nel passato apprezzare i vari contributi su NPG e i vari libri delle collane Elledici che hanno formato l’ossatura dei loro studi ed esperienze (tra l’altro, è già in fase di avanzata realizzazione un’altra collana dal significativo titolo “Pastorale giovanile e animazione”).
    Ebbene, l’occasione era troppo ghiotta per non approfittarne per una “sintesi” per i nostri lettori, quasi una specie di fotografie di famiglia.
    In effetti, l’idea ci è venuta dopo una presentazione “ufficiale” presso l’università salesiana dove sono stati “pronunciati” i primi due interventi che pubblichiamo (Di Cristofaro Longo e Giulietti). Abbiamo pensato di allargare la riflessione, chiedendo a Tonelli di esplicitare come e perché l’animazione culturale è significativa per la pastorale giovanile, e allo stesso Pollo, in una lunga intervista, di ripercorrere storia, temi, punti fermi, perplessità, nuovi possibili sbocchi per l’animazione culturale.
    Ci sembra che l’insieme offra “il bandolo per la matassa” per comprendere senso e pregnanza di questo binomio (animazione culturale e pastorale giovanile), a partire da una rinnovata comprensione e articolazione dei due concetti (animazione e culturale), e magari anche la voglia ai nuovi di entrarci dentro, per cogliere ancora una volta germi e promesse di educazione che hanno esaltato tanti operatori nel passato, e che ancora vedono in essa nuove possibilità per giovani e adulti oggi.


    ONORARE LA VITA AL DI LÀ DI OGNI SCACCO
    Una prospettiva di antropologia culturale
    Gioia Di Cristofaro Longo

    Il volume di Mario Pollo segna un punto di arrivo e, al contempo, un punto di partenza nella riflessione che l’autore conduce ormai da vari decenni.
    Un punto di arrivo perché costituisce un’eccellente sistematizzazione all’impegno di tutta una vita scientifica che ha ruotato proprio sul concetto teorico di animazione e, contemporaneamente, sulle relative sperimentazioni pratiche, con grande attenzione agli aspetti metodologici.
    All’autore sono stati e sono ben presenti gli opposti pericoli collegati all’animazione culturale: quello di una confusione solo con le “buone intenzioni” e quello, per converso, del rischio di un tecnicismo che può far perdere di vista il nucleo centrale valoriale legato all’animazione come “progettualità esistenziale”.
    Con forza Mario Pollo sottolinea la dimensione globale dell’animazione che testimonia lo sforzo dell’essere umano di “onorare la vita al di là dello scacco e del fallimento che ogni giorno segnano il suo vivere” (p. 23).
    In questa prospettiva l’animazione si traduce in una vera e propria cultura di riferimento i cui valori centrali sono la libertà, la creatività, la gioia, l’amore, il rispetto, la speranza, la solidarietà.
    Una cultura che affronta direttamente il problema del senso dell’esistenza. Un senso che non si ferma alla superficie, ma si propone di scavare nei significati profondi della verità dell’esistere cogliendo nessi, interdipendenze, qualità e quantità di rapporti, memorie, realizzazioni, progetti.
    Di fronte ad identità per un verso policentriche, per altro spezzate e frammentarie a causa proprio della complessità che distingue le nostre società che, appunto, con terminologia forse generica e prettamente descrittiva, definiamo “complesse”, la cultura di animazione può costituire una risposta in grado di contribuire a ritessere la tela delle nostre esistenze cercando di dare proprio all’esistenza, alla vita il significato più ampio ed impegnativo che le compete. Non si tratta di pensare a modelli pre-fissati e rigidi, né tanto meno a risposte certe, bensì, come opportunamente afferma Mario Pollo, favorire “la generazione di un sistema di valori che esprima, da un lato, il rispetto dell’individuo e dei suoi bisogni e diritti e, dall’altro, il rispetto delle necessità connesse al funzionamento del sistema sociale e della solidarietà reciproca tra i suoi membri”.
    L’autore individua proprio in questa carenza quella che definisce la “crisi del noi”.
    È proprio nella relazione io-noi che i mutamenti sono profondi, inediti e, spesso, contraddittori. Sono, infatti, cambiate alcune categorie quali vicinanza/lontananza, intimità/estraneità, pertinenza/irrilevanza.
    Nell’analisi di queste categorie, infatti, non può non essere oggetto di riflessione il ruolo della televisione che, sotto le spoglie di una “normalità” così come oggi viene percepita da tutti e da tutte (assolutamente nuova se si considera la storia dell’umanità), ridisegna proprio i contorni delle categorie sopra citate. Domandiamoci: chi è più “vicino”, l’inquilino della porta accanto che spesso in un fortuito incontro ci sforziamo di evitare, oppure i protagonisti delle telenovelas che abitano il nostro tempo solitario tutti i giorni da anni, alla stessa ora, secondo un’inedita ritualità virtuale?
    È proprio la riflessione sul ruolo della televisione oggi un punto centrale anche sotto l’angolatura del rapporto passato, presente, futuro.
    Si tratta, infatti, di tre dimensioni temporali ben distinte e che tutte interagiscono nello scenario identitario personale e collettivo.
    Ora è indubbio che, attraverso la televisione, delle tre la dimensione che viene assolutamente privilegiata è quella del presente, un presente che si consuma sempre più in fretta, un presente che diventa subito passato, ma che inevitabilmente cancella il passato nell’accezione tradizionale del termine.
    Tale processo di appiattimento porta con sé un’altra cancellazione, quella del futuro.
    Molte ricerche ed una, in particolare, condotta proprio da Mario Pollo (I labirinti del tempo, Franco Angeli, Milano, 2000), hanno messo in evidenza come proprio il concetto di futuro sia in crisi. Non può sfuggire la gravità di questa tendenza che tenderei a considerare come una delle differenze più profonde tra i giovani di oggi e quelli di ieri.
    La prospettiva del futuro si sposa spesso con la dimensione del sogno, sogno percepito non di rado come tale, ma che, intanto, aiuta a disegnare una cornice esistenziale più ampia mettendo, quindi, in grado di cogliere quelle opportunità che spesso attraversano la propria vita, ma che senza un preciso addestramento non si è in grado di riconoscere.
    Orizzonti ristretti, in una logica di stretta “economicità”, se non addirittura rinunciatari, in quanto consapevoli più dei rischi che si possono correre che dei possibili vantaggi, portano a delineare una crisi giovanile che coincide con una crisi progettuale alla base di un diffuso disagio.
    Di chi la colpa, o meglio la responsabilità? Credo fermamente che sarebbe troppo comodo scaricare tutte le responsabilità sui giovani. Ritengo, invece, che il mondo adulto di oggi debba interrogarsi profondamente e analizzare quale patrimonio culturale abbia trasmesso.
    Senz’altro ha ottemperato ad un impegno – quasi un imperativo – più o meno implicito, ma fortemente presente, quale quello di dotare i propri figli di tutti i possibili beni materiali; si è forse venuti meno, però, all’altro imperativo, altrettanto importante e ancora più essenziale, di consegnare valori culturali, prospettive, ideali, con i quali e nei quali sperimentare la propria esistenza.
    In questo contesto la proposta di una cultura dell’animazione indagata in tutto il suo spessore e calata nei vari ambiti della vita, una cultura “in grado di dialogare con le altre culture, pur non rinunciando alla propria identità”, una cultura “capace di ridare spessore ai simboli e ai racconti che la precedono” (cf p. 139), interroga in profondità ognuno di noi. Un’interrogazione, però, che è sostenuta da un bagaglio di obiettivi, metodologie e strumenti attraverso i quali costruire quelle abilità che Mario Pollo riesce ad individuare con un linguaggio nuovo, aperto e ricco di prospettive progettuali. Abilità che presuppongono una precisa scelta valoriale che, attraverso un percorso originale tra tradizione e innovazione, tende “a costruire se stessi come centro esistenziale”, a vivere il “mistero della sessualità come dono”, ad “abitare il tempo della storia e del progetto”, a “radicarsi nella cultura per articolare la propria identità” per incarnare una “speranza progettuale, ovvero sognare il futuro”, per ridare “terra alle parole e ai segni”.
    Una sfida decisamente ardua, ma che una volta intravista si pone e s’impone con tutta la sua forza e il suo fascino.


