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    È possibile animare in strada?


    I luoghi dell'animazione /5

    Mario Pollo

    (NPG 2002-07-33)


    Secondo i risultati della ricerca La gioventù negata [1] diretta dallo scrivente, i luoghi in cui i giovani italiani trascorrono maggiormente il loro tempo sono, in ordine di graduatoria: la casa, la piazza e la strada e la scuola. Per quanto riguarda la piazza e la strada la ricerca ha indicato che ben il 71% dei giovani passa in questo luogo urbano una quota importante del proprio tempo quotidiano.

    LA STRADA: IL NON LUOGO PIÙ FREQUENTATO DAI GIOVANI

    Questo dato, di per sé, non dovrebbe essere particolarmente rilevante, visto che nelle società mediterranee, ma non solo in esse, lo spazio urbano aperto, di cui l’agorà era il simbolo, ha sempre costituito il luogo centrale degli scambi tipici della comunicazione, del commercio, della religione, della politica, delle idee e dei sentimenti.
    Basta pensare alla vita di Socrate che nelle strade e nelle piazze conduceva tanto la sua ricerca filosofica quanto l’educazione delle giovani generazioni, o a quella delle stesso Gesù che in questo spazio annunciava la buona novella, compiva miracoli e formava i propri discepoli.
    Tuttavia, nonostante questa tradizione, il dato sulla frequentazione da parte dei giovani delle piazze e delle strade della città colpisce, e spesso con tonalità negative, gli adulti, specialmente quelli che hanno una preoccupazione educativa nei confronti delle nuove generazioni.
    Questo avviene perché nel corso di questo ultimo secolo, in parallelo con il forte processo di urbanizzazione indotto dalla industrializzazione, la strada e la piazza sono diventate sempre di più uno spazio di transito anonimo, salvo che in alcune parti della città, di solito centrali, che hanno mantenuto una qualche funzione di luogo di incontro.
    Uno spazio che man mano diventa sempre più periferico rispetto al centro del sistema culturale che, quindi, viene percepito come irto di pericoli fisici e morali per i ragazzi e i giovani.
    Non è perciò casuale che l’espressione “ragazzi di strada”, sia progressivamente diventata una etichetta usata per indicare ragazzi la cui educazione, invece di avvenire all’interno della famiglia o delle altre istituzioni educative, per il fatto di realizzarsi nella strada ha prodotto in essi comportamenti, stili di vita e orientamenti esistenziali giudicati se non proprio devianti almeno insufficienti rispetto agli standard richiesti dalle norme e dai codici della vita sociale.
    L’etichetta “ragazzi di strada” è, infatti, gravata da un forte stigma sociale. E questo conferma la percezione negativa di questo spazio all’interno dell’attuale cultura sociale.
    La trasformazione della piazza e della strada da spazio fortemente interrelato con quello della casa, dei luoghi di produzione e di culto e delle istituzioni, tanto da poter essere considerato un loro prolungamento, a spazio estraneo, oscuro e anonimo è stata prodotta da un insieme composito di cause.
    Quelle più evidenti e note sono costituite dall’anonimato e dall’isolamento relazionale che affligge gli abitanti dei grossi agglomerati urbani, dall’esplosione del traffico motorizzato, dall’espansione smisurata delle grandi città conseguente ai processi di emigrazione di massa che hanno condotto milioni di persone ad abitare e a lavorare in luoghi con una cultura sociale differente da quelle dei loro luoghi di origine, dalla desacralizzazione dello spazio e dagli effetti della comunicazione di massa interconnessi a quelli della produzione all’interno di una economia globalizzata che hanno trasformato i luoghi in non luoghi funzionali.
    Mentre gli effetti del traffico sulla vivibilità e sulla frammentazione dello spazio urbano sono evidenti e non richiedono particolari analisi, un po’ meno evidenti sono quelli prodotti dalla secolarizzazione dello spazio e dall’espansione urbana, così come sono nascosti alla percezione dei più gli effetti della desacralizzazione dello spazio e della comunicazione/produzione di massa.

