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    Educare i giovani all’eucaristia


    Riccardo Tonelli

    (NPG 2002-08-20)


    Il mio è un articolo un poco speciale. Affronta un tema molto vasto e impegnativo. L’angolatura è particolare (quella della “educazione” all’Eucaristia) e questo giustifica la possibilità di concentrare tante cose in uno spazio ridotto.
    Anche la riduzione del tema ad un aspetto particolare richiede però uno sguardo globale, che possa spaziare dall’interpretazione dell’esistente al confronto con le esigenze teologiche normative. E questo ridomanderebbe spazio e competenze molto più ampie delle attuali.
    E allora? Il mio contributo ha solo la modesta pretesa di fornire una specie di quadro concettuale… una guida alla lettura e un filo rosso per accompagnare i diversi approfondimenti tematici verso quella sintesi che la riflessione e la progettazione pastorale esige. Per questo il dossier è costituito da una serie di interventi specialistici. Come il primo articolo fa il punto sulla situazione, così quelli che seguono lo fanno dal punto di vista biblico, teologico, celebrativo.
    Qualche ripetizione rappresenta, di conseguenza, lo scotto che, per forza di cose, va pagato alla complessità.

    LA SITUAZIONE

    Siamo ormai quasi tutti convinti che non sia possibile fare progetti senza premettere un’analisi dell’esistente, condotta in modo disponibile e critico. Il dossier l’ha fatto attraverso il primo intervento, a carattere descrittivo e interpretativo.
    Ad esso si ispira anche questa mia riflessione.
    Le conclusioni sono importanti. Le richiamo, perché servono da premessa alla mia proposta.
    I dati e la loro interpretazione documentano che l’indice di partecipazione dei giovani italiani alle celebrazioni eucaristiche è fortemente influenzato da due fattori, abbastanza concomitanti: l’appartenenza a gruppi, movimenti, esperienze ecclesiali; la maturazione della fede e delle sue espressioni.
    In altri termini, appare abbastanza facilmente che i giovani appartenenti partecipano normalmente alle celebrazioni eucaristiche nella quasi totalità. In questa partecipazione essi riconoscono un contributo prezioso per la loro maturazione di fede. Si può quasi affermare che partecipano all’Eucaristia perché vivono già un’intensa esperienza religiosa, anche se da questa partecipazione la loro esperienza religiosa ritrova guadagni preziosi.
    Chi vive livelli scarsi di esperienza religiosa formale e chi vive ai margini dell’appartenenza ecclesiale, in genere partecipa poco all’Eucaristia o, quando vi partecipa, stenta a riconoscere l’incidenza dell’avvenimento nella qualità della sua vita.
    Ogni affermazione ha le sue eccezioni… ma questa può essere considerata una linea di tendenza, diffusa e consolidata.
    Certamente non avevamo bisogno di ricerche specializzate per raggiungere una simile conclusione. Lo sappiamo d’esperienza diretta. Lo studio di M. Pollo con cui si apre il dossier ci ricorda però un dato ulteriore, su cui è importante riflettere, per fare progetti ben situati sull’esistente.
    In molti casi, anche i giovani che partecipano frequentemente alla celebrazione eucaristica lasciano l’impressione che questo fatto, di alto profilo religioso, incida poco sulla qualità della vita e l’esperienza religiosa resta a livelli superficiali. In genere, i giovani italiani vivono la loro esperienza quotidiana di vita secondo i modelli di comportamento dominanti. La solidarietà sui fatti “normali” risulta scarsa, è ampio lo scollamento tra ragioni ideali e vita vissuta, la fede professata incide pochissimo sulle scelte concrete e quotidiane. Sono incerte, fragili, più facilmente desiderate che sperimentate le ragioni di una speranza che permetta di guardare al futuro con libertà, responsabilità, capacità di affidamento ad un fondamento sicuro. Molti di loro denunciano poi, al livello di prassi e di mentalità, uno scollamento inquietante tra qualità di vita, esperienza di fede ed esperienza religiosa.
    Tutto questo ci provoca nel momento in cui progettiamo linee di intervento educativo e pastorale, anche sul tema specifico della partecipazione all’Eucaristia.