    L'ANIMAZIONE CULTURALE NELLA PASTORALE GIOVANILE IN ITALIA
    Paolo Giulietti

    In tutti i cammini sono importanti i momenti in cui ci si ferma e si guarda indietro. Considerare la strada percorsa, verificarne la coerenza con i progetti iniziali, è il modo migliore per continuare a procedere bene. Quando si percorre un sentiero in montagna, è necessario ogni tanto, bussola alla mano, verificare la propria posizione: occorre però trovare un sito topograficamente sensibile al quale fare riferimento (un’altura, un ponte, una deviazione…).
    Ho cercato di leggere il libro di Mario Pollo esattamente in questa prospettiva: una collina sulla quale arrampicarsi per guardare indietro, a più di trent’anni di pastorale giovanile ispirati allo stile e al metodo dell’animazione culturale; e per guardare avanti, al cammino che ci attende.

    Uno sguardo al passato…

    Anche ad una lettura superficiale non si può non riconoscere che l’animazione culturale ha caratterizzato in maniera decisa la pastorale giovanile italiana degli ultimi lustri. Alcuni fenomeni sono macroscopici:
    – “animatore” è divenuta la designazione tipica dell’operatore della pastorale giovanile. Non più e non solo “catechista”, perché non ci si è riconosciuti più nel ruolo e nello stile di chi mette in primo piano la trasmissione dei contenuti della fede (ed anche per la volontà di distinguersi dai processi dell’iniziazione cristiana); neppure semplicemente “educatore”, perché si è sposato un preciso stile, centrato sulla persona e sul gruppo; non – infine – “operatore pastorale”, perché lo stile di lavoro è stato caratterizzato dalla militanza personale e dal mettersi in gioco accanto ai giovani.
    – il gruppo è divenuto strumento educativo privilegiato e universale, fino a costituire quasi l’unico luogo della pastorale giovanile per l’educazione alla fede;
    – il metodo dell’animazione culturale, il suo linguaggio, le sua caratteristiche tecniche ed operative, sono entrati a far parte dello stile di lavoro e di progettazione di generazioni di animatori, di numerose associazioni e diocesi… fino a costituire l’ispirazione e l’ossatura di una gran parte dei percorsi di formazione per operatori della pastorale giovanile.

    Il testo di Pollo ci mette in condizione di esercitare un’ispezione critica della prassi pastorale del recente passato. Uno sguardo attento consente di individuare, accanto ai segni di grande successo della proposta dell’animazione culturale, anche alcuni dati problematici.
    – C’è stata una certa “contaminazione” tra i diversi modelli di animazione, che ha portato ad un certo svilimento dell’azione educativa: mi riferisco alla riduzione ludico/sportiva, all’enfasi sulla dimensione tecnica o addirittura al decadimento nel “modello club-med”, volto al puro divertimento. Il riferimento all’animazione è stato non di rado un modo per alleggerire la proposta di gruppo con qualche gioco o tecnica… fino ad una vera e propria abdicazione dell’azione educativa in favore di forme di intrattenimento niente affatto formative. In molti casi la scelta dell’animazione ha permesso di liberarsi da una pedagogia frontale e centrata sul cognitivo, senza però che fosse promossa una seria alternativa. Alcune diffidenze (non solo da parte degli anziani parroci) nei confronti dell’animazione si radicano in tale contaminazione.
    – Si è avuto inoltre un pronunciato “fissismo” del gruppo. La centralità postulata dalla teoria dell’animazione culturale è stata spesso male interpretata, provocando di fatto il proliferare di un’unica tipologia di gruppo: coetanei, in genere studenti, che si incontrano una volta alla settimana per parlare, avendo come finalità comune la formazione cristiana. Questa situazione ha determinato di fatto un certo “ingessamento” della pastorale giovanile, restringendo l’azione della comunità cristiana a certe categorie di giovani, a precisi linguaggi, a determinati tempi e luoghi. Le potenzialità liberatrici dell’animazione culturale, la sua capacità di proporre dovunque e a chiunque percorsi educativi… sono stati imbrigliati dal fissarsi su una precisa forma di gruppo primario. Da strumento di accoglienza, di coinvolgimento e di proposta, l’animazione ha rischiato di divenire metodo (magari assai sofisticato) di gestione dei “pochi” giovani ancora disponibili a coinvolgersi in un percorso di gruppo strutturato, definito e chiaramente finalizzato.
    – Si può constatare, infine, in molti casi una rilevante “riduzione” del metodo: qualche passaggio è stato saltato nell’applicare il metodo dell’animazione alla pastorale giovanile. Mi limito a segnalare le deficienze più evidenti:
    * un deficit di adultità: laddove l’animazione richiede una autentica asimmetria tra educatore e gruppo, si è avuta spesso una bassa età media degli animatori, anche a causa del disimpegno della comunità cristiana nell’accompagnamento dei giovani (“tanto ci pensano il curato e i suoi animatori!”);
    * una ridotta competenza nella gestione delle relazioni animatore-gruppo e delle dinamiche interne al gruppo stesso: si è assunto il gruppo come strumento, senza essere veramente capaci di servirsene. Abbandonando il “modello idraulico” della lezione frontale, se ne è adottato uno più stimolante, ma anche più complesso. In questo modo, non di rado le difficoltà di funzionamento del gruppo hanno fatto naufragare tante buone intenzioni educative, inghiottendo, senza dar frutto, la gran parte delle energie e del tempo dell’animatore;
    * un metodo “azzoppato”: l’iter rigoroso della progettazione educativa è stato a volte seguito solamente per alcune fasi. Una superficiale lettura della realtà, una sommaria definizione degli obiettivi, una carente verifica… hanno minato l’efficacia dell’animazione, rendendo sterili quelle tecnologie comunicative (giochi di interazione, tecniche di animazione…) che quasi tutti hanno utilizzato con entusiasmo, ma che hanno necessità di venire comprese e usate entro un quadro metodologico rigoroso.

    Nonostante i suddetti limiti, è doveroso riconoscere il gran bene che l’animazione ha fatto alla pastorale giovanile del nostro Paese. Del molto che si potrebbe dire, sottolineo alcuni elementi a mio avviso più importanti di altri:
    – la scelta dell’educazione: l’animazione culturale ha contribuito a far sì che la pastorale dei giovani si costituisse come attività educativa, offrendo un inquadramento teorico convincente, un modello praticabile e un metodo a misura di giovane. Ha così consentito di superare modelli del passato che apparivano insufficienti o inadeguati, senza cadere nelle derive di approcci di tipo irrazionalista o marcatamente kerygmatico. Se nel nostro Paese molti giovani sono stati aiutati a crescere armoniosamente nell’umanità e nella fede, ciò va ascritto anche all’animazione culturale;
    – la centralità del giovane: l’animazione ha aiutato la pastorale giovanile a svilupparsi mettendo al centro non l’istituzione e i suoi contenuti, ma la persona del giovane, con il suo contesto relazionale. In un momento storico in cui il desiderio di protagonismo e di partecipazione andavano crescendo nel mondo giovanile, l’animazione ha consentito a molti educatori di dotarsi di strumenti adeguati ai tempi e con grandi possibilità di adattamento;
    – una figura educativa nuova: l’animatore, divenuto per antonomasia l’educatore alla fede dei giovani. Figura che ha potuto acquisire un solido modello di riferimento e di formazione, insieme alla capacità di progettare ed agire in modo coerente. L’animazione culturale ha fornito una “tecnologia accessibile” agli educatori dei giovani, salvando la pastorale giovanile da due eccessi: quello dell’educazione intesa come pura arte (alla portata solo di personalità carismatiche, capaci di essere leader per doti naturali), e quello della eccessiva specializzazione (praticabile solo da professionisti o da esperti). Grazie all’animazione culturale, abbiamo conosciuto degli onesti “artigiani” dell’educazione, resi capaci di coniugare la passione con il metodo, la fantasia con il realismo, la libertà con l’esigenza di rendere ragione alla comunità dei percorsi proposti ai giovani.

    … e uno al futuro

    Dopo esserci fermati a rivedere il cammino percorso. ora bisogna ruotare di 180° per guardare avanti, alla strada che c’è ancora da fare. Non si può fare a meno di porsi una domanda: l’animazione culturale ha ancora qualcosa da dare alla pastorale giovanile in Italia? La questione è importante e per nulla scontata.
    Sembra infatti che l’accento sempre più forte sull’estroversione della pastorale giovanile e sull’annuncio esplicito del Vangelo (con una certa svalutazione della dimensione educativa dell’azione ecclesiale) possano mettere in discussione il ricorso all’animazione come orizzonte della pastorale dei giovani.
    Sinceramente, mi sembra che l’alternativa non sussista. Parafrasando una celebre espressione dell’Episcopato italiano, direi che se la pastorale giovanile è stata poco missionaria e scarsamente efficace nel comunicare la fede alle nuove generazioni, non è perché ha creduto nell’animazione culturale, ma perché non vi ha creduto abbastanza. Una considerazione attenta delle potenzialità dell’animazione, infatti, suggerisce ancora idee e strumenti per proposte capaci di coinvolgere e di mettere in cammino anche chi è fuori dal “giro”. Educare nello stile dell’animazione è un modo ancora attuale di comunicare ai giovani la gioia e la speranza che l’incontro con Gesù genera nella comunità cristiana.
    Parlo, naturalmente, dell’animazione “come Pollo comanda”, con tutte le carte in regole, senza scorciatoie di metodo o adattamenti snaturanti.