    L’espansione urbana alle soglie del terzo millennio

    L’esplosione urbana, che riguarda oramai la maggioranza dei Paesi del pianeta, è un fenomeno tipicamente moderno, innescato, come già detto, dalla nascita e dallo sviluppo della società industriale.
    Basti dire che nel 1800 solo il 3% della popolazione mondiale viveva nelle città, mentre attualmente più della metà della popolazione vive nelle aree urbane.
    Questo dato è già riscontrabile nei tre quarti dei paesi latino americani. L’Africa non è ancora in queste condizioni ma sta procedendo a tappe forzate verso di esse. Infatti le città africane stanno aumentando la loro popolazione residente al ritmo di un incremento del 10% annuo. Analoghi fenomeni stanno avvenendo nelle città asiatiche.
    La maggioranza delle città del mondo in seguito a questo fenomeno hanno aumentato, o stanno aumentando, le loro dimensioni. Se, ad esempio, all’inizio del XIX secolo c’erano nel mondo solo venti città con una popolazione superiore ai 100.000 abitanti, oggi queste città sono novecento.
    Questo significa che la civiltà del terzo millennio sarà quella delle grandi città, per le quali è stato da tempo coniato il nome di megalopoli.
    C’è da dire che mentre nell’occidente ricco e industrializzato, ad esempio l’Europa e gli USA, questo fenomeno è contenuto in limiti abbastanza modesti e in alcune città è addirittura in regressione, nei paesi del terzo mondo, o comunque meno sviluppati industrialmente, esso ha i caratteri di una vera e propria esplosione.
    I demografi prevedono che all’inizio del terzo millennio ci saranno nel mondo tre città con un numero di abitanti superiore ai venti milioni e ben 20 città con una popolazione tra i dieci e i venti milioni.
    Se si pensa che all’inizio del XIX secolo, come si è già detto, erano solo venti le città nel mondo con una popolazione superiore ai centomila abitanti e che oggi ci sono, o ci saranno tra breve, venti città con una popolazione superiore ai dieci milioni ci si rende conto dell’incredibile progressione che l’urbanesimo ha avuto nei tempi moderni e dell’impatto che esso determina sulle condizioni della vita sociale.
    C’è da notare poi che mentre la popolazione delle grandi città dell’Europa e degli Stati Uniti tra il 1970 e il 2000 ha avuto una crescita o nulla o lenta, nello stesso periodo le città dell’Africa, dell’Asia e dell’America del Sud hanno avuto una crescita rapida o addirittura rapidissima.
    Questo farà sì, ad esempio, che la popolazione di Città del Messico sarà il triplo di quella di Parigi, mentre quella di Shanghai e quella di Pechino saranno il doppio.
    Il fatto che la crescita maggiore della popolazione delle città stia avvenendo nelle aree del mondo meno sviluppate economicamente determinerà problemi sociali enormi, vista l’impossibilità di queste agglomerazioni urbane di offrire condizioni di vita adeguate per la totalità, o perlomeno per la maggioranza dei loro abitanti.

    La secolarizzazione della città

    L’industria prima e il terziario avanzato poi hanno eletto la città a loro ambiente specifico.
    Questa elezione ha concluso un processo di modificazione del concetto di città durato alcuni secoli.
    Si è trattato di un vero e proprio processo di secolarizzazione che ha tolto alla città ogni residuo della sua arcaica funzione di imago mundi e, quindi, di spazio sacro, trasformandola in macchina per abitare, per produrre e per socializzare.
    La città secondo le concezioni arcaiche era, infatti, una immagine del cosmo che riproduceva al proprio interno la logica della creazione del mondo e che perciò collocava gli uomini che l’abitavano nella dimensione sacra della creazione e li proteggeva dalle forze della distruttività presenti nello spazio.
    Questa concezione arcaica aveva già avuto una importante trasformazione all’interno della civiltà greca che aveva valorizzato la dimensione comunitaria, politica e culturale della città costituendola come luogo di relazione tra gli uomini.
    È significativo a questo proposito quanto afferma Socrate nel Fedro laddove, giustificando la sua preferenza per la città rispetto alla pace e alla bellezza dei luoghi agresti poco fuori Atene e a lui pressoché sconosciuti, dice: “Sai bene che io sono assetato di sapere: ora le campagne, gli alberi si rifiutano di parteciparmi il loro insegnamento, come invece fanno gli uomini della città”.
    Nell’epoca moderna vi è stato un ulteriore, enorme balzo nel processo di trasformazione aut secolarizzazione del senso della città nella vita umana che ne ha oscurato anche la natura relazionale.
    Infatti il risultato della “secolarizzazione della città”, come è visibile oggi nelle grandi aree metropolitane, è che questa è ridotta ad essere una somma di funzioni dalle quali sono assenti, o perlomeno sono presenti in modo assai labile, quelle riferite alla vita di relazione comunitaria, ai processi di identificazione in una storia e in una memoria. Lo stesso rapporto tra città e ambiente naturale non è più leggibile, e le città tendono a produrre architetture e funzioni simili al di là del contesto ambientale in cui sono inserite.
    Da questo punto di vista le città possono essere assimilate a delle macchine produttive di attività lavorative, di servizi, di istruzione e di cultura, di svaghi e divertimenti e assai poco a degli spazi esistenziali in grado di circoscrivere la vita delle persone in un senso collettivo e di produrre relazioni significative tra le persone.
    Il risultato di questa meccanizzazione sono città a basso tenore di vivibilità, in cui le relazioni di solidarietà tra le persone, laddove ci sono sistemi amministrativi efficienti, sono surrogate dalle prestazioni anonime dei servizi sociali e culturali.
    In questo contesto si parla sempre di più per i “cittadini” di isolamento e di povertà relazionali, di indifferenza e mancanza di solidarietà.