    LA PROSPETTIVA TEOLOGICA

    Un buon progetto non si accontenta di guardare il dato di fatto, con attenzione disponibile e critica. Esso ha bisogno anche di riconquistare punti di riferimento, capaci poi di orientare le linee operative.
    Tra l’analisi della realtà e i punti normativi è necessaria una certa risonanza reciproca, pur restando i due momenti autonomi. Della realtà cogliamo quegli aspetti che la precomprensione teologica in cui ci riconosciamo mette in particolare evidenza.
    La nostra lettura teologica dell’evento è condizionata dal fatto di riflettere in un determinato ambito di spazio e di tempo, sotto l’urgenza di precise provocazioni.
    Per questo, la mia rapida rilettura teologica dell’evento eucaristico risulta segnata da quella inquietudine pastorale che la situazione mi ha lanciato. Sono preoccupato molto di più della constatata scarsa incidenza della partecipazione all’Eucaristia sulla vita quotidiana dei giovani, che dell’indice di frequenza. E cerco di ripensare all’evento eucaristico da questo punto di prospettiva.

    Rileggendo i documenti della fede

    Nel Nuovo Testamento esistono quattro redazioni esplicite del racconto della Cena: tre dei Sinottici (Mt 26, 26-30; Mc 14, 22-25; Lc 22, 15-26) e una nella prima Lettera di Paolo ai cristiani di Corinto (1 Cor 11, 23-25).
    Le redazioni dei Sinottici sono molto simili (non certamente identiche).
    Si limitano a raccontare il fatto, senza particolari commenti. Paolo, invece, cambia registro.
    Racconta a cenni rapidi l’avvenimento, consapevole di riferire fatti già noti e vissuti. Sottolinea invece con forza le conseguenze sul piano dello stile di vita. Raccomanda la condivisione del pane terreno a chi partecipa dello stesso gesto eucaristico.
    Minaccia di morte quelli che invece conservano nel cuore e nei fatti la divisione e il sopruso. Nel suo vangelo Giovanni non racconta esplicitamente la Cena. Sembra quasi ignorare questo momento solenne della vita cristiana.
    Propone però un racconto che ha il medesimo ritmo narrativo: la lavanda dei piedi (Gv 13, 1-20). Analizzando con attenzione la pagina, ci si accorge dello stesso schema di fondo, quasi a carattere liturgico, fino a sollecitare alla medesima conclusione della Cena: “Fate lo stesso, in mia memoria”, raccomanda Gesù.
    Viene spontaneo chiedersi: perché racconti tanto diversi?
    La ragione la conosciamo molto bene. I testi evangelici non sono un resoconto stenografico di qualcosa che è capitato, ma un’espressione di fede. In altre parole, l’autore non vuole, prima di tutto, descrivere la cronaca di avvenimenti lontani. Ripropone dei fatti che riconosce avvenimenti salvifici. Per questo, ricordandoli, vuole soprattutto farli rivivere, come fonte, unica e definitiva, della salvezza. Li esprime, di conseguenza, allargandoli con le parole della sua fede e con i bisogni concreti dei suoi destinatari.
    Giovanni vuole riportare la comunità ecclesiale allo spessore autentico dell’Eucaristia: Gesù sacrifica la sua vita perché tutti abbiano la vita e chiede ai suoi discepoli di continuare lo stesso gesto. Sembra sostituire il simbolo del pane a quello più provocante della lavanda dei piedi, proprio per sollecitare all’evento che dà sostanza all’Eucaristia: la croce.
    Paolo grida la sua minaccia, nel nome del pane della vita, perché si rivolge a cristiani intorpiditi, consegnati al loro egoismo mentre celebrano il sacramento dell’amore e della condivisione.
    Un cenno indiretto, sulla stessa logica, lo offre anche Giacomo: “Supponiamo che entri in una vostra adunanza qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito splendidamente, ed entri anche un povero con un vestito logoro. Se voi guardate a colui che è vestito splendidamente e gli dite: ‘Tu siediti qui comodamente’, e al povero dite: “Tu mettiti in piedi lì”, oppure: ‘Siediti qui ai piedi del mio sgabello’, non fate in voi stessi preferenze e non siete giudici dai giudizi perversi?’ (Giac 2, 1-4).