    Anche l’animazione, però, ha necessità di confrontarsi con alcune sfide che l’inizio del millennio pone di fronte a chiunque si proponga di educare i giovani alla fede:
    – uscire dal ghetto del gruppo-standard, per far nascere forme di aggregazioni diverse e variamente articolate, secondo le possibilità offerte alla pastorale giovanile dai diversi ambienti di vita dei giovani (il richiamo ad una nuova pastorale d’ambiente è tra i motivi principali degli Orientamenti Pastorali della CEI);
    – scoprire nuove figure educative, superando la fossilizzazione su una figura-tipo (giovane-studente-di-buona-famiglia) in direzione di una maggiore valorizzazione delle persone adulte e degli “educatori informali” o di primo livello. Tutti costoro hanno necessità di percorsi formativi e proposte metodologiche nuove;
    – coniugarsi con l’azione sociale: in epoca di globalizzazione, che trova grande sensibilità nel mondo giovanile, anche per le ripercussioni che essa ha sul futuro delle nuove generazioni, l’animazione culturale deve confrontarsi con la necessità di indirizzare i giovani verso percorsi di cambiamento personale e sociale, a piccola e grande scala. Si tratta, in sintesi, di sposare l’attenzione alla dimensione “culturale”, a quella “strutturale” della crescita umana e cristiana dei giovani. Sempre più, infatti, ci si rende conto che essi hanno bisogno, anche nel nostro Paese, di un’attenzione concreta del mondo adulto per la tutela del loro protagonismo e delle loro reali possibilità di futuro. In caso contrario, molte buone intenzioni e progetti sono destinati a naufragare in un sistema sociale in cui i giovani, i poveri, il futuro… hanno sempre minor diritto di cittadinanza.

    Sono convinto che l’animazione culturale abbia i numeri per confrontarsi con queste nuove esigenze, e fornire così alla pastorale giovanile in Italia idee e strumenti validi per le sfide educative di questo inizio millennio.


    UNA PASTORALE GIOVANILE NELLO STILE DELL'ANIMAZIONE
    Riccardo Tonelli

    In questi anni, molti educatori, impegnati nell’ambito della pastorale giovanile, hanno scoperto e sperimentato la possibilità di realizzare i compiti relativi alla educazione alla fede, attivando un rapporto privilegiato con quel modello particolare di educazione che passa sotto la formula “animazione”.
    La faccenda però non è davvero pacifica.
    Non pochi, all’inizio del cammino, hanno avanzato perplessità, dal punto di vista teologico e da quello educativo; le hanno poi rilanciate man mano che il processo prendeva consistenza. Oggi i problemi restano, più o meno, quelli di una volta, anche se le resistenze sono diventate silenziose e sotterranee, perché in questa nostra stagione abbiamo imparato a non impicciarci dei fatti degli altri e a fare ciascuno la propria strada.
    Le difficoltà e le critiche possono essere riassunte in un interrogativo: è possibile far dialogare sul merito pastorale giovanile e animazione… oppure ciascuna realtà deve camminare per la sua strada, dal momento che obiettivi e strategie operative sembrano così diverse? Alla radice dell’interrogativo ce ne sono due ancora più seri. Il primo è questo: è possibile realizzare una corretta ed autentica educazione dei giovani alla fede, assumendo in pieno le caratteristiche e le logiche dell’animazione? E il secondo: d’accordo sulla opportunità di dare alla pastorale giovanile una precisa risonanza educativa, ma perché proprio l’animazione?
    È facile constatare che le perplessità riguardano, da una parte, la natura della pastorale giovanile e la sua specificità e, dall’altra, sollecitano a far chiarezza sul significato di quel modello educativo che abbiamo chiamato “animazione”, inventando una espressione assente nella storia della pedagogia, almeno nel senso in cui la stiamo utilizzando.
    Per affrontare gli interrogativi in modo corretto, la riflessione deve impegnarsi su due frontiere: da una parte, la ricomprensione dell’animazione, per coglierne tutta la portata educativa e per individuare bene le sollecitazioni e le sfide che essa lancia ai processi di educazione alla fede; dall’altra, la ricomprensione dell’educazione alla fede in questa logica.
    Affronto i due interrogativi “assieme”, come abbiamo fatto spesso in questi anni. Solo nel confronto reciproco è possibile fare chiarezza e giustificare le scelte.

    Il rapporto tra educazione e pastorale giovanile

    Chiunque si metta a fare attività pastorale instaura un rapporto con le scienze dell’educazione. Non è necessario che la cosa sia consapevole e… il rapporto scatta anche quando viene escluso a priori.
    Non si può fare altrimenti… vista la natura della pastorale e la necessità di utilizzare, nell’esercizio dei suoi compiti, modelli operativi e strumentazioni che le provengono dal vissuto concreto delle persone e dalla cultura dominante in un certo contesto.
    Su questo rapporto nascono due questioni.
    La prima questione è di fondo, perché riguarda la qualità stessa del rapporto tra riflessione e azione pastorale, e quel vasto mondo di riflessione e di prassi che, in modo complessivo, viene definito “educazione” e fatto oggetto di attenzione da parte delle “scienze dell’educazione”.
    La seconda questione è successiva alla prima e la porta verso il concreto. Può essere indicata con un interrogativo: se la pastorale ha bisogno dell’educazione nell’esercizio delle sue funzioni specifiche, quale modello, teorico e pratico, di “educazione” può essere utilizzato, dal momento che non ce n’è certamente uno soltanto?

    L’educabilità indiretta della fede

    La risposta alla prima questione è ormai abbastanza consolidata. Sono superati i modelli pastorali in cui tende a prevalere una funzione solo strumentale dell’educazione, come sono superati quei modelli che sostengono la separazione netta degli ambiti. Il primo superamento è frutto di maturazione teologica. Il secondo nasce da una presa d’atto di situazioni pratiche: è follia immaginare di separare quegli ambiti e quegli interventi che invece sono sempre un tutt’uno, abbastanza indivisibile.
    Una prospettiva di soluzione è quella della educabilità indiretta della fede. L’espressione ricorda la possibilità di rendere attenti e disponibili al dono personale della fede attraverso quegli interventi educativi che fanno comprensibile e significativa la sua proposta e suscitano nel soggetto gli atteggiamenti corrispondenti al dono stesso. In questo modo viene, di conseguenza, riconosciuta la funzione preziosa dell’educazione – in senso stretto e tecnico – anche nell’educazione alla fede.

    Quale figura di educazione

    A proposito del modello di educazione da assumere nella pastorale giovanile, invece, la ricerca è molto più aperta. La consapevolezza di quanto sia prezioso prendere sul serio le istanze dell’educazione anche nell’ambito dell’azione pastorale, si scontra oggi con il pluralismo di figure educative e la complessità che attraversa anche il mondo delle scienze dell’educazione. Dicendo educazione penso non solo ad una metodologia pedagogica, ma, come è doveroso, all’insieme delle discipline che rientrano nel suo statuto e collaborano a dare ad essa un volto preciso (si va dalla filosofia dell’educazione a tutte le discipline che aiutano a dare un quadro corretto della persona e dell’ambiente in cui vive, fino a quelle, di tipo progettuale, che riguardano le condizioni per la costruzione del futuro personale e sociale…).
    È facile constatare quanto siano diversi i modelli operativi, fino al punto che molti hanno l’impressione che ogni educatore abbia ormai le sue formule e le applichi tranquillamente nelle diverse circostanze. Chi possiede un minimo di capacità riflessiva, si rende conto che questa diversità pratica manifesta la grande diversità teorica che sta a monte. Sono spesso in gioco concezioni antropologiche – e di conseguenza teologiche – assai differenti. La pastorale diventa piena di proposte forti e sicure, se a monte c’è un certo modo di pensare all’uomo e alla sua educazione; al contrario, nella pastorale si accettano le logiche della gradualità, della progressione lenta e costante, del significato e del valore dell’esperienza, quando a monte c’è una figura diversa di uomo. Le differenze sembrano giustificate da ragioni teologiche ma, in fondo, sono dovute a motivi antropologici.