    La nascita dei non luoghi

    Nelle culture sociali precedenti quella attuale l’universo sociale era articolato in una molteplicità di luoghi distinti che richiedevano alle persone di mettere in atto all’interno di essi dei comportamenti particolari. Questo avveniva perché, di fatto, il luogo era il fondamento di quella che può essere definita una situazione sociale, in quanto questa era considerata nient’altro che un determinato comportamento in un particolare luogo fisico.
    La separazione delle situazioni era prodotta dal fatto che i luoghi erano portatori di una identità particolare e di richieste alle persone della messa in atto di comportamenti differenziati al loro interno.
    Occorre infatti tenere presente che un luogo, antropologico è identitario, relazionale e storico. Questo significa che il luogo, oltre a fondare l’identità storico-culturale delle persone che lo abitano, offre alle stesse un insieme di possibilità, interdetti e prescrizioni che regolano le loro relazioni [2] mentre le colloca all’interno di una storia.
    La comunicazione di massa elettronica, spingendo dal punto di vista informativo le persone verso un unico luogo, ha rotto questo tradizionale legame tra luogo e situazione sociale e le ha condotte a confondere le identità connesse ai vari luoghi.
    Questo fatto ha consentito alle persone che abitano i singoli luoghi di sfuggire alle richieste comportamentali delle particolari situazioni sociali che essi contengono e, nello stesso tempo, ha consentito agli estranei di invadere i luoghi senza neppure entrarci.
    Il risultato di tutto questo è l’omogeneizzazione dei luoghi dal punto di vista comportamentale.
    La perdita di diversità di molti luoghi come quelli della chiesa o, ad un livello diverso, della scuola e l’evaporazione del connesso rigore comportamentale che al loro interno era richiesto, sono in molte realtà urbane il segno di questa omogeneizzazione spazio-temporale che produce i non luoghi.
    Il non luogo è uno spazio che non può definirsi né come identitario, né come relazionale, né come storico, ed è quello che in misura ragguardevole si sperimenta quando si viaggia in autostrada, quando si acquista una bevanda al distributore automatico o si preleva denaro al bancomat, quando si fa la spesa al supermercato o si sta aspettando all’aeroporto un volo.
    Questi citati, insieme ad altri, sono i non luoghi reali della surmodernità.
    Lo spazio che il giovane abita è in gran parte costituito da non luoghi e, quindi, non gli offre alcuna identità e non gli pone particolari richieste situazionali ma solo prescrizioni astratte e impersonali, che non sono in grado di connetterlo ad uno spazio oggettivo e lo lasciano in balia della sua soggettività e di quelle a lui più prossime.
    Ma accanto a questo limite il non luogo offre al giovane la possibilità di un incontro con la diversità al di fuori dei vincoli etnocentrici, di quelli del pregiudizio e degli stereotipi.
    Tuttavia, nonostante questa potenzialità, il non luogo rischia di essere lo spazio in cui le relazioni si costruiscono intorno all’alterità virtuale e, quindi, mettono in crisi l’identità delle persone.

    L’incontro virtuale con l’altro

    Occorre, infatti, ricordare a questo proposito che la vita delle persone è sempre più immersa nella “finzione”, nel mondo delle immagini prodotto dai mass media elettronici.
    Questa immersione sembra aver dilatato enormemente le conoscenze di cui sono in possesso le persone, mentre in realtà ha solo reso astratti gli oggetti del loro conoscere. [3]
    Infatti sempre più oggi si è convinti di conoscere, quando in realtà si è in grado solo di riconoscere.
    Solo perché una cosa la si è vista si pensa di conoscerla, come ad esempio accade nei confronti dei personaggi televisivi che la gente crede di conoscere ma che in realtà riconosce solamente, perché vedere non significa necessariamente osservare, comprendere e interpretare.
    Questa immersione nel regime della finzione massmediatica fa sì che si produca un indebolimento della capacità di rapportarsi all’altro, che è si visto ma che contemporaneamente è privato della sua realtà complessa e reso astratto in una immagine.
    Questa crisi della capacità di alterità mette in crisi anche l’identità delle persone che, come è noto, si nutre della dialettica identità/alterità.
    Alcuni studiosi osservano, sulla scia della lezione di Durkheim, nell’indebolimento della dialettica tra alterità e identità un fattore di produzione della violenza.

    VIVERE IN CITTÀ

    In questo quadro del dirompente sviluppo dell’urbanesimo a livello mondiale acquista ancora una maggiore rilevanza il tema delle condizioni e, quindi, della qualità della vita nelle città, specialmente in quelle di grandi dimensioni.
    La capacità di affrontare in modo positivo il nodo delle condizioni della vita umana nelle città appare essere decisiva per le sorti attuali e future dell’uomo moderno.
    Infatti i riflessi di questa esplosione urbana appaiono per ora catastrofici. Sovrappopolazione, crescita incontrollata, speculazione immobiliare, carenza di alloggi, traffico caotico, inquinamento, criminalità, devianza, emarginazione e insicurezza diffusa sono i nomi della catastrofe quotidiana che la vita della grande città propone ai suoi abitanti.
    Eppure, nonostante questo, specialmente per le persone più svantaggiate economicamente e socialmente la città, come dimostrano i dati, continua a esercitare un potere di attrazione molto forte.

    La città disuguale

    Da quanto sino ad ora detto emerge come la vita nella città sia un fatto complesso, in cui si intrecciano ostacoli e opportunità, disagi e agi. Questo si verifica però solo per le persone che hanno un inserimento sociale pieno, che hanno un lavoro, una famiglia e la possibilità di esprimere e soddisfare i loro diritti. Per le altre persone, invece, che non possono contare su questa pienezza di diritti, la città è un luogo di disagio e di emarginazione.
    Ma è anche nella stessa struttura urbana che le funzioni tipiche della città non sono distribuite in modo omogeneo. Infatti mentre nelle periferie i luoghi destinati alle funzioni produttive, di scambio, di socializzazione, ecc. sono scarsi, i centri storici rischiano di essere soffocati per l’eccesso di queste funzioni.
    Se a questo si aggiunge il fatto che sulla base di moderni criteri urbanistici le periferie sono state progettate come dei quartieri autosufficienti, senza però che questa scelta fosse coerentemente tradotta in pratica, si comprende perché queste stesse periferie siano in realtà isolate dal contesto di relazioni e di funzioni della città.
    Infatti il solo vero risultato prodotto da questa cultura urbanistica è stato la creazione di quartieri dormitorio o ghetto debolmente legati al resto della città.