    Tra evento, segno e qualità della vita

    I testi scritturistici, appena meditati, indicano che la celebrazione dell’Eucaristia, secondo l’invito di Gesù e la prassi della comunità apostolica, si realizza pienamente solo quando si intrecciano tre elementi: l’evento di Gesù che sacrifica la sua vita come gesto assoluto di amore, l’insieme di gesti di carattere simbolico, che servono ad anticipare e a ricordare questo evento (il pane e il vino, la lavanda dei piedi), lo stile della vita concreta e quotidiana dei cristiani, impegnati a celebrare l’Eucaristia (la condivisione del pane, il superamento delle discriminazioni...).
    Se viene dimenticato uno di questi tre elementi, la celebrazione diventa un rito vuoto, privo della sua forza salvifica o, peggio, il pane della vita si trasforma in un pane di morte, come ricorda esplicitamente Paolo. La realtà (quella che riguarda Gesù di Nazareth e quella che riguarda i cristiani che celebrano il sacramento) irrompe quindi nel rito sacramentale come una specie di condizione di verità.
    Paolo chiama “pane di morte” il pane della vita consumato senza nessuna disponibilità alla condivisione. Giacomo usa espressioni molto dure nei riguardi di quella comunità eucaristica che non si preoccupa affatto di superare i modelli razzisti e vessatori nei confronti dei poveri.
    I due testi sottolineano con chiarezza il motivo: un modo di essere e di fare di questo stampo allontana il senso profondo della morte e resurrezione di Gesù, anche se il gesto simbolico vorrebbe ricordarlo.

    QUALCHE LINEA OPERATIVA

    Questa consapevolezza orienta la mia proposta di interventi.
    Nei nostri progetti di azione pastorale, da una parte, siamo sollecitati a ricostruire la verità dell’evento che vogliamo celebrare, superando eventuali distorsioni; dall’altra, siamo invitati a tradurre nei modelli culturali attuali le esigenze del “condividere”, “lavare i piedi”, “restituire dignità” a chi ne sembra privo, cui ci richiamano Paolo, Giovanni e Giacomo.
    Provo a suggerire qualche ipotesi di azione. Come ricordavo in apertura, lo sviluppo di queste grosse questioni è affidato ad alcuni specialisti negli articoli che seguono.

    In cammino verso la verità dell’evento

    La celebrazione dell’Eucaristia richiede attenzione all’evento celebrato. Solo nella luce dell’evento, di cui è segno, può essere compresa e vissuta come avvenimento salvifico.
    La celebrazione non è riuscita quando le persone sono contente, tutto è andato bene, la nostra capacità organizzativa ha trionfato... È autentica quando abbiamo incontrato Dio in mezzo a noi, per la nostra vita e la nostra speranza.
    Quest’esigenza va affermata con forza e verificata con attenzione oggi soprattutto, in questa stagione culturale in cui la preziosa riscoperta della soggettività sta minacciando la capacità di confronto e l’accoglienza di qualcosa che supera ogni soggettività, la misura e la ridimensiona.
    Per celebrare l’Eucaristia in verità e per educare ad una piena celebrazione, siamo sollecitati ad immergere la nostra vita in questo mistero.
    L’esigenza può essere espressa in diverse modalità. Ne suggerisco due, quelle che mi sembrano particolarmente urgenti rispetto all’attuale situazione culturale e giovanile.

    L’Eucaristia come evento centrale dell’esperienza religiosa

    La celebrazione eucaristica si pone come momento centrale di ogni esperienza religiosa. Viene desiderata e celebrata con entusiasmo e passione. Tra i giovani che vivono un buon livello di appartenenza ecclesiale, non soffre di quella crisi che invece affligge, per esempio, il sacramento della riconciliazione.
    Questo è un dato certamente confortante. L’educatore religioso non si accontenta di constatare i fatti. Non misura solo su essi le sue decisioni. Soprattutto si preoccupa di interpretarli e di trasformarli.
    È innegabile che la partecipazione all’Eucaristia si colloca, soprattutto a livello giovanile, in quell’ampia e diffusa domanda di senso e di eventi cui affidare la propria ricerca di speranza. Risolve anche molto bene il bisogno di incontro con il mistero, di ascolto e di partecipazione, di solidarietà profonda e coinvolgente. Ho paura però che tutto questo corra troppo sbrigativamente verso direzioni molto lontane da quelle autenticamente religiose, che portano a sfondare il vissuto per consegnare al mistero di Dio la propria esistenza.
    In questo modo, la celebrazione eucaristica è minacciata dal rischio di ridursi ad un incontro felice, misurato sui gusti e le attese del piccolo gruppo, banalizzato dal ritmo che si imprime e dal fascino seducente delle logiche di massa che si respirano.
    Riscoprire la verità dell’evento comporta la necessità di reagire a questi modelli.
    Celebriamo un dono che ci è offerto: Dio ci chiama, ci convoca, ci trasforma. Celebriamo il suo amore che salva e fa diventare creature nuove. Tutto questo lo celebriamo in un evento specialissimo che esprime il progetto in cui questo amore entra nella storia e prende concretezza: la morte e la resurrezione di Gesù. Celebrando l’Eucaristia riconosciamo il dono di Dio per la nostra vita e accogliamo il progetto in cui lo realizza. La verità dell’Eucaristia esige, di conseguenza, l’obbedienza della fede e della vita alla pasqua di Gesù.