    La scelta dell’animazione come modello globale di educazione

    La pastorale deve e vuole rispettare l’autonomia delle scienze dell’educazione nella definizione di una figura di educazione.
    Non può però ridursi ad una funzione subalterna, proprio nel momento in cui essa stessa cerca di superare la tentazione di trattare in questo modo le altre discipline.
    Come scegliere nel pluralismo di proposte, rispettando, nello stesso tempo, l’autonomia scientifica delle discipline con cui la pastorale vuole dialogare e il peso condizionante che queste discipline possono esercitare rispetto all’esercizio specifico dell’azione pastorale? Sembra un problema solo teorico, per gli addetti ai lavori, e invece ha risvolti concreti notevolissimi.
    In questi anni si è progressivamente fatta strada una convinzione che aiuta ad affrontare bene la questione.
    Il confronto tra le scienze dell’educazione e le discipline teologiche è possibile solo se esiste un principio regolatore del confronto stesso, che funzioni come sede unificante del dialogo.
    Nella pastorale questo principio è l’attenzione all’uomo, come evento integrale e indivisibile, in vista della compenetrazione nella sua struttura di personalità della maturità umana e cristiana: l’uomo, cioè, che ricerca ragioni per vivere e sperare e cui la comunità ecclesiale vuole testimoniare il progetto definitivo di salvezza in Gesù Cristo.
    La teologia e le scienze dell’uomo, pur nella diversità degli approcci, possono riconoscere la maturazione dell’uomo verso la sua pienezza di vita, come un punto comune di convergenza, teorica e pratica. In esso, i problemi relativi all’educabilità e alla riferibilità a Dio, provenienti da direzioni diverse e tendenti verso direzioni diverse, si attraversano e si coinvolgono. Su questo principio unificatore, ogni disciplina può suggerire il suo specifico contributo, verso la soluzione del problema. In parte è problema comune perché centrato sull’uomo e sulla sua promozione in umanità. In parte è specifico della riflessione e progettazione pastorale perché attento esplicitamente sulla sua salvezza nel Dio di Gesù Cristo.
    Per questa convinzione, la pastorale giovanile, tra i molti modelli di educazione con cui si confronta, sceglie e assume quel modello in cui ha l’impressione che siano rispettati e riaffermati i riferimenti che, nella fede, riconosce irrinunciabili per la qualità della vita e per il consolidamento della speranza. Di qui nasce la scelta dell’animazione come modello globale di educazione, da integrare nei processi di educazione alla fede.
    La pastorale non ha bisogno di uno strumento in più, da aggiungere a quelli che già possiede, e che le vengono dalla tradizione ecclesiale. Ha invece bisogno di una proposta globale di educazione in cui ripensarsi e da cui qualificare il suo servizio.
    L’esperienza di molti educatori, in questi anni, ha portato a scoprire che l’animazione non è né una tecnica né uno strumento. Essa è una scommessa globale sull’uomo e un progetto complessivo per la sua maturazione. Essa è, in altre parole, un progetto di educazione, uno fra i tanti, con una sua precisa organicità e articolazione. La pastorale ha scoperto di potersi riconoscere bene nelle sue linee di fondo. Convergendo attorno all’uomo e alla sua maturazione, anche da preoccupazioni diverse, si è trovata interpretata bene e aiutata a scoprire esigenze e dimensioni a cui non può rinunciare per la qualità del suo servizio.
    Per questo, la pastorale si è messa in dialogo con l’animazione e ha riconosciuto quanto sia preziosa per essa “la scuola dell’animazione”, per assumere in modo pieno quel rapporto con l’educazione che fa parte della sua natura.
    L’animazione come modo globale di realizzare l’educazione, diventa il luogo in cui si ripensano e si concretizzano i problemi, le prospettive e le scelte… tipiche dell’educazione alla fede. E, nello stesso tempo, attraverso il dialogo con le esigenze irrinunciabili dei processi che riguardano la trasmissione della fede, l’animazione può comprendersi meglio e riformularsi in termini più adeguati, pur restando un processo autonomo, orientato ad altre finalità e ad altre dimensioni della vita dell’uomo.
    Le pagine di “Note di pastorale giovanile” e le molte pubblicazioni che sono fiorite in questi anni attorno alla grande esperienza pastorale testimoniata dalla rivista, sono un documento eloquente e concreto dei guadagni reciproci: quelli che arrivano alla pastorale giovanile quando sa confrontarsi con l’animazione e quelli che giungono alla animazione, quando sa misurarsi con le esigenze della pastorale giovanile. Chi volesse fare l’elenco di questi guadagni dovrebbe ricopiare di peso l’indice delle ultime 20 annate di NPG.


    UNA SCOMMESSA, UN PROGETTO, UN METODO
    Intervista a Mario Pollo a cura di Giancarlo De Nicolò

    Domanda. I termini “animazione culturale” sono entrati nel vocabolario corrente per chi si interessa di educazione e pastorale giovanile. In effetti essa è una teoria e prassi educativa conosciuta e praticata in vari ambiti, e ha assunto anche dignità di disciplina accademica. Perché “animazione” e perché “culturale”?

    Risposta. Purtroppo nel vocabolario corrente la parola animazione ha assunto un significato molto lontano da quello a cui le sue radici rimandano. Infatti per la maggioranza delle persone animazione indica, come rilevava già ai suoi tempi il Tommaseo, un “moto vivace di persona, passionato o no”. Questo significato non deriva però dalla lingua italiana ma da quella francese.
    Infatti nella lingua italiana animazione ha il significato di “atto del dare l’anima o del mantenere la vita animale” o, ancora, “complesso delle facoltà e degli atti della vita animale”.
    È questo il significato che mi ha convinto molti anni fa a scegliere questo nome per indicare sia un’attività educativa che uno stile di vita che tentavano di mettere al centro del loro progetto l’amore e la cura della vita e che, quindi, erano disponibili ad accettare la scommessa che è possibile far fiorire la vita e l’amore per essa, anche laddove le condizioni personali e sociali, sembrano negare questa possibilità. Molti oggi, invece, intendono l’animazione come una attività tesa a vivacizzare, dinamicizzare certe situazioni e facendo questo ne tradiscono il significato più profondo.
    L’animazione non è un insieme di giochini o di attività espressive, queste al massimo sono degli strumenti di cui essa può avvalersi, ma è un itinerario formativo e di vita che vuole condurre la persona a scoprire la bellezza e il mistero della vita, a dire sì ad essa e ad amarla in se stessi e negli altri e, se possibile, a comprendere che questo amore nasce dall’incontro con Gesù, scoperto e confessato come il Signore della vita.
    L’aggettivo culturale vuole sottolineare una caratteristica costitutiva dell’essere umano: quella di essere un animale progettuale, culturale e simbolico.
    In altre parole, questo significa che, almeno su questa terra, l’uomo non può che esistere all’interno di una cultura sociale. Una cultura sociale che ne tesse la vita e i progetti.
    Per comprendere questa affermazione occorre ricordare che l’uomo, a differenza degli altri esseri viventi, non è definito alla nascita. Questo concetto è stato espresso anche da Nietzsche che definì l’uomo come l’animale non definito. Con questa definizione egli sottolineava, tra l’altro, il fatto che l’uomo al momento della nascita è un essere incompiuto che si completa nel corso della sua vita individuale e sociale.
    L’uomo non è determinato, infatti, da un codice genetico o da costrizioni ambientali assolutamente vincolanti, come accade per gli animali, ragion per cui al momento della nascita ha di fronte a sé una molteplicità di possibilità di essere.
    Affermare che la progettualità gioca un ruolo fondamentale nella realizzazione dell’essere umano significa anche dire che questi è un essere aperto, a differenza delle altre specie viventi che hanno, invece, un ambiente saldamente strutturato dalla loro organizzazione istintuale.
    Questa apertura verso il mondo che caratterizza la specie umana è sottolineata anche dal fatto che nell’uomo il periodo fetale si prolunga di almeno un anno dopo la nascita e che il cervello, sino all’età di quindici anni, si espande e si dilata con un movimento sequenziale, durante il quale incorpora le nozioni di base riguardanti le cose del mondo.
    Ciò vuol dire che vi sono dei processi essenziali di sviluppo dell’organismo che avvengono dopo che il bambino si è già separato dal grembo materno e mentre è già in interazione con l’ambiente naturale e sociale. Negli altri mammiferi, analoghi processi di sviluppo avvengono esclusivamente nel corpo materno. Questo significa che l’interazione con gli altri esseri umani, mediata dal linguaggio e dalla cultura, si intreccia nell’uomo con la sua stessa formazione organica e, in qualche modo, non può non influenzarla.
    Infatti, “il nostro cervello finisce di svilupparsi alla luce del sole, a occhi aperti e con tutti gli altri sensi affacciati sul mondo. Di conseguenza, questo organismo finirà per contenere non solo l’informazione che gli deriva dal patrimonio genetico, cioè dalla saggezza biologica accumulata in milioni di anni di storia evolutiva, ma anche una grande quantità di informazioni sui vari aspetti del mondo che ci circonda”.
    Questa considerazione è quella che già nel passato ha indotto alcuni studiosi ad affermare che “se è possibile dire che l’uomo ha una sua natura, ha più significato dire che l’uomo costituisce la propria natura, o, più semplicemente, che l’uomo produce se stesso”.
    La progettualità nell’uomo riguarda sia la sua formazione come persona, sia la costruzione della realtà, ovvero del mondo che abita. Infatti egli producendo se stesso incorpora la cultura, i linguaggi e tutti i sistemi simbolici che mediano e medieranno il suo rapporto con la realtà.
    Ogni uomo, quindi, può essere compreso ed educato solo all’interno della cultura che abita. L’espressione animazione culturale indica perciò un’educazione centrata sull’amore alla vita che si realizza in una cultura sociale e attraverso di essa e, quando è necessario, trasformandola.