    Centro periferia

    Calvino ha regalato alla nostra lettura il fascino e insieme la contraddizione delle Città invisibili. Non altrettanto generosa è questa complessa epoca, che presenta ai nostri occhi, come si è appena visto, una realtà di città ben diversa e poco comprensibile. Sono per lo più città invivibili, lontane dai loro cittadini e forse incapaci di tornare a essere “a misura d’uomo”. Abitate da chi non si riconosce più nel suo quartiere, da uomini che percorrono strade e piazze in modo anonimo, senza far memoria, da cittadini che non si sentono più parte della polis. Città fatte di periferie fittamente abitate, ma non vissute, e spinte sempre più ai margini. Sono città estese ben oltre le mura della città antica, ma se non esistono più torrioni o porte a delimitare quella che una volta era la cinta daziaria, nei fatti è come se la “cittadella” esistesse ancora: a chi arriva da fuori, dall’Est, dal Sud del mondo le città occidentali mostrano il lato peggiore di sé, inospitali fino a respingere “ai confini del regno”, capaci di accogliere solo chi accetta di vivere come cittadino “dimezzato” nei diritti.
    In questo orizzonte di complessità è necessario elaborare una riflessione, che aiuti a capire la città, ma anche a riappropriarsene.
    La categoria centro/periferia può essere utile per recuperare l’idea di una città a più dimensioni, che non si appiattisce come Moriana, città di calviniana memoria: “Da una parte all’altra la città sembra continui in prospettiva moltiplicando il suo repertorio d’immagini: invece non ha spessore, consiste solo in un dritto e in un rovescio, come un foglio di carta, con una figura di qua e una di là, che non possono staccarsi né guardarsi”.
    Ogni società – anche non complessa – ha un suo centro. Ora questa centralità non ha nulla a che fare con la geometria e pochissimo a che fare con la geografia. Perché è un centro che concerne il dominio dei valori e delle credenze, ovvero un centro simbolico. Se vogliamo, possiamo dire che ogni società è governata da un centro che è di tipo simbolico perché fa riferimento a valori e credenze.
    Il centro è centro perché rappresenta ciò che c’è di supremo, di più importante, di irriducibile in una società. E ha un archetipo molto antico che si ritrova nella rappresentazione del “centro sacro del mondo”.
    In tutte le culture arcaiche, nessuna esclusa, esiste un luogo – di solito una montagna, una roccia, una torre, un palazzo, un albero, un palo conficcato nel terreno – che rappresenta il centro sacro del mondo.
    Esso è il luogo in cui cielo, terra e inferi entrano in contatto; anzi, è l’unico luogo nel quale queste tre dimensioni del cosmo arcaico comunicano tra di loro.
    Normalmente cielo, terra e inferi sono separati: il cielo è il luogo del divino, dove dimora la divinità o le divinità; la terra è il luogo dell’uomo, dove domina la coscienza, la razionalità; gli inferi sono il luogo buio dove abitano i demoni, le anime dei morti, il mondo infero.
    Invece nel centro sacro del mondo, e lì soltanto, l’iniziato – normalmente lo sciamano, il medicine man, il sacerdote – può salire al cielo, incontrare la divinità, tornare sulla terra; può scendere agli inferi, incontrare i demoni, risalire in superficie. Il centro sacro del mondo era il centro delle strutture urbane della città di un tempo, ma non era presente solo nelle popolazioni stanziali. Anche gli aborigeni australiani quando viaggiavano portavano con sé un palo che alla sera conficcavano al centro dell’accampamento e che garantiva al loro spazio un senso.
    Questa concezione del centro, che è antichissima, sopravvive anche nelle attuali culture; ci sono studiosi infatti che ritengono che anche il modo attuale di concepire il centro – come centro sociale, come centro dei valori, delle credenze e dei sistemi simbolici che sorreggono e danno valore alla vita sociale – partecipi della natura del sacro, pur all’interno di società secolarizzate.
    C’è però da sottolineare come in una società complessa, più che di centro, si parla di una zona centrale che può essere formata da più centri. Infatti, il centro della società complessa ha una composizione eterogenea ed è differenziato proprio dalle funzioni, dai desideri e dalle credenze che le sue parti esprimono. E non di rado queste parti sono in conflitto tra loro per il predominio. In altre parole, in una società complessa il centro è costituito da una pluralità di centri che possono essere alleati, ma anche in conflitto e in competizione. Nessuno di questi centri è in grado di esprimere un’egemonia nei confronti degli altri, nel senso che in una società complessa ognuno possiede pari dignità con tutti gli altri. Ci sono centri che si alleano e diventano magari egemoni, ma dopo poco questa egemonia viene superata da nuove alleanze.
    Il centro è strutturato intorno a un sistema di valori e racchiude al suo interno una potenzialità di carattere ideologico. La potenzialità dinamica di una società è dovuta al fatto che la società normalmente vive al di sotto dell’ordine dei suoi valori centrali. Ha un proprio sistema di valori che è al centro, ma di norma vive a un livello più basso rispetto ad esso, non riesce a compierlo, a realizzarlo, a tradurlo. Ma proprio il fatto di vivere al di sotto di questo sistema di valori è ciò che crea una dinamica sociale: anzi è la dinamica sociale. Se le due posizioni coincidessero pienamente non si avrebbe nessun tipo di dinamica perché il sistema sarebbe perfettamente stabile, anzi in stallo.
    L’esistenza di questo sistema centrale di valori è dovuta a un’esigenza di base che gli esseri umani hanno: il bisogno di incorporarsi in qualcosa che trascenda e trasfiguri la loro esistenza individuale. Ogni uomo ha bisogno di identificarsi in qualcosa che trascenda, trasfiguri, nobiliti, arricchisca quella che è la sua esistenza quotidiana individuale. Ogni uomo sente la necessità di porsi in contatto con un ordine simbolico superiore rispetto all’angustia del proprio corpo e della propria vita, eccedente rispetto al mondo delle sue credenze.
    La necessità di trascendenza è una necessità fondamentale dell’essere umano. È la stessa che fa sì che neppure l’uomo realizzato possa rinchiudersi in se stesso, ma, ad esempio, avverta il bisogno dell’amicizia, il bisogno di qualcuno da incontrare. Questo rientra, in fondo, nella dinamica identità/alterità di cui si è parlato prima.
    Ma questo elemento di trascendenza è quello che fa sì che ogni società abbia comunque bisogno di un sistema di valori centrali che sono alla base. Ora, però, in una società la condivisione di questo sistema centrale è differenziata, cioè non tutti condividono in eguale misura i valori, le credenze, i modelli che il sistema centrale propone. Nella società complessa c’è una condivisione del centro molto più ampia di quanto sia mai accaduto in tutte le società del passato; ma nonostante questo esiste ancora un diverso grado di differenziazione, una diseguaglianza nella partecipazione al sistema di valori centrale dovuta alle professioni, alla tradizione, alla normale distribuzione delle qualità umane, agli antinomismi, a tutta una serie di fenomeni che differenziano la partecipazione. Questo significa che ci saranno certe persone più vicine (nel grado di condivisione) al centro, mentre altre ne saranno più lontane.
    Il centro quindi ha questo valore simbolico ed è il valore che struttura e costituisce una società, dunque, una città.
    Connesso a quello di centro c’è il concetto di periferia, che indica tutte quelle persone che hanno una condivisione minore del sistema centrale. Neppure la periferia va intesa o è individuabile in senso geografico, geometrico, fisico. Infatti, il centro può anche risiedere in periferia: ci sono periferie residenziali che sono centro a tutti gli effetti, pur essendo a volte anche molto distanti dal centro della città; proprio come ci sono quartieri centrali che sono periferia pur essendo fisicamente in pieno centro storico.
    Se il centro è un centro di natura simbolica, che non coincide con il centro fisico, anche la distanza che individua la periferia sarà di tipo simbolico. Le periferie sono cioè le zone più distanti in ordine alla condivisione dei valori, delle norme, degli stili di vita e dei modelli che caratterizzano il sistema centrale.