    L’Eucaristia memoriale della Pasqua

    Questo è il punto critico fondamentale del processo di riscoperta vitale dell’evento.
    L’Eucaristia è memoria, attualizzata e impegnativa, della Pasqua del Crocifisso risorto. Essa è pasqua quotidiana perché consegna la nostra ricerca di senso, di vita, di felicità alla prospettiva sconvolgente della morte di Gesù, accolta come gesto supremo di amore, come condizione fondamentale per la vita.
    “Fate questo in memoria di me”, come ho ricordato analizzando i racconti della Cena, è prima di tutto invito a fidarsi tanto del mistero di Dio da consegnare la propria vita perché tutti abbiano vita in pienezza. L’Eucaristia pone davanti alla nostra presunzione e alla nostra pretesa di potenza la raccomandazione di Gesù: “Quando avete fatto tutto quello che vi è stato comandato, dite: Siamo soltanto servitori. Abbiamo fatto quello che dovevamo fare” (Lc. 17, 10).
    Non possiamo certo pensare alla morte di Gesù come al pagamento di un riscatto sproporzionato. La dobbiamo invece scoprire come il segno eloquente della signoria di Dio sulla vita: nella morte, per la sua potenza vittoriosa, il chicco di frumento sepolto sotto la terra, matura in spiga turgida di vita.
    La memoria di queste evento prodigioso è sempre memoria efficace. Non è né semplice invito né raccomandazione. È constatazione: per questo la memoria è celebrazione di fatti, che ci riguardano direttamente e ci coinvolgono. Per la potenza di Dio, contro ogni logica, il Crocifisso è risorto, e la vita, in lui e per noi, trionfa sulla morte.
    Facciamo memoria per costruire la speranza sul fondamento certo della pasqua di Gesù e per ritrovare il coraggio di aggiungere anche la nostra quotidiana esistenza alla lunga schiera dei martiri, come Gesù “soltanto servi” per la vita di tutti.

    La realtà: la qualità della nostra vita

    Il sacramento non ricorda solamente il mistero di Dio, fondamento della nostra vita e della nostra speranza. Nel segno sacramentale rilancia verso la nostra stessa vita quotidiana: la possiamo celebrare nell’evento, solo se essa è segnata, almeno in modo germinale, da qualcosa che è già nella sua stessa logica (o tende almeno verso questa stessa logica). Solo così il segno è davvero espressivo: capace di esprimere quella salvezza che dall’evento investe la nostra esistenza e la fa nuova.
    Non basta, di sicuro, analizzare le componenti culturali del segno, come se fosse sufficiente conoscerne la storia, l’uso e il senso per vivere intensamente l’evento. Neppure è sufficiente cercare segni eloquenti e significativi, capaci di esprimere la realtà dell’evento senza richiedere lunghe spiegazioni e commenti. L’impegno educativo va condotto, con decisione, nella direzione della realtà della vita quotidiana. L’educazione al segno e al suo significato ci aiuta a definire meglio la qualità della vita da ricostruire e consolidare. Questo è un compito educativo molto impegnativo. Qualche esempio può orientare una ricerca che deve continuare, in termini concreti.