    D. Rispetto ad altre teorie e prassi educative, quali sono dunque le somiglianze e differenze?

    R. Il tema della differenza tra l’animazione culturale e l’educazione si svolge all’interno di due polarità. Chi vuole stabilire a tutti i costi questa differenza persegue, tra l’altro, lo scopo di definire un profilo della figura professionale dell’animatore, soprattutto a livello legislativo, distinto da quello dell’educatore professionale.
    La ricerca della differenza è portata avanti con vigore soprattutto da una parte di coloro che operano professionalmente come animatori del tempo libero, delle attività espressive e sociali in genere, ma che non hanno alle spalle un curricolo formativo nel campo delle scienze dell’educazione.
    Sul fronte di chi sostiene, viceversa, la non separazione dell’animazione dall’educazione professionale, accanto a coloro che operano per un ricongiungimento della figura dell’animatore con quella dell’educatore, vi sono dei pedagogisti per i quali l’animazione, nelle sue varie declinazioni, non sarebbe altro che un corretto modo di intendere e di praticare l’educazione. In altri termini, l’animazione è considerata semplicemente come una buona concezione dell’educazione che è improprio chiamare con un nome diverso da quello di educazione.
    Pur se interessanti, queste posizioni rischiano di essere fuorvianti perché l’animazione culturale non è riducibile completamente a nessuna di queste due posizioni.
    Questo perché l’animazione non ha mai voluto non essere educazione, anche da parte di chi ne ha sottolineato l’aspetto espressivo, ma si è sempre posta solo come un modo diverso, rispetto alle prassi abituali e dominanti, di fare educazione. Diversità che era ed è ancora sottolineata dai particolari soggetti ai quali l’animazione si rivolge e dai luoghi in cui essa si svolge. Infatti, molti di questi soggetti, così come molti di questi luoghi, non erano mai stati considerati, prima della comparsa dell’animazione, soggetti e luoghi educativi.
    Occorre considerare che è stata proprio quest’eccentricità ciò che ha consentito all’animazione di sviluppare quei concetti teorici, quei metodi e quelle tecniche che oggi le consentono di essere riconosciuta come uno dei modi più validi di fare educazione. Con la sua “diversità” l’animazione ha dimostrato che è possibile educare in ogni contesto, in ogni età della vita dell’uomo e in ogni luogo, purché esista un minimo di condizioni di libertà. Ha dimostrato poi che si può educare anche al di fuori delle tradizionali istituzioni educative, oltre a trasformare radicalmente molti concetti base dell’educazione spostandone gli obiettivi e i confini. È forse questo il motivo per cui oggi si possono riconoscere come educative delle attività che prima erano rigorosamente escluse dall’educazione e che invece appartenevano a pieno titolo all’animazione.
    Si può tranquillamente dire che l’educazione può affermare che l’animazione le appartiene solo perché l’animazione ha ampliato i confini del dominio tradizionale dell’educazione.
    Infatti, se oggi l’educazione può prendere in considerazione come soggetti e luoghi dell’educazione persone non in età scolare e ambienti diversi da quelli dell’istituzione scolastica, ciò è dovuto principalmente al fatto che l’animazione, con la sua prassi concreta, ha dimostrato che l’educazione investe tutto l’arco della vita umana e può avvenire in ogni luogo in cui la vita si manifesta.
    Infine, se l’educazione è divenuta una forma di liberazione in molte situazioni storiche in cui le persone vivono uno stato di carente realizzazione umana, anche qui qualche merito, anche se non esclusivo, l’animazione può rivendicarlo.
    Dopo queste sommarie precisazioni però il problema iniziale rimane ancora aperto e irrisolto. Infatti, se l’educazione, grazie all’animazione, ha allargato il proprio dominio tradizionale, ha ancora senso continuare a parlare di animazione? Non sarebbe meglio abbandonare questa locuzione a favore di quella di educazione?
    Questa considerazione è tutt’altro che priva di potere persuasivo, tuttavia alcune osservazioni consentono di respingerla.
    La prima osservazione è che l’animazione culturale non si è mai dichiarata neutrale, come invece fa abitualmente l’educazione, rispetto alle concezioni dell’uomo, della società e del senso della vita che formano il pluralismo delle attuali società complesse e, prima, di quelle semplicemente industriali. L’animazione si è sempre dichiarata, pur, riconoscendo la libertà dei soggetti a cui si rivolge, come un’azione “militante” da parte di persone che credono nel valore liberante dell’educazione e che sono motivate nella loro azione da un particolare credo religioso, politico o sociale. Questo anche dopo l’abbandono post-sessantottesco della funzione politica dell’animazione.
    Il modello del buon educatore, specie di quello che opera all’interno delle istituzioni educative, propone, invece, un modo di essere il più aperto possibile nei confronti del pluralismo culturale, politico, sociale e religioso della società in cui opera. Questa posizione è perciò assai diversa da quella dell’animatore che, pur rifiutando energicamente la manipolazione e l’indottrinamento e pur facendo del metodo critico un fondamento del suo agire, è un educatore di parte che non educa solo “per mestiere” ma principalmente perché è motivato da una qualche fede.
    Sia chiaro però che nell’animazione non possono confluire tutte le fedi. Solo quelle che mettono al centro il discorso della dignità, della libertà e dell’autonomia della persona umana hanno titolo per sostenere e motivare l’azione dell’animazione.
    Una seconda osservazione è quella che deriva dalla constatazione che l’animazione, nonostante in molti casi sia entrata nelle istituzioni, educative e non, non ha bisogno per realizzarsi del contesto istituzionale, al contrario dell’educazione che si fonda sempre su un’istituzione: scuola, famiglia, chiesa, ecc.
    Una terza osservazione, che consegue direttamente alla seconda, è quella che i soggetti dell’animazione sono quasi sempre volontari in quanto essi, almeno parzialmente, scelgono volontariamente di vivere questa particolare esperienza educativa e non perché costretti dalle regole sociali.
    Un’ultima osservazione è quella che l’animazione, a differenza dell’educazione, non deve trasmettere un sapere sociale e dei modelli di comportamento che sono riconosciuti come validi dalla cultura sociale dominante, ma deve invece aiutare la persona a realizzarsi e a divenire protagonista della propria costruzione come individuo e come soggetto sociale.
    Questo non vuol dire che l’animazione non trasmetta alcun sapere sociale consolidato o alcun modello di comportamento dominante, ma solo che questi non sono al primo posto tra i suoi obiettivi formativi. Basti pensare a quelle situazioni in cui l’animazione si fa strumento dell’espressione, da parte di un gruppo di persone, della solidarietà e della fiducia nei confronti di persone che soffrono la distruttività del disagio, della devianza e dell’emarginazione.
    In questi casi si ha l’esaltazione dell’animazione come espressione, a livello educativo, dell’amore alla vita e della fede nella capacità dell’uomo di evolvere al di la del suo stato attuale. L’animazione, proprio per la sua intima natura, si pone sempre come manifestazione concreta della fiducia che la vita si esprime anche laddove tutto sembra negarla. Ora questa scommessa, che anche le istituzioni educative possono fare e, a onor del vero, in qualche caso fanno, è tipica dell’animazione e ne costituisce il fondamento.
    L’utopia scalda sempre il cuore dell’animatore proiettandolo verso il futuro più che verso il passato, verso l’innovazione più che verso la pura e semplice conservazione. In altre parole, al centro dell’animazione non vi sono una società e una cultura sociale che vogliono perpetuarsi, ma degli individui che cercano di emanciparsi dalle costrizioni interne ed esterne che impediscono la loro realizzazione personale, per ottenere la quale, magari, operano per modificare la struttura e la cultura sociale.
    Queste brevi considerazioni, e altre se ne potrebbero fare, motivano il perché, nonostante si riconosca che l’animazione è un modo di fare educazione, è conveniente che essa mantenga una sua specifica identità.