    Giovani tra periferia e città

    Proprio per questa distanza dal centro simbolico molti quartieri periferici nel nostro paese sono diventati per i giovani, se non luoghi ad alta probabilità di devianza e di emarginazione, perlomeno luoghi a bassa offerta di opportunità di autorealizzazione personale.
    A questo occorre aggiungere poi che spesso nelle periferie contemporaneamente urbanistiche e simboliche, non ci sono luoghi di aggregazione, giovanili e non, i servizi sono limitati per cui costringono chi ci abita a defatiganti pendolarismi. Ci si deve spostare per andare a lavorare, per studiare, per accedere ai servizi sanitari o a quelli amministrativi, per fare acquisti, per divertirsi o semplicemente per socializzare.
    Non è un caso vedere il sabato o la domenica ondate di giovani che dalle periferie si spostano nei centri storici delle grandi città alla ricerca di uno spazio urbano che offra loro quelle funzioni che la macchina per abitare in cui vivono non è in grado di produrre.
    Un’altra conseguenza della assenza di strutture urbane di relazione è la nascita dei cosiddetti gruppi informali di giovani che si formano nei quartieri e che si ritrovano in luoghi che non hanno alcuna caratteristica particolarmente utile alla socializzazione, se non quella di renderli identificabili nell’anonimo e monotono paesaggio urbano.
    Questo fa sì che questi luoghi siano i più disparati andando dai gradini di una chiesa (quando c’è), al muretto, al cassonetto dell’immondizia, al marciapiede di fronte al bar gelateria, ecc.
    Il risultato è quasi sempre una socializzazione povera fatta più di un tempo consumato nell’esclusivo stare insieme, che di un tempo produttore di crescita e, quindi, di vita.
    Questo tempo consumato è addirittura, per una minoranza di giovani, un tempo di disagio, in quanto segnato dalla distruttività di gesti che vanno dal vandalismo alla microcriminalità, passando in alcuni casi attraverso l’esperienza tossicomanica.
    In questi quartieri, poi, le varie generazioni che ne formano la popolazione non si incontrano se non all’interno delle reti parentali o di studio e lavoro.
    Non ci sono, infatti, né nella struttura fisica della città, specialmente in quella delle periferie, né soprattutto in quella culturale luoghi dello scambio intergenerazionale.
    Da questo insieme emerge con molta chiarezza come le moderne città del nostro paese non offrano pari opportunità a tutte le persone che abitano in esse, specialmente a quelle appartenenti alla fasce giovanili e collocate nella periferia simbolica.
    In questa complessità della città, in bilico tra sovrabbondanza di offerta di beni e servizi da un lato e di emarginazione da essi dall’altro, nascono i fenomeni tipici dell’odierna condizione giovanile dell’isolamento individuale e generazionale, della perdita del rapporto con lo spazio e dell’identità con il tempo della storia, della crisi della socializzazione nella sua dimensione formativa e, anche, della perdita del senso del mistero che rinchiude la presenza dell’uomo nello spazio e tempo nel mondo.
    In cambio ci sono quei servizi, se si vive in una città ben amministrata e sviluppata economicamente, che servono a sostenere il benessere materiale e magari psichico del giovane, accanto alla possibilità di avere un lavoro adeguato alla propria condizione professionale e all’accesso al banchetto opulento dei consumi.