    Prendere la vita con serietà

    Considero, come atteggiamento preliminare da ricostruire nell’esistenza dei giovani, la capacità, riconosciuta teoricamente e realizzata esistenzialmente, di lasciarsi misurare da esigenze dell’esistenza che dipendono dalla vita stessa e non sono pattuibili. Esse riguardano l’immagine di uomo e donna riuscita, verso cui ci sentiamo in tensione, e le condizioni esistenziali che ci permettono di raggiungere e consolidare questa figura.
    Nei modelli educativi tradizionali, prevaleva l’attenzione alla serietà. Oggi, tutto sembra sbilanciato verso la vita e la felicità, a scapito della serietà. Viviamo in una cultura in cui le cose, anche le più banali, sono offerte come capaci di risolvere tutti i problemi. L’esito di maturità non è il frutto della fatica di vivere, ma il risultato sicuro del possesso di ciò di cui possiamo facilmente disporre.
    Qualcosa di alternativo va sperimentato e fatto scoprire.
    Punto di attenzione è la vita; la felicità è la sua qualità, anche se può essere assicurata solo nella riscoperta della sua verità e autenticità. La vita “è sempre un bene” (Evangelium vitae 34). Lo riconosce, con una forza speciale, il cristiano che confessa: “È proprio nella sua morte che Gesù rivela la grandezza e il valore della vita, in quanto il suo donarsi in croce diventa fonte di vita nuova per tutti gli uomini (Gv 12, 32)”.
    Vivere la vita in serietà significa in concreto riconoscere proprio questa verità e i diritti che da essa scaturiscono sulla nostra libertà. Quest’atteggiamento restituisce la capacità di porsi di fronte alla realtà in modo maturo: la responsabilità (soprattutto quella a carattere collettivo) diviene così la forma della soggettività.

    Oltre quello che si vede...

    Il secondo atteggiamento da ricostruire nella trama della vita quotidiana riguarda il senso del mistero.
    Siamo abituati a considerare vero e reale solo quello che possiamo manipolare. La nostra cultura parla attraverso le immagini. Per questo siamo diventati presuntuosi e saccenti. Per ogni cosa abbiamo una spiegazione e di ogni avvenimento sappiamo responsabilità, positive o negative. Se qualche male ci sovrasta, ne conosciamo il rimedio o, almeno, è solo questione di giorni: presto o tardi, troveremo il nome giusto per identificarlo e gli strumenti adeguati per risolverlo.
    Il credente non si trova a proprio agio in questo modo riduttivo e falso di vedere la realtà. Si impegna per comprenderla fino in fondo, felice di poter utilizzare tutto quello che la scienza e la sapienza dell’uomo hanno saputo produrre. Riconosce però l’esistenza di un altro mondo, fatto di eventi un po’ misteriosi, la cui trama ci sfugge completamente e di cui possiamo parlare solo nel modo strano del linguaggio religioso.
    Riconosciamo che la stessa realtà ha due facce: una si vede, si può manipolare, può essere letta e interpretata attraverso le categorie della nostra scienza e sapienza; l’altra, invece, si sprofonda nel mistero. La fatica di vivere in modo autentico la propria esistenza comporta la fatica quotidiana di integrare le due dimensioni della realtà, decifrando l’una a partire dall’altra.

    Riscoprire l’amore che si fa servizio

    Il terzo atteggiamento riguarda un’altra dimensione qualificante per una qualità di vita in convergenza con la realtà dell’evento: un’esistenza capace di farsi “prossimo” a tutti.
    Penso, per esempio, all’amore gratuito che si fa servizio, alla disponibilità a sostenere, in una presenza silenziosa e accogliente, il dolore e la sofferenza, fino a riscattare il suo significato per la vita di tutti, alla passione per la vita e la libertà, che conduce a sacrificare la propria esistenza come dono per quella di tutti.
    Gesù ha sacrificato la sua vita, come sommo gesto di amore, accettando le conseguenze inaudite di un’esistenza tutta protesa nell’impegno di restituire vita e speranza, nel nome di Dio, agli uomini, prigionieri dell’oppressione fisica, culturale, religiosa. Chi vuole la vita, si pone come Gesù al servizio della vita, con la coscienza che “sacrificare la vita” è la condizione fondamentale perché la vita sia piena e abbondante per tutti.
    Chi si impegna per la vita riconosce che l’esito della sua fatica è sempre oltre ogni progetto ed ogni realizzazione. Viene dal futuro di Dio, dove ogni lacrima sarà finalmente e definitivamente asciugata.