    D. Ogni teoria educativa ha un humus culturale e personale-esistenziale. Quale è quello dell’animazione culturale?

    R. L’animazione culturale affonda le sue radici in un terreno composito, multidisciplinare e in alcuni ben definiti orientamenti esistenziali.
    Le discipline che sono sottostanti all’animazione sono l’antropologia culturale e la etnolinguistica, la sociologia, la psicoanalisi, specialmente quella di orientamento junghiano, la psicologia culturale, le teorie della comunicazione, tra cui anche la cibernetica, la metodologia della ricerca, la semiologia, la psicologia sociale, la fenomenologia della religione e, perché no, la filosofia. Il tutto condito da frequentazioni nei domini della letteratura, della poesia e dell’arte.
    Nonostante la pluralità delle sue radici l’animazione culturale non deve essere intesa come una disciplina eclettica, ma come una disciplina che partendo da contributi diversificati ha saputo reinterpretarli, riformulandoli all’interno di una teoria unitaria.
    Per quanto riguarda l’humus esistenziale esso, originariamente, è stato costituito da una constatazione e da una speranza.
    La constatazione è che oggi viviamo in un tempo di crisi culturale drammatica e complessa in cui la persona è al centro di una trama di relazioni politiche, economiche, culturali, che la condizionano e spesso la soffocano.
    La speranza è che in questo contesto l’animazione intende svolgere, consapevolmente, la sua funzione: rendere l’uomo felice, restituirgli la gioia di vivere. È una piccola cosa questa nella mischia delle sopraffazioni, degli intrighi, degli sfruttamenti e delle violenze; ma è una cosa tanto grande che vale la pena di spendere la vita per perseguirla.
    L’animazione è allora una scommessa sulla vita e sull’uomo: scommessa sull’uomo e sulla sua capacità di liberazione storica, pur nella povertà che contraddistingue ogni sua azione. Essa, per rifarci al linguaggio di Paulo Freire, è un “tema generatore” di vita nel momento in cui la vita stessa è minacciata. Un luogo di speranza per il futuro dell’umanità, un luogo in cui liberare la ricchezza delle nuove generazioni e in cui continuamente rigenerare l’uomo e la stessa società.
    L’amore alla vita che l’animazione persegue è, per prima cosa, la fiducia che, nonostante tutto, è possibile per l’uomo costruirsi secondo un progetto che accanto alla sopravvivenza e all’adattamento sociale colloca le domande fondamentali sul senso dell’esistenza.
    Un progetto che sa che all’uomo non è negato il farsi effettivamente a immagine e somiglianza di Dio.
    Un progetto che sa anche che la storia, così come è disegnata dalla vita sociale odierna, non è ancora per tutti gli uomini il luogo fecondo di questa possibilità.
    Un progetto che sa che l’uomo deve costruire se stesso dentro il lavoro per la realizzazione di una diversa, più giusta e vera società, di una nuova storia.
    Un progetto che sa che tutte le sconfitte che l’uomo subisce nella sua quotidiana fatica di vivere non riescono a intaccare irrimediabilmente il suo futuro.
    L’animazione è, da questo punto di vista, un progetto educativo e uno stile di vita che mette la costruzione dell’uomo all’interno di un faticoso lavoro di redenzione della convivenza sociale e della storia. L’animazione sa che, perché tutto questo avvenga, è necessario che l’uomo si emancipi da tutti quei vincoli, da tutte quelle dipendenze che inibiscono il fiorire del suo essere.
    Questi vincoli non sono che la forma moderna in cui si manifestano gli idoli, nel nome dei quali l’uomo sacrifica il divenire pienamente se stesso. 1 nomi di questi idoli sono assai comuni: successo, ricchezza, piacere, potere, ecc. L’idolo infatti è tutto ciò che allontana l’uomo da una comprensione globale di sé, che fa sì che un aspetto parziale della vita umana divenga lo scopo totalizzante della vita stessa.
    Amore per la vita e amore per l’uomo sono alla fine la stessa cosa. È su questa convinzione che poggia il modo di vivere nello stile dell’animazione.
    La scommessa è quella centrata sull’affermazione che oggi è possibile non essere idolatri, ma bensì portatori di quel progetto che impedisce all’uomo di rinchiudersi nei limitati orizzonti che il conformismo sociale propone. Un progetto permeato dal significato le cui radici sono al di là della soglia del mistero.
    Un amore alla vita tuttavia non facile perché intriso dalla sofferenza e dalla sconfitta. Infatti, dire un progetto non idolatra oggi significa pagare un qualche prezzo in termini di sofferenza personale e di gruppo. Allo stesso modo, il lavoro di trasformazione della storia sembra essere sempre sconfitto dalle logiche del potere dominanti.
    La speranza nella sofferenza è un altro connotato dell’amore alla vita nello stile dell’animazione. La sofferenza, da scandalo che ancora affligge il mondo, può divenire la forza rigeneratrice delle infedeltà dell’uomo al proprio essere.
    La logica dell’amore per la vita dell’animazione si fonda, alla fine, sulla irriducibilità della speranza, sulla fede cioè nella redimibilità di ogni situazione umana, anche della più disperata.

    D. Quale ne è l’essenza? Una antropologia, una metodologia educativa?

    R. Il cuore dell’animazione culturale è senza dubbio la sua antropologia, mentre il metodo ne costituisce il braccio operativo. Il metodo, pur avendo una precisa identità, è comunque più flessibile dell’antropologia e, quindi, maggiormente soggetto ai cambiamenti dovuti alle situazioni particolari e alle innovazioni culturali.
    Il cuore dell’antropologia dell’animazione culturale è quello indicato nella risposta alla prima domanda, ovvero è la visione dell’uomo come un essere progettuale, culturale e simbolico, che è mistero a se stesso, in quanto immagine di Dio e in quanto abitatore della linea di confine tra il finito e l’infinito.
    Un uomo considerato come una totalità indivisibile, che con la sua natura aperta può sfuggire ai determinismi biologici e ambientali e giocare la sua libertà, nella scelta della sua vita e di ciò che vuole divenire: un angelo e un figlio di Dio o un animale rapace, una bestia feroce.
    Un uomo che è consapevole della sua mortalità e che tesse l’ordito del tempo per ritrovare il senso più profondo dei suoi giorni nell’orizzonte terrestre.
    Un uomo che sa di compiere la propria individualità solo nella relazione con l’altro, solo condividendo e sostenendo solidarmente il progetto di vita dell’altro e il proprio.
    Un uomo che sa che non può esistere alcun Io senza il Tu e senza il Noi.
    Un uomo che sa cogliere i segni dell’infinito nella finitudine della sua condizione.
    Per quanto riguarda il metodo esso poggia su quattro cardini: un modo adulto di accostarsi e accogliere il mondo giovanile; la creazione di una relazione educativa tra animatore e giovani fondata sulla riscoperta della comunicazione autentica in chiave esistenziale; la crescita del gruppo quale luogo educativo attraverso un preciso itinerario di maturazione; un modello empirico-critico di progettazione educativa.
    Questi quattro cardini sono integrati da altri tratti dai particolari ambiti di attività in cui l’animazione si sviluppa: pastorale, sportivo, caritativo, ecc.

    D. Finora la si è utilizzata soprattutto (ed è conosciuta) nell’ambito della pastorale giovanile. Quali altre applicazioni sono state esplorate o sono possibili? Dove dunque rivela o può rivelare la sua fecondità?

    R. L’animazione culturale, oltre che nell’ambito della pastorale giovanile, ha visto delle interessanti applicazioni nell’ambito scolastico, del recupero dei giovani che vivono delle situazioni di marginalità e di disagio, nelle attività ludico-espressive fondate sulla creatività e nella ricerca terapeutica dell’autenticità personale.
    Un bilancio preciso non è però possibile farlo, perché manca una ricerca valutativa circa gli effettivi risultati e gli eventuali problemi connessi all’applicazione dell’animazione a queste attività.
    A naso i risultati sembrano assai promettenti.