    Il rischio città e la profezia della solidarietà

    Questi fenomeni che connotano il vivere in città, e che costituiscono il male non tanto oscuro che lo affligge, toccano profondamente la coscienza delle parti più sensibili della comunità locale che, in molti casi, ha raccolto la sfida e sta operando per dare una risposta sia nel breve che nel medio periodo a questi stessi fenomeni.
    Questo impegno si dispiega sia dal versante educativo nei confronti dei giovani, sia da quello delle attività a favore delle persone che vivono la marginalità urbana.
    Tuttavia questi segni di profezia, già numerosi ma spesso ancora al di sotto dell’effettiva potenzialità della comunità locale, debbono essere sostenuti da una azione che coinvolga l’intera popolazione, le strutture economiche, quelle sociali, culturali, educative e politiche e che inneschi e produca quella che potrebbe essere definita come una vera e propria rifondazione della città.
    Si tratta, in altre parole, di operare concretamente per trasformare la città da macchina che produce funzioni in luogo di incontro di uomini in cammino dentro una storia il cui senso, pur appartenendo alla loro vita, la trascende.
    Questo significa la creazione di una rete di rapporti umani in cui possano giocare un ruolo fondamentale sia l’esercizio della solidarietà dei cittadini, singoli e associati, all’interno dei vari luoghi in cui si svolge la vita quotidiana, sia la costruzione di un’identità culturale in grado di aiutare le persone a percepire la loro storia individuale come appartenente alla storia comune delle altre persone con cui condividono lo spazio-tempo della città che abitano.
    In altre parole, questo richiede un lavoro educativo nella comunità locale al fine di far nascere la consapevolezza che i mali della città nascono dai guasti provocati dai modelli di convivenza presenti al suo interno e dalla perdita della coscienza di appartenere ad una “storia”. Questa consapevolezza deve generare però la convinzione che è possibile eliminare questi mali modificando sia i modelli di convivenza sociale sia ridando un senso storico all’agire quotidiano delle persone.

    L'ANIMAZIONE DELLA STRADA E DELLA PIAZZA COME FRAMMENTO DI UN IMPEGNO GLOBALE DI TRASFORMAZIONE DELLO SPAZIO URBANO

    Da quanto detto intorno all’attuale condizione urbana si capisce perché nell’immaginario degli educatori la strada e la piazza abbiano assunto quei connotati negativi descritti all’inizio e perché ritengano indifferibile l’affrontamento di questo spazio urbano in chiave educativa. Ma anche come questo nuovo impegno educativo sia una parte importante anche se niente affatto esclusiva di quello più globale della comunità locale verso la città.
    In altre parole, questo significa che l’educazione nelle strade e nelle piazze delle nuove generazioni dovrebbe essere pensata e progettata all’interno di un’azione più vasta di riqualificazione del tessuto urbano.
    Infatti il rendere abitabile dai bambini, dai ragazzi, dagli adolescenti e dai giovani lo spazio urbano non può essere prodotto solo dall’effetto delle attività educative che vengono promosse a favore delle nuove generazioni, perché richiede una trasformazione urbanistica e sociale più profonda e generale, a cui le stesse attività educative possono dare un importante contributo ma che comunque è sempre parziale.
    Fatta questa doverosa precisazione si può passare a individuare quale possa essere l’azione educativa dell’animazione culturale dei giovani nelle strade e nelle piazze, tenendo conto che il luogo privilegiato di questa animazione è costituito dai gruppi informali che i giovani hanno spontaneamente formato intorno al “muretto”, al bar, alle sale giochi, ecc.
    Gli obiettivi che l’animazione può perseguire nei confronti dei giovani che trascorrono il loro tempo nelle strade e nelle piazze sono fondamentalmente quattro:
    – costruire all’interno dei gruppi informali, in cui i giovani si aggregano nella strada, uno spazio educativo atto a sostenere la conquista di una identità personale radicata nella loro storia personale e sociale, che consenta loro di pensare alla propria vita come un progetto dotato di un senso non contingente;
    – riconnettere lo spazio del gruppo informale allo spazio sociale, attivando uno scambio che consenta agli stessi giovani un più accentuato protagonismo e, quindi, una loro partecipazione più attiva e soddisfacente sia alla trasformazione che alla gestione della vita sociale;
    – ristrutturare e riqualificare il controllo educativo del territorio da parte degli adulti;
    – attivare una comunicazione più efficace tra periferia e centro.