    Un’esistenza vissuta nella gratuità

    Tra gli atteggiamenti cui rieducare per una celebrazione autentica dell’Eucaristia, è importante collocare anche il senso della gratuità.
    Gesù rivela la presenza nella storia di un principio inedito, sconvolgente rispetto alle logiche del male: la debolezza e la sconfitta (la croce) è vittoria della vita, quando viene vissuta come disponibilità all’amore e affidamento al progetto di Dio.
    Possiamo affidarci a lui, consegnando al mistero di Dio la nostra voglia di vita e di felicità e la paura che il dolore e la morte scatenano, solo se riusciamo a ricostruire un rapporto giocato all’insegna della gratuità.
    La mancanza di gratuità porta a riconoscere come importante per la mia esistenza solo quello che mi assicura un guadagno. La riconquista della gratuità dell’amore porta, invece, all’avventura della speranza: la fede diventa consegna della propria esistenza ad un fondamento, che è soprattutto sperato, che sta oltre a quello che posso costruire e sperimentare.
    Chi vive, si comprende e si definisce quotidianamente in una reale esperienza di affidamento, accetta la debolezza della propria esistenza come limite invalicabile della propria umanità.

    Ricostruire una capacità celebrativa

    L’Eucaristia ci offre il dono di Dio che salva in una forma tutta speciale. Non è una proposta come quelle cui siamo abituati. Lì le cose ci sono offerte, avvolte di fronzoli colorati e illuminate da fasci di luce seducente. Si tratta di vincere resistenze e concorrenze, facendo convergere sulla proposta attenzione e interesse. Nell’Eucaristia il processo è molto diverso. La proposta della salvezza di Dio si fa presente nella trama complessa dei segni ecclesiali, in un gioco che ripete la logica fondamentale della presenza di Dio e della sua rivelazione, manifestazione e nascondimento nello stesso tempo.
    Il terzo compito, cui è impegnato chi vuole educare all’Eucaristia, riguarda, di conseguenza, la qualità del gesto che stiamo compiendo. Si tratta di restituire ai segni utilizzati la piena funzione celebrativa e di restituire alle persone la capacità di celebrare secondo le modalità che il significato del sacramento eucaristico esige. Il compito è particolarmente urgente, quando è riferito ai giovani di questo tempo.

    Restituire al segno la sua forza celebrativa

    L’Eucaristia esprime una realtà “dentro” sistemi simbolici che ci vengono da lontano e che assicurano una reale solidarietà tra tutti gli uomini.
    Purtroppo, siamo diventati tutti, un poco alla volta, persone che hanno perso la consapevolezza dello spessore di molti segni che ci vengono da lontano.
    Pensiamo, per esempio, a quelli più intensi e frequenti, anche nelle celebrazioni eucaristiche: il pane, l’acqua, i rapporti interpersonali, l’abbraccio, la luce... Abbiamo un enorme bisogno di restituire storia e spessore ai simboli che utilizziamo.
    Chi sta con i giovani ha il compito e la responsabilità di riformulare continuamente le espressioni dell’esperienza ecclesiale, perché siano significative anche oggi, proprio mentre i giovani accettano di vivere nel grembo materno della comunità ecclesiale, intessuta di persone diverse per sensibilità, cultura, tradizioni.
    L’operazione è seria e urgente. Richiede fede e fantasia. Da una parte dobbiamo distinguere i diversi livelli d’importanza (per superare la furia distruggitrice e la sacralizzazione a tutti i costi) e dall’altra dobbiamo... rischiare “dalla parte del futuro”... perché anche questa è fedeltà.