    D. Si parla altrove di animazione sociale o socioculturale. Quali i punti di convergenza e di divergenza?

    R. L’animazione socioculturale è stata fondata dal compianto Don Aldo Ellena e dai suoi collaboratori e si caratterizza come “una pratica sociale finalizzata alla presa di coscienza e allo sviluppo del potenziale represso, rimosso o latente, di individui, piccoli gruppi e comunità”.
    Un elemento specifico di questa concezione dell’animazione è costituito dal suo collegamento con il volontariato e dal fatto che colloca la sua azione come intervento nel territorio, al fine di favorire i processi di crescita della capacità delle persone e dei gruppi di partecipare e gestire la realtà sociale e politica in cui vivono. È una pratica sociale liberatrice che si avvale, oltre che dell’azione nel territorio, dell’uso della azione psicosociale volta a promuovere la capacità espressiva delle persone. È questo un movimento oramai consolidato con alle spalle un consistente retroterra teorico e metodologico che costituisce uno dei maggiori punti di riferimento per chi voglia fare animazione in Italia. Occorre poi segnalare che un ruolo importante nell’animazione socioculturale è giocato da quella pratica sociale che può essere definita come sociocomunitaria.
    Questo pratica si fonda sulle acquisizioni sia della psicosociologia di comunità, sia del lavoro di sviluppo delle comunità fondato su parametri di tipo sociopolitico. La sua finalità è, da un lato, quella del sostegno alle comunità locali nella riappropriazione della propria soggettualità sociale e politica e, dall’altro lato, lo sviluppo dei processi di partecipazione e di autogestione tra i membri delle stesse comunità locali.
    Normalmente questo modello non è però attivo all’interno delle comunità speciali, terapeutiche e riabilitative, dove invece è presente in alcuni casi l’animazione culturale o quella teatrale o quella ludico-espressiva.
    La differenza con l’animazione culturale emerge chiaramente da questa breve sintesi. Infatti, come si è visto, l’animazione socioculturale opera nel tessuto sociopolitico della comunità locale, mentre quella culturale sui processi educativi, in quanto mira al cambiamento della cultura sociale attraverso il cambiamento delle singole persone, aiutandole a liberare la propria individualità e, quindi, la propria specifica unicità, e nello stesso ad agire con gli altri per modificare la cultura sociale e, quindi, la vita della comunità sociale.
    Mentre l’animazione socioculturale parte dall’azione sociale per promuovere la crescita della persona, l’animazione culturale fa esattamente il contrario e mette al centro la persona.
    A parte questo, i punti di convergenza sono moltissimi sia a livello antropologico che metodologico. Si può dire anzi che in questi ultimi anni c’è stato un forte avvicinamento tra le due partiche, dopo un periodo di competizione accentuata.

    D. Quali le critiche più frequenti al modello? Punta troppo (solo) sul gruppo? Ha poca attenzione all’istituzionale e al sociale? Vale solo per i giovani e i loro gruppi informali?

    R. Le critiche al modello dell’animazione culturale nascono spesso dal non considerarla semplicemente una delle molte vie, attraverso cui la liberazione dell’uomo e l’educazione dei giovani può essere perseguita. Ogni via sceglie un percorso che permette di toccare alcuni territori ma, nello stesso tempo, ne esclude molti di più di quanto ne tocchi.
    Comunque al di là di questa constatazione, un po’ banale ma necessaria, occorre dire ad esempio che non è vero che l’animazione culturale ha poca attenzione al sociale. È chiaro, per quanto detto a proposito delle differenze con l’animazione socioculturale, che essa non ha come obiettivo primario il cambiamento sociale, tuttavia cerca di promuoverlo indirettamente attraverso il cambiamento delle persone.
    Non è vero poi che l’animazione culturale funzioni solo con i gruppi giovanili informali, anzi funziona ancor meglio con i gruppi formali, anche formati da adulti o da anziani.
    Infine, anche se ufficialmente essa punta sul gruppo come luogo educativo, tuttavia conosce alcune varianti legate alla relazione duale e alle assemblee.
    Manca però una formalizzazione metodologica di queste esperienze.
    Comunque, anche se privilegia il gruppo e centra l’attenzione sulla persona e non sul sociale e l’istituzionale, essa ha comunque egualmente un valore. Il mondo cambia se cambia l’uomo.

    D. Quali i possibili e futuri sviluppi?

    R. L’animazione culturale può avere un grande futuro, anche se la cultura sociale odierna presenta dei caratteri che, a prima vista, difficilmente sembrano accordarsi con le concezioni di uomo e con i modelli esistenziali di cui l’animazione è portatrice.
    Un esempio di questa dissonanza tra l’animazione e la cultura sociale è facilmente leggibile nel modo di porsi oggi di molte persone di fronte al tempo. È sufficientemente noto, infatti, che l’uomo contemporaneo tende a vivere il tempo come un eterno presente e non come una storia che va da un passato verso un futuro. Una delle conseguenze di quest’atteggiamento è la perdita della dimensione progettuale. Ciò significa, per molte persone, l’incapacità di vivere secondo un dover essere che permetta, attraverso scelte continue, di rimanere fedeli ad un proprio personale progetto di autorealizzazione.
    Oggi, invece, la maggioranza degli abitanti le società complesse tende a vivere cogliendo nel presente il maggior numero possibile di opportunità di autogratificazione e di consumo, senza curarsi della loro compatibilità o del loro valore etico. La coerenza non è più un valore perseguito e l’incoerenza non genera più sensi di colpa.
    L’animazione culturale è rilanciata con nuovo vigore sulla scena educativa proprio dal fatto che l’attuale cultura sociale sembra smentire i valori su cui essa si fonda, e in primo luogo quelli inerenti la dimensione progettuale dell’essere umano.
    Quest’affermazione non nasce dal gusto del paradosso, ma semplicemente dalla constatazione che la perdita del senso storico del tempo è una grave forma di malattia esistenziale per l’uomo contemporaneo. Malattia che egli vive, ad esempio, con la massificazione da un lato e con l’isolamento dall’altro. Oppure con la ricerca di un senso in pratiche e consumi che lo allontanano da se stesso, dalla sua vita e dalla storia che la inscrive.
    Il narcisismo, l’individualismo e la competitività esasperata non sono che gli effetti concreti di questa malattia esistenziale. Ora, essendo l’animazione da sempre uno strumento, povero ma efficace, attraverso cui è offerta alle persone la possibilità di scoprire una dimensione più autentica di esistenza individuale e collettiva, si può comprendere il perché essa non abbia assolutamente esaurito il suo ruolo ma, anzi, abbia di fronte a sé nuove e ancora più appassionanti avventure educative da vivere.
    È chiaro che questo spazio, che le trasformazioni della cultura sociale offrono all’animazione, per essere adeguatamente utilizzato richiede che l’animazione sappia aggiornarsi, riformularsi per adeguarsi ai nuovi terreni della sfida che la società complessa le offre. È necessario perciò, ancor più che nel passato, che gli animatori nutrano la loro militanza ideale di nuovi e più sofisticati contenuti scientifici e culturali. Purtroppo, invece, la diffusione dell’animazione ha favorito il nascere di modi di fare animazione e di animatori assolutamente inadeguati rispetto a questi obiettivi.
    Molti animatori sono, infatti, solo degli apprendisti stregoni che utilizzano, spesso a sproposito, tecniche del lavoro psicosociale senza possedere un’adeguata conoscenza sia delle tecniche sia dei fondamenti teorici che le motivano. O, ancora, per molti di essi animare è solo un modo per riverniciare di nuovo delle attività educative assolutamente tradizionali.
    Per fortuna accanto a questi animatori ve ne sono altri ben preparati, idealmente motivati che hanno seguito dei percorsi di formazione validi.
    Questa situazione, se l’animazione vuole proseguire il suo sviluppo, deve essere superata andando alla creazione di un sistema formativo e informativo che diffonda in modo più efficace la cultura dell’animazione. Molto è già stato fatto, ma ancora di più resta da fare, specialmente per far entrare la cultura dell’animazione nei centri della formazione universitaria, dove è presente solo in alcuni casi e per frammenti. Tuttavia è consolante pensare che, in un grandissimo numero di centri di formazione del mondo cattolico, la cultura dell’animazione ha già affondato radici abbastanza profonde. Per non correre però il rischio di una sorta di ghettizzazione, essa deve muovere in campo aperto e contribuire al rinnovamento della cultura sociale attuale, offrendo i doni delle sue elaborazioni e dei suoi vissuti, che sono oramai molto ricchi e significativi.
    Concludendo si può dire che l’animazione non ha affatto esaurito la sua carica di liberazione attraverso l’educazione ma che, anzi, le trasformazioni della società nella seconda modernità indicano la necessità di una sua rinnovata presenza

    D. Cosa è dunque un “animatore” nel senso dell’animazione culturale? E come agisce, con chi? Quale la figura da essa delineata?