    Fare del gruppo informale un luogo educativo

    La trasformazione del gruppo informale in un luogo educativo richiede all’animatore di strada tre azioni specifiche, che potrà mettere in atto però solo dopo essere riuscito a far accettare la sua presenza, periodica e non continua, da parte della maggioranza dei membri del gruppo.
    Il farsi accettare, superando con tenacia e creatività il rifiuto, la diffidenza e l’ostilità del gruppo, è l’azione più delicata e importante dell’animazione di strada. Infatti una volta che la presenza dell’animatore è accettata dal gruppo, l’animazione di questo diviene una sorta di conseguenza naturale.
    La prima azione è relativa al far acquisire al gruppo uno scopo ulteriore rispetto a quello dominante di luogo di consolazione e confronto sugli aspetti problematici del vivere e/o di sperimentazione di modelli comportamentali innovativi o trasgressivi, in luogo di potenziamento dell’identità di genere e di prima sperimentazione di ruoli e valori tipici della società adulta.
    In altre parole, questo significa che il gruppo deve divenire un luogo in cui giovani si confrontano rispetto alle “richieste” del mondo adulto veicolate dall’animatore. Non solo il luogo, quindi, in cui essi si separano dagli adulti, ma quello in cui mettono a punto, attraverso un confronto serrato, il loro modo di rapportarsi con lo stesso mondo adulto.
    La seconda azione, invece, è quella di incrementare e di rendere autentiche le interazioni tra i membri del gruppo sottraendole al ritualismo e al mascheramento che caratterizza il loro svolgimento all’interno della maggior parte dei gruppi informali.
    Questo avviene perché, nonostante le mitologie dei “ragazzi del muretto”, questo tipo di aggregazione è ben lungi dall’offrire uno spazio di autenticità, in quanto il modo interagire dei suoi singoli membri dipende fortemente dalla necessità di non ridurre la funzione di protezione e di rassicurazione che essa offre. Si tratta di un gruppo in cui la paura della perdita dell’unità del gruppo fa sì che le persone indossino le maschere di sé che sanno essere gradite agli altri.
    La terza azione consiste nell’aiutare i giovani ad allargare la temporalità dal presente al passato e al futuro, ovvero aiutandoli ad aprire la loro coscienza al tempo noetico.
    Per fare questo l’animatore deve per prima cosa offrire loro memoria viva attraverso sia il raccontare storie, sia l’aiutarli a scoprire che il luogo in cui essi si incontrano e da cui si dipartono molti dei sentieri lungo cui si sviluppa il cammino della loro vita è intessuto di una storia che condiziona, anche se non lo sanno, il loro presente.
    Per seconda cosa l’animatore deve risvegliare negli stessi giovani la capacità di sognare, ovvero di vivere il presente come una promessa di futuro. Il miglior modo per aiutare i giovani a fare sogni veri, e a farli fuggire da quelli distruttivi delle allucinazioni e delle fantasticherie, è quello di far toccare loro con mano che i loro sogni possono diventare realtà attraverso l’acquisizione della capacità di essere protagonisti.
    Queste tre azioni sono, di fatto, gli ingredienti essenziali di ogni animazione di gruppo che debbono essere sempre attuate, se si vuole evitare che l’animazione di strada diventi la mistificante attività di adulti che non sanno dialogare con i giovani se non facendosi simili ad essi, ovvero mettendosi le “brache corte”.

    Riconnettere lo spazio del gruppo informale allo spazio sociale

    Il protagonismo nella dimensione educativa dell’animazione assolve a due importanti funzioni. La prima è quella di aiutare il giovane ad uscire dal grembo protettivo del gruppo informale per affrontare in modo attivo lo spazio sociale che abita. La seconda, come già accennato, è quella di far scoprire che niente è più di aiuto alla vita quotidiana di un sogno, a condizione però che esso sia un sogno vero.
    Per questo motivo l’animatore di strada deve operare al fine di rendere lo spazio del gruppo un luogo di protagonismo prima all’interno del mondo vitale e dopo del sistema sociale.
    Dove il protagonismo consiste nel fare acquisire al gruppo degli obiettivi relativi alla realtà personale e sociale dei suoi membri, a mettere in campo le risorse e le azioni necessarie al loro raggiungimento e ad agire negoziando e componendo verso una direzione comune le differenze tra le persone che partecipano all’azione.
    Gli obiettivi del protagonismo possono essere i più disparati e spaziare, ad esempio, dal dare vita a una squadra di calcio che partecipa ad un torneo, alla rivendicazione di un centro di aggregazione per i giovani del quartiere.
    La funzione educativa del protagonismo consiste, infatti, nel far scoprire ai giovani la capacità di trasformare i loro sogni in realtà, aiutandoli a scoprire sia le risorse di cui sono portatori sia le vie che debbono percorrere per acquisire il potere necessario a rendere i sogni una realtà.
    Questo significa aiutare i giovani a progettare, a negoziare con la realtà sociale interna ed esterna al gruppo, e soprattutto a scoprire che il futuro non è la proiezione del presente.

    Ristrutturare e riqualificare il controllo educativo del territorio da parte degli adulti

    L’animazione di strada non consiste solo nell’azione verso i giovani dei gruppi informali, ma anche in un’azione verso le agenzie e le istituzioni educative presenti nella realtà locale in cui si opera.
    È necessario operare perché il mondo adulto, nel suo versante della responsabilità educativa, riscopra il territorio che abita come un luogo educativo al di là di quello costituito dalle isole, più o meno felici, in cui viene svolta, o dovrebbe essere svolta l’educazione.
    Questo significa che l’animatore deve operare per costruire una rete educativa che renda il territorio urbano non uno spazio vuoto ma un luogo civilizzato, ovvero un luogo in cui si manifestano e sono presenti i valori, gli stili di vita, le idee, le opportunità che caratterizzano una determinata cultura sociale.
    Questo significa il lavorare per coinvolgere le varie agenzie educative in particolare e il mondo adulto in generale in un progetto integrato, in cui ogni soggetto, pur nell’autonomia e nella libertà propria, condivide con gli altri alcune iniziative per rendere il territorio uno spazio socialmente controllato e in cui il mondo adulto è presente in positivo per offrire al mondo giovanile una promessa di vita e di educazione.