    Ricostruire un’intensa esperienza ecclesiale

    L’Eucaristia è una celebrazione ecclesiale: si realizza nella comunità ecclesiale, la costruisce e la anima, quando è vissuta, gioiosamente, nel suo grembo materno. Educare alla celebrazione eucaristica comporta, di conseguenza, ricostruire un senso alto di appartenenza ecclesiale. Il discorso si farebbe molto lungo. Lo riduco a qualche veloce accenno solo per sottolineare l’esigenza.
    I fatti, analizzati in apertura, richiamano il significato della mia affermazione e, nello stesso tempo, rilanciano problemi che non possono essere messi tra parentesi.
    La celebrazione eucaristica è sempre un avvenimento di Chiesa. Il piccolo gruppo di appartenenza o il movimento che fa da sostegno alla stessa esperienza di gruppo sono importanti per un’intensa partecipazione eucaristica. Non possono però funzionare come luogo esclusivo o eccessivamente ristretto. La preoccupazione ha un sapore molto concreto, perché riguarda i gesti compiuti, la scelta dei canti, il linguaggio e i sistemi simbolici privilegiati, lo stile e il ritmo della celebrazione. Non possiamo considerare ben riuscita quella celebrazione che ha coinvolto tutti a scapito di alcune norme che la sapienza ecclesiale propone per dare alla celebrazione stessa una sua struttura “oggettiva”. Va ricordato con i giovani e i loro animatori, sempre tentati di ridurre anche la celebrazione eucaristica ad un evento gestibile a totale piacimento, come sono le feste di gruppo o le grandi manifestazioni di massa.
    Un altro elemento voglio sottolineare, prima di concludere: l’utilizzazione dei testi. È evidente che non tutti i testi hanno una funzione identica: la scelta delle letture ha un respiro diverso da quello del canone, come l’utilizzazione delle preghiere spontanee risponde a decisioni ben diverse da quelle che riguardano le altre preghiere offerte dal messale. Sottolineare la dimensione ecclesiale della celebrazione non significa, di certo, costringere giovani e gruppi ad un uso pedissequo dei materiali offerti dal messale, fino a ridurre il saluto iniziale ad una ripetizione delle formule ufficiali, solennizzata da alcuni gesti formali.
    L’esperienza giovanile nella celebrazione esige creatività, concretezza, essenzialità, nello stesso tempo in cui richiede l’educazione ad accogliere espressioni che restituiscono alla nostra celebrazione il respiro di ecclesialità universale che le compete.

    Laboratori dove far fare esperienza

    L’ultima questione le attraversa tutte. Per questo non è omologa alle precedenti, ma forma una specie di piattaforma esperienziale su cui costruire e sperimentare la riconquista della verità dell’evento, uno stile eucaristico di vita e la capacità celebrativa.
    La esprimo con un interrogativo: dove abilitare i giovani a tutto questo?
    Spesso, la tradizione educativa e pastorale ha fatto ricorso a vere “scuole” dove insegnare, condividere informazioni, educare. L’idea di fondo era quella comune a tantissimi altri ambiti: solo chi conosce può vivere.
    Proprio da questo punto di vista nascono oggi lamentele a causa del livello veramente scarso di conoscenza dei contenuti della fede, riscontrabile nell’attuale mondo giovanile.
    Qualcuno dice: “Non sanno più neppure i dieci comandamenti… Come possiamo immaginare un buon livello di vita cristiana in una situazione di ignoranza tanto diffusa?”. E si aggiunge subito: “Sanno davvero poco del significato di tanti gesti, espressioni, momenti dell’Eucaristia… come possiamo immaginare che la possano vivere intensamente?”.
    E così la ricerca sui rimedi corre verso i momenti, formali e istituzionali, dove mettere i giovani a contatto con “materiali” conoscitivi.
    Qualcuno ha persino inventato le “scuole dell’Eucaristia”, riducendo la celebrazione ad un momento in cui il tempo delle parole e delle spiegazioni copre quasi tutto il tempo della celebrazione.
    Sono convinto della necessità di far scoprire l’Eucaristia celebrando adeguatamente l’Eucaristia stessa. Essa diventa un vero “laboratorio” formativo della fede e del suo senso per la vita quotidiana.
    La diversità tra il modello “scuola” e il modello “laboratorio” non è piccola.
    Dalla parte della “scuola” tradizionale, il contenuto da comunicare è dato… una volta per tutte e va trasmesso nella sua interezza, facendo spazio soprattutto alla comunicazione orale.
    Dalla parte del laboratorio, invece, la comunicazione si realizza all’interno di una trama comunicativa che lega tutti i partecipanti all’evento. Ciascuno ha una precisa funzione: il presidente della celebrazione sta al gioco comunicativo, come testimone di eventi, più grandi di lui, che lui ha compreso e vissuto nella sua soggettività e che rende disponibili agli altri, per ricomprendere a sua volta ciò che trasmette.
    Tutti i partecipanti sono soggetti dell’atto comunicativo, chiamati ad offrire il contributo della loro esperienza, competenza e ricerca, per formulare meglio, nella situazione concreta, l’oggetto della comunicazione. Esso non appartiene a nessuno dei partner: ciascuno lo cerca, lo vive, lo sperimenta. Nell’atto della sua accoglienza si scatena un processo di riformulazione, orientato a dire il dato di sempre nell’oggi del tempo, dello spazio, della storia del gruppo in laboratorio.
    Non mi soffermo a tradurre tutto questo nelle strutture celebrative tipiche della celebrazione eucaristica. Mi sta a cuore solo ricordare una esigenza. Resta certamente decisivo il fatto che dalla parte del laboratorio la discontinuità tra la vita quotidiana e la celebrazione eucaristica è solo formale e funzionale, come il segno lo è rispetto all’evento significato.
    Per questo l’invito conclusivo “andate in pace” non chiude l’atto eucaristico ma lo spalanca verso modalità nuove, che permettono poi il ritorno, nei tempi previsti, nella novità, sognata e conquistata.
    Il laboratorio diventa così esperienza di spiritualità eucaristica.

    UNA SPIRITUALITÀ EUCARISTICA

    Il segno eucaristico spalanca verso l’evento di Dio che si fa vicino a noi per la nostra vita e, nello stesso tempo, verso la nostra vita quotidiana che progressivamente si trasforma nel progetto di Dio. Esige e fonda un modello globale di esistenza cristiana e, quindi, di spiritualità.
    Di questa spiritualità eucaristica voglio sottolineare una dimensione che reputo particolarmente urgente in riferimento alla situazione giovanile attuale.
    I giovani d’oggi, per mille e differenti ragioni, vivono catturati dal presente. Fanno della loro vita un rincocorrersi di piccoli frammenti di esistenza che produciamo e ci lasciamo alle spalle. Vissuta così, la nostra vita è muta e senza prospettiva. Ci lascia nel buio di ogni presente perché chi è senza passato si trova, per forza, anche senza futuro.
    L’Eucaristia ci aiuta a riallacciare, sul tempo che vivendo produciamo, il passato al presente e al futuro. Essa è la grande festa cristiana del presente tra passato e futuro, tra memoria e profezia.
    Il passato è rievocato come sorgente e ragione della festa nel presente. Non è il greve condizionamento che pesa sul presente; ma l’avvenimento che gli dà senso e lo riempie di ragioni.
    Viene anche anticipato il futuro. La celebrazione eucaristica è scoperta gratuita ed entusiasta dei segni della novità anche tra le pieghe tristi della necessità del presente. Per questo, possiamo vestire nel presente i panni fantasiosi del futuro, senza passare per uomini che fuggono quelle responsabilità cui chiama ogni presente. Essa è quindi una grande esperienza trasformatrice. Aiuta a spezzare le catene del presente, senza fuggirlo. È un piccolo gesto di libertà, che sa giocare con il tempo della necessità e sa anticipare il nuovo sognato: il regno della convivialità, della libertà, della collaborazione, della speranza, della condivisione.
    È importante ricordare che tutto questo non si realizza in un gioco d’intese, di realizzazioni o di compromessi. La sua radice è invece il mistero di Dio, reso presente nella pasqua del Crocefisso risorto.
    Lo stretto collegamento tra celebrazione e vita quotidiana sollecita chi è tentato a leggere la propria esperienza solo dalla prospettiva del suo esito, quando asciugata ogni lacrima vivremo nei cieli nuovi e nella nuova terra, a misurarsi coraggiosamente con i gesti della necessità, nel tempo delle lacrime e della lotta. Nello stesso tempo, immerge nel futuro la nostra piena condivisione al tempo: in quel frammento del nostro tempo che è tutto dalla parte del dono insperato e inatteso. Dalla parte del futuro, il presente ritrova la sua verità, il protagonismo soggettivo accoglie un principio oggettivo di verificazione.
    In questa discesa verso la sua verità, siamo sollecitati a restare uomini della libertà e della festa, anche quando siamo segnati dalla sofferenza, dalla lotta e dalla croce.
    Come i discepoli di Emmaus ritroviamo le ragioni più profonde della speranza e un desiderio ardente di “tornare a Gerusalemme”, per inondare tutti di questa speranza.
    Dalla Gerusalemme dell’Eucaristia ritorniamo alla Gerusalemme della vita quotidiana.


    T e r z a
    p a g i n A


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