    R. L’obiettivo generale dell’animazione è costituito dallo sviluppo della coscienza delle persone, quindi della loro capacità di vivere in modo consapevole, critico e progettuale l’avventura dell’esplorazione dello spazio-tempo che la vita ha loro donato.
    Questo obiettivo, estremamente impegnativo, richiede all’animatore una collocazione senza incertezze sul terreno della consapevolezza critica e riflessa. Infatti un animatore non può educare alla consapevolezza muovendosi in modo inconsapevole, magari per prova ed errori o per intuizioni inverificate, nella realtà in cui opera.
    L’animatore, per sviluppare quella coscienza critica, deve acquisire quelle conoscenze e abilità di tipo contenutistico e metodologico derivate dalle scienze umane. Ma non solo. All’animatore, infatti, è richiesta anche la conoscenza del dominio specifico in cui esercita la sua azione. Dominio che può variare da quello pastorale a quello riabilitativo, passando attraverso un gran numero di domini intermedi, tra cui, ad esempio, quello sportivo.
    Si può quindi affermare che l’animatore, oltre che la competenza dei metodi e dei contenuti tipici dell’animazione, deve possedere in modo adeguato anche quella del dominio in cui applica la sua azione. Questo significa che i saperi tipici dell’animazione debbono integrarsi in un tutto armonico con quelli fondamentali del dominio in cui l’animazione si svolge. Questo non vuol dire che l’animatore non abbia una sua professionalità specifica autonoma, ma solo che questa deve esprimersi attraverso il linguaggio specifico dell’attività particolare in cui essa si svolge.
    Per esprimere una azione di animazione è necessario che l’animatore condivida il fatto che lo sviluppo della coscienza delle persone, intesa come assunzione di capacità di governare nel segno dell’autonomia e della libertà il proprio personale progetto di vita, muove dall’acquisizione di una identità personale radicata nella memoria della cultura, passa attraverso una capacità di partecipare ai vari livelli della vita sociale in modo solidale e, infine, si conclude nella scoperta del senso dell’esistenza, religioso o laico, attraverso l’apertura al trascendente, al radicalmente Altro.
    Questo itinerario dello sviluppo della coscienza viene proposto dall’animatore solitamente all’interno di una esperienza di gruppo formativo in grado di produrre una esperienza di comunicazione interpersonale autentica, sia sul piano affettivo che dei contenuti, al proprio interno.
    Lo strumento che l’animatore ha a disposizione per raggiungere questo obiettivo è molto semplice, ed è costituito dalla relazione, ovvero dalla gestione sapiente del processo comunicativo che egli instaura con il gruppo e i suoi componenti.
    Questo processo comunicativo richiede due competenze. Una di carattere esistenziale, l’altra di carattere tecnico scientifico. Queste due competenze non sono scisse, ma intrecciate in modo inestricabile. Affermare poi che l’animatore deve possedere una competenza esistenziale significa, di fatto, affermare che per lui la scelta dell’animazione è per prima cosa una scommessa sull’uomo e sulla vita. Questa passione per l’uomo e per la sua vita l’animatore la esprime nella relazione che instaura con il gruppo e i suoi membri.
    Il primo carattere che indica una relazione segnata da questa passione, e quindi il possesso della competenza esistenziale da parte dell’animatore, è dato dalla capacità di svolgere quella accoglienza incondizionata, che caratterizza il metodo dell’animazione, nei confronti di ogni persona, anche da quella più distante dal proprio modello di vita. Accoglienza che si traduce nella fiducia che l’animatore manifesta nel fatto che queste persone, al di là del loro stato attuale, possiedono in se stesse tutte le risorse e le potenzialità per realizzare, secondo la propria irrepetibile originalità, un più autentico progetto di vita.
    Il secondo carattere è dato dalla capacità dell’animatore di cogliere la profonda originalità, segno della libertà, che ogni persona o gruppo mette in gioco nel percorrere l’itinerario dell’animazione e, quindi, il profondo rispetto dei tempi, dei ritmi e di tutte le diversità che ognuno di essi esprime. In questa accettazione della libertà dei soggetti dell’animazione c’è anche la consapevolezza dell’imprevedibilità del processo di animazione e, quindi, del suo eventuale insuccesso. Questo richiede una profonda umiltà, un atteggiamento antiprometeico dell’animatore che sa che molto spesso le ragioni del successo e dell’insuccesso sono sovente al di là del suo agire.
    Il terzo carattere che segna la competenza esistenziale dell’animatore, infine, è la sua capacità di vivere la complessità multidimensionale della relazione con il gruppo e i suoi membri. Questa capacità è quella che gli consente di gestire, oltre ai contenuti della comunicazione, quelli della metacomunicazione, ovvero la dimensione in cui si dà l’accettazione o il rifiuto emotivo e si afferma, quindi, la verità o la falsità esistenziale di ciò che viene detto.
    Il quarto carattere nasce dalla capacità dell’animatore di vivere lo squilibrio della relazione educativa a cui viene dato il nome di asimmetria.
    L’animatore, infatti, per svolgere efficacemente il suo ruolo educativo, deve valorizzare al massimo la differenza che lo separa dai soggetti dell’intervento. E questa differenza si basa sul fatto che l’animatore è portatore di una responsabilità e di un patrimonio professionale e culturale che deve far entrare nel gioco dell’animazione. Questa immissione del patrimonio professionale può avvenire solo perché c’è una asimmetria tra l’animatore e i soggetti dell’intervento.
    L’asimmetria, tuttavia, non significa che tra l’animatore e gli animandi debba esistere una relazione autoritaria in quanto essa deve essere sempre fondata sulla reciprocità, sulla criticità e sulla democraticità, ovvero sul confronto e sul dialogo.
    L’essere animatore comporta, perciò, la capacità di costruire una relazione asimmetrica, democratica, partecipata e critica che, nello stesso tempo, consenta il protagonismo dei soggetti dell’animazione.
    Queste competenze esistenziali, per attivarsi e divenire produttrici di animazione, debbono però essere integrate con un sapere tecnico-scientifico in grado di offrire all’animatore gli strumenti per gestire le dinamiche del gruppo, i processi comunicativi, la ricerca, l’espressività e il percorso di realizzazione degli obiettivi particolari del gruppo.
    Egli poi deve essere per il gruppo un “nomade”. Colui che è in luogo ma per andare in un altro luogo.
    Che è dentro e fuori le esperienze del gruppo perché si riserva sempre di poter esercitare il dono della profezia, dell’analisi lucida e critica che, anche se spesso, rifiutata dal gruppo e dalla comunità, sono il lievito necessario per la loro crescita.
    Da questo punto di vista l’animatore deve accettare di essere un solitario, che abita con chiunque lo ospiti ma non regala la propria libertà di nomade ad alcuno. Libertà che gli consente di sviluppare le sue credenze, le sue idee e i suoi paradigmi interpretativi che nutrono la sua vita oltre che il suo agire.
    In altre parole questa funzione è quella che fa sì che l’animatore sia lo straniero che irrompe nel gruppo, portando quello sguardo che, spiazzando le interpretazioni stanche della realtà, produce un cambiamento.
    Infine l’animatore è un diffusore di linguaggi, a partire dalla lingua, come strumenti di arricchimento del rapporto delle persone che vivono il percorso di animazione con se stesse, con gli altri e con il mondo.
    Linguaggi che sono anche lo strumento attraverso cui la persona scopre le potenzialità di cui è portatrice e impara ad esprimerle.
    L’animatore, sull’esempio di don Milani, scopre il valore emancipatorio del linguaggio.
    Come si è visto, quella dell’animatore è una figura complessa, ricca di intenzionalità umane, etiche, religiose, politiche ed estetiche, che si pone nei confronti del compito animativo carica di un forte impegno, che può essere considerato una vera e propria militanza.
    Tutto questo indica che la formazione dell’animatore non può essere una formazione che si esaurisce negli apprendimenti a livello cognitivo, ma richiede dei veri e propri percorsi di iniziazione esistenziale.
    Percorsi che, tra l’altro, sono dello stesso tipo di quelli che l’animatore propone ai gruppi che anima.


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