    Attivare una più efficace comunicazione periferia-centro

    Una società equilibrata è una società che stabilisce una comunicazione dialogica tra centro e periferia. Infatti in una società vitale si ha sia una comunicazione centro-periferia, che tende normalmente a dare stabilità al sistema sociale e culturale, che una comunicazione periferia-centro, che ha la funzione di trasformare, di innovare il sistema.
    Il primo movimento, che dà stabilità e coesione, consiste nella diffusione del sistema di valori centrale verso la periferia; il secondo, che impedisce al sistema di morire di entropia, manifesta la capacità del sistema di veicolare i valori, gli antagonismi, le situazioni della periferia verso il centro. Un sistema sociale equilibrato, che sa cambiare senza tradire la propria identità, è quello in cui sono in equilibrio le due direzioni della comunicazione centro-periferia.
    Infatti, quando manca il movimento periferia-centro il sistema tende alla conservazione, mentre quando manca la comunicazione centro-periferia il sistema va incontro a una fase rivoluzionaria, di radicale trasformazione.
    Ma nel sistema può verificarsi una terza funzione, quella svolta “dall’arrivo dei barbari”. Nella società il confine può essere solcato da elementi culturali estranei ed esterni alla società, che arrivano o vengono portati all’interno. È la forma di trasformazione più radicale perché trasforma il sistema culturale e sociale introducendo l’elemento “forestiero”. La trasformazione radicale di una società si ha sempre solo per “imbarbarimento”, non nell’accezione negativa del termine, ma nel senso che elementi esterni vengono portati all’interno del sistema culturale. Questa terza funzione è controllata se entrambe le funzioni precedenti esistono (in tal caso, ci sono i “doganieri”, coloro che regolano gli ingressi); se invece il sistema non è equilibrato e le due funzioni centro-periferia e periferia-centro sono indebolite, l’impatto con l’elemento proveniente da fuori avviene in modo incontrollato, non è più sottoposto a nessun tipo di controllo.
    Un’azione di animazione di strada, e quindi alla periferia di un sistema sociale, implica due azioni complementari: un’azione di comunicazione centro-periferia, cioè di veicolazione di valori e modelli che sono tipici del centro del sistema, e contemporaneamente un’azione periferia-centro, che aiuti le persone a esprimere i valori e modelli anche alternativi di cui sono portatrici facilitandone la veicolazione verso il centro del sistema.
    È una doppia azione: da un lato un’azione di stabilizzazione, dall’altro un’azione di innovazione. I due momenti non sono scindibili e fondamentalmente corrispondono alle due componenti tipiche di ogni lavoro educativo: una componente di contenimento e quindi l’offerta di un sistema di valori che contenga l’espressione delle persone, e una componente di espressione che incoraggi la capacità delle persone di sviluppare le tendenze di cui sono portatrici.
    La dinamica centro-periferia corrisponde dunque alla dinamica espressione-contenimento che è alla base di ogni forma educativa. Ogni forma educativa si basa su questo tipo di rapporto: da un lato l’offerta di norme, di codici, di valori che devono dare forma al tuo agire, dall’altro l’aiuto a esprimere ciò che di originale, di innovativo, di nuovo c’è in te. Quando domina il contenimento rispetto all’espressione si ha l’autoritarismo; quando domina la sola espressione sulla capacità di contenere si hanno forme di libertinaggio. L’educazione è un delicato equilibrio tra queste due istanze.
    Non solo. L’animazione attraverso il protagonismo del gruppo deve sostenere i giovani delle periferie nel riappropriarsi della propria voce, facendo in modo nello stesso tempo che essa aumenti la probabilità di raggiungere il centro del sistema sociale e culturale.

    Conclusione

    Quelle accennate sono le funzioni essenziali di un lavoro di animazione culturale di strada. Come si vede, esse sono diverse da quelle di “bassa soglia” centrate quasi solo sull’accompagnamento dei ragazzi e degli adolescenti.
    Ora, senza voler sottovalutare il lavoro di bassa soglia, si deve riconoscere che esso ha una funzione assai parziale perché non è in grado di attivare una transizione dei giovani verso una realizzazione di sé che, aiutandoli a divenire più centrali nel sistema socioculturale, li metta in grado di realizzare più compiutamente la loro umanità personale e, quindi, renda poco probabile il loro coinvolgimento in percorsi di disagio o peggio di esclusione/devianza.
    L’animazione di strada autentica dovrebbe, invece, essere produttrice di un processo che renda i giovani, e la periferia urbanistica e sociale che abitano, protagonisti di una azione sociale orientata verso il cambiamento sociale evolutivo/innovativo.
    Questa è un’utopia, ma come si sa nessun vero e autentico cambiamento sociale e culturale della città può nascere se nella stessa città, pur in quartieri periferici, non abitano la speranza e l’utopia.
    Non per nulla l’etimologia della parola animazione rimanda al significato di dare anima e vita e, quindi, animare la strada vuol dire a dare anima alla strada e alla città. Una corretta animazione di strada deve perciò essere nello stesso tempo realistica e aperta all’utopia, oltre che fondata su un progetto professionalmente e culturalmente evoluto.

     

    NOTE

    [1] Fondazione LABOS & Ministero dell'Interno, La gioventù negata, TER, Roma 1994.

    [2] Augé M., Non luoghi, Elèuthera, Milano 1993.

    [3] Augé M., La guerra dei sogni, Elèuthera, Milano 1998.


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