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    Ascolto


    «Ascolta Israele»

    Carmine Di Sante

    (NPG 2002-04-2)



    «Ascolta Israele»: così inizia la preghiera più importante dell’ebraismo presa dal capitolo 6 del Deuteronomio. Ripetuta quotidianamente, collocata al centro della liturgia sinagogale e incastonata da diverse preghiere di benedizione, il testo recita integralmente: «Ascolta Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do ti stiano fissi nel cuore; li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando sarai seduto in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte» (Dt 6, 4-9).

    Ciò che Dio comanda ad Israele, cioè all’uomo, ad ogni uomo, essendo Israele, per la bibbia, il rappresentante dell’umano, è di ascoltare: «Ascolta Israele», shema Israel, in ebraico. Scrive Pinchas Lapide: «Questo indiscusso fondamento della fede di tutti gli ebrei è in fondo il cuore della vita di Israele, dal cui battito ogni cosa riceve il suo pulsare. È la prima parola della Bibbia che, a quattro anni, ogni bambino impara a memoria sulla ginocchia del padre e che, tre volte al giorno, apre e chiude la liturgia della sinagoga; ed è l’ultima parola che esce dalla bocca dei morenti. Per il credente non si tratta qui di grandi affermazioni di natura teologica, ma del mistero che contiene la chiave di tