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    Chiamati all’identità di figli di Dio


    Carlo Molari

    (NPG 2002-04-29)

     

    Ogni chiamata o vocazione particolare si inserisce in un progetto che ha un orizzonte più ampio. È cioè un momento della chiamata fondamentale alla vita, che, in prospettiva cristiana, è la vocazione ad acquisire «il nome scritto nei cieli» (Lc 10,20), a diventare figli di Dio. L’identità definitiva della persona umana non deriva dalle risposte alle chiamate particolari, anche se di fatto si realizza attraverso di esse, bensì si costruisce rispondendo alla vocazione fondamentale. Essere ingegneri o avvocati o vescovi, essere moglie o marito, padre o madre non determina la forma compiuta delle persone o le qualità specifiche dei figli di Dio. La vocazione fondamentale, che attrae o spinge le persone al loro compimento, riguarda l’immagine e la somiglianza della perfezione divina, che esse sono chiamate a realizzare. Ciò che una persona diventa in questa dimensione non dipende da ciò che fa, bensì dalla ricchezza vitale che interiorizza e comunica attraverso la propria attività. Il traguardo finale è raggiunto attraverso le risposte concrete date nelle situazioni particolari dell’esistenza, ma la risposta fondamentale alla vocazione della vita ha una propria autonomia e può essere formulata nelle situazioni più disparate. Le chiamate storiche sono quindi funzionali alla risposta fondamentale che tutti siamo sollecitati a formulare, diventando persone compiute. Per coloro che credono a una vita futura il compimento raggiunto nella morte è il preludio di un’altra dimensione di esistenza. Essa è la ragione finale della chiamata alla vita. Di per sé tuttavia, anche se non vi fosse una continuità della persona oltre la morte, come per molto tempo gli ebrei hanno pensato, e come ancora al tempo di Gesù alcuni suoi autorevoli contemporanei sostenevano, il rapporto tra chiamate particolari e vocazione fondamentale conserverebbe tutto il suo valore.
    Per i cristiani, quindi, che credono nella vita futura e nella risurrezione, diventare figli di Dio oltre al risvolto storico ne ha anche uno trascendente. Il risvolto storico è giungere ad acquisire nel tempo l’immagine e la somiglianza divina, in modo da rivelare Dio con la propria esistenza. Il risvolto trascendente invece è costituito dalla forma di vita che la persona assumerà dopo la morte o nella risurrezione. Siccome però nell’attuale fase di esistenza non possiamo sapere nulla della vita futura, l’unica possibilità che ora abbiamo è quella di riflettere sulle connessioni esistenti fra le chiamate particolari e la vocazione fondamentale alla vita per coglierne le dinamiche interne e le esigenze operative.

    Identità dinamica

    Alla nascita la persona è un complesso di possibilità vitali, risultato di molteplici apporti genetici, psichici e culturali molto vari, spesso disarmonici e casuali. In loro virtù la persona può pervenire a sbocchi diversificati secondo le esperienze, le scelte, le circostanze dell’esistenza. Quando nasciamo quindi siamo divisi e incompleti e non abbiamo una consistenza personale definitiva. Siamo divisi, perché le diverse componenti della persona, non ancora armonizzate, coesistono e operano in modo caotico e frammentario. Siamo incompleti, perché non possediamo ancora tutti gli elementi che ci consentono di esistere in forma autonoma e definitiva. Per questo la persona non è già costituita all’inizio del cammino nella sua l’identità, ma assume le sembianze definitive solo alla fine. La realtà personale come noi la percepiamo e che gli altri incontrano è ancora quella provvisoria e in processo.
    La crescita e l’identificazione della persona avvengono in modo progressivo e continuo attraverso eventi quotidiani, esperienze e relazioni, che annullano alcune possibilità e ne attualizzano altre. Tutte le scelte comportano la capacità di subire perdite, che anticipano in qualche modo l’esperienza e l’angoscia della morte. Ogni decisione, perciò, qualifica la persona secondo una particolare modalità, vanificando molte altre possibili identità.
    Per completare la breve analisi del processo di identificazione, occorre tenere presente un altro aspetto. Finché la personalità non è consolidata, l’uomo si identifica attraverso realtà a lui esterne: il luogo di origine, la data di nascita, i genitori, la residenza, la professione, ecc. Questi elementi sono tutti estranei al soggetto anche se ne condizionano pesantemente lo sviluppo personale. Crescere come persona richiede l’abbandono progressivo dei riferimenti estrinseci di identità e l’acquisizione della propria forma personale fissata dall’interiorità. Per questo maturare esige la capacità di fare a meno di tutti i riferimenti esteriori di identificazione, per diventare semplicemente se stessi. L’identificazione personale attraverso l’osmosi dei molteplici doni ricevuti e custoditi come alimento della propria tensione vitale si conclude con la morte. Essa ci chiederà di avere acquisito in modo completo e definitivo il nostro nome, da saperlo abitare senza necessità di altri riferimenti. L’energia vitale che inizialmente assume forma materiale, attraverso tappe progressive si configura come realtà spirituale. Il processo di crescita è un vero cammino di identità: si nasce natura e si diventa persona, si nasce materia e si diventa spirito.
    Non possiamo però descrivere o immaginare la forma che la persona avrà al termine del processo: ci è dato solo individuare le dinamiche e le condizioni che consentono il compimento del cammino.
    In primo luogo l’identità personale si sviluppa nelle situazioni concrete dell’esistenza. Non occorre perciò fuggire le esperienze quotidiane, perché attraverso di esse si realizza l’armonia tra le diverse componenti della persona. Perché questo avvenga è necessario però imparare a gestire le dinamiche interiori in modo da saper accogliere l’offerta di vita che viene rinnovata in ogni situazione.
    In secondo luogo il processo di crescita avviene nella progressiva semplificazione della struttura interiore. La dimensione spirituale poggia sulla complessità biologica e psichica del soggetto, ma si sviluppa attraverso una semplificazione che rende tutto il soggetto trasparente e semplice, cioè senza pieghe interiori. Lo sviluppo personale è perciò rilevabile dalla chiarezza interiore, che scaturisce dal di dentro e ha riflessi sempre più ampi.
    Questi criteri non riguardano solo la persona ma l’umanità intera. Questa nostra specie umana, che in circa 100.000 anni da quando le prime coppie hanno mosso i loro passi forse dall’Africa Centro Orientale, ha preso il dominio della terra eliminando gli esseri preumani, ora per la prima volta sta acquisendo una forma planetaria di organizzazione sociale, che incide profondamente nelle modalità di esistenza. Il cambiamento che oggi l’umanità sta vivendo non è solo esteriore e organizzativo, bensì anche psichico e spirituale.

    Identità relazionale

    Come la crescita della persona avviene attraverso le relazioni e le esperienze, così lo sviluppo della specie si realizza attraverso i rapporti tra i popoli, tra le culture e le religioni. Il loro dialogo consente scambi di acquisizioni vitali, culturali e spirituali, che elevano il livello della perfezione umana e consentono manifestazioni inedite della forza creatrice di Dio. Il Concilio Vaticano II, che nella Costituzione pastorale ha avvertito la necessità di presentare un abbozzo di antropologia in una prospettiva dinamica e unitaria, scrive che l’uomo può «divenire più uomo» (GS 41) e raggiungere la sua identità piena attraverso i rapporti. «L’uomo, infatti, per sua intima natura è un essere sociale, e senza i rapporti con gli altri non può vivere né esplicare le sue doti» GS 12). La stessa convinzione appare nel Catechismo degli adulti della CEI quando parla dell’origine di ogni uomo. Vi si dice che l’uomo «nasce, si trasforma e muore come gli altri esseri della natura. Può ricevere la vita solo a frammenti». Egli, infatti, «partecipando a un processo evolutivo globale», «non viene alla luce come una realtà ben definita e compiuta, ma come un progetto da portare a compimento, con la sua stessa libera cooperazione»; per questo «riceve e trasmette la vita in un tessuto di relazioni».
    Nella prospettiva delineata ogni persona è in divenire per acquisire la propria identità, all’interno di un processo più ampio che coinvolge tutta l’umanità e il cosmo intero. La consapevolezza di appartenere ad un processo cosmico e storico deve accompagnare le scelte di ogni persona per evitare il rischio di misurare tutto con il metro dei propri ritmi e di dimenticare che il criterio delle scelte storiche è il divenire spirituale dell’umanità intera. La difficoltà della consapevolezza del processo di crescita della società umana deriva dal fatto che i suoi ritmi sono molto più lenti di quelli personali.
    Come la fede in Dio possa inserirsi nell’esperienza della crescita personale e nella valutazione dello sviluppo dell’umanità, può apparire dall’analisi del suo valore nel cammino della persona.

    Dio chiama ogni uomo a diventare figlio

    La fede in Dio implica due elementi complementari. Il primo è la convinzione che il Bene, la Verità, la Vita esistono già in una forma compiuta, che non possiamo conoscere nella sua realtà e che chiamiamo Dio. Egli con la sua azione rende possibile lo sviluppo della creazione, il processo della storia e la crescita delle persone. Il secondo elemento costitutivo della fede è l’atteggiamento di accoglienza dell’azione creatrice, che a livello umano consente l’interiorizzazione dei doni vitali, offerti nelle varie situazioni della vita. In questa prospettiva la vocazione si configura come chiamata all’identità di figli di Dio e le risposte, che la persona formula di mano in mano, acquistano un carattere sacro.
    Dobbiamo però riconoscere che le formule del linguaggio corrente a questo proposito sono molto ambigue. Spesso, infatti, si concepisce la chiamata di Dio alla stregua delle azioni create. Come se Dio ci facesse pervenire la sua voce o i suoi desideri espressi in forma umana. Mentre tra le persone umane i rapporti si sviluppano dall’esterno, ma tra Dio e gli uomini le cose procedono diversamente.
    Dio infatti è creatore e la sua azione resta sempre creatrice: Egli fonda e costituisce le persone e le cose dal di dentro o dal profondo. Inoltre quando Dio opera non cambia, perché è già la pienezza e la perfezione completa. Egli opera incessantemente anche se noi accogliamo la sua azione solo in modo parziale e successivo. In questo senso sono comprensibili le affermazioni di Teihard de Chardin: «La creazione... non è una intrusione periodica della Causa prima: è un atto coestensivo a tutta la durata dell’universo». Perciò «là dove Dio opera, a noi è sempre possibile (restando a un certo livello) di non cogliere se non l’opera della natura. La causa prima non si mescola agli effetti: egli opera sulle nature individuali e sul movimento d’insieme. Dio propriamente parlando non fa le cose, ma fa che le cose si facciano». Con K. Rahner possiamo concludere: Dio «non opera qualcosa non operata dalla creatura, né si affianca all’agire della creatura: rende solo possibile alla creatura superare e trascendere il proprio agire». «Le vicende e gli eventi di un ente finito stanno continuamente sotto la pressione (se così possiamo dire) dell’essere divino. Tale pressione non rientra nei costitutivi essenziali di un esistente finito, però può farne sempre qualcosa di più di quanto esso sia in sé o farlo propriamente diventare quel che è».
    Poiché l’azione creatrice di Dio emerge nel processo cosmico ed è efficace nella storia solo diventando creatura, la persona umana cresce e acquista la sua identità esclusivamente attraverso rapporti con creature. La chiamata di Dio, perciò, non sta davanti a noi in forma divina, ma si presenta in modo creato e diventa progressivamente la nostra risposta. La chiamata, risuonando in noi, diventa desiderio, tensione interiore e infine scelta. Solo allora la chiamata alla Vita si configura in modo chiaro. Noi diventiamo concretamente la chiamata di Dio, quando cresciamo nella fedeltà alla sua Parola. Acquistiamo la nostra identità di figli di Dio dando forma compiuta alla sua chiamata.

    Comunità creative

    La fedeltà alla vocazione divina sta quindi nella modalità con cui diventiamo figli attraverso le molteplici esperienze dell’esistenza. Secondo la legge dell’incarnazione la chiamata di Dio ci perviene sempre in forma creata e quindi attraverso creature. La nostra struttura personale è il primo ambito creato attraverso cui fiorisce la chiamata divina. Ma la nostra struttura personale non fiorisce se non attraverso il dono di vita che gli altri dal primo momento dell’esistenza ci rinnovano continuamente. Per questo la riflessione sulla vocazione non può prescindere dalle comunità di appartenenza e dalle testimonianze che essa offre.
    Da questo statuto specifico della vocazione derivano diverse conseguenze, che devono essere tenute presenti.
    La prima è che la vocazione divina non è mai compiuta nella sua proposta finché non lo è la risposta. Esprimendosi infatti attraverso creature, la vocazione nelle sue prime espressioni si presenta in forme embrionali e incompiute. Solo nella morte la chiamata di Dio sarà chiara, perché solo allora la nostra risposta sarà definitiva. Il tempo perciò è un fattore essenziale nello sviluppo, non solo della risposta bensì anche della stessa vocazione. L’attenzione del chiamato perciò deve rivolgersi alla Parola di Dio che risuona attraverso gli eventi e le esperienze in modo continuo, così da farla risuonare nella propria vita come indicazione di cammino.
    Una seconda conseguenza riguarda il rapporto tra risposte storiche alla chiamata di Dio e la morte.
    Siccome la nostra realtà personale si compie nella morte, la risposta definitiva alla chiamata possiamo formularla solo nella morte. Tutte le risposte date lungo il cammino dell’esistenza sono anticipazione e preparazione alla risposta definitiva che saremo in grado di dare nella morte.
    Una terza conseguenza importante riguarda la funzione delle comunità in ordine alla vocazione di Dio. È necessario che si sviluppino comunità vive e fedeli: famiglie, gruppi sociali, città, popoli, che facciano risuonare le parole di Dio e diffondano gli atteggiamenti favorevoli alle irruzioni delle novità divine.
    La quarta conseguenza è la necessità di un’attenzione continua per ascoltare la parola che chiama e per rispondere alle sue nuove espressioni. Gli atteggiamenti che consentono l’ascolto/accoglienza della Parola in termini cristiani sono espressi nelle tre virtù teologali: la fede, la speranza, l’agape.
    La fede per cui riconosciamo la Parola di Dio risuonata nel storia passata e l’accogliamo come criterio per discernere il presente, consapevoli che la Vita, il Bene, la Verità sono molto più ricchi delle piccole realtà create.
    La speranza per cui possiamo attendere lo Spirito nelle sue irruzioni e consentire al futuro di irrompere come novità di vita. Dio rende possibile il nuovo attraverso le creature. Ma essendo inseriti in un processo che ha ritmi molto diversi da quelli della nostra esistenza, non possiamo valutare i tempi del futuro con la misura delle nostre attese.
    L’agape è forza di diffusione della vita, la spinta che introduce novità. È il Bene che cerca di diventare in noi amore e ci rende consapevoli di essere pallido riflesso di un Immenso, le cui risorse sono senza limiti.
    Imparare a immergerci nel presente, l’ambito dove si svolge l’avventura della Vita, è consentire a Dio di rivelarsi nei piccoli frammenti della nostra storia, è diventare risposta vivente alla sua chiamata.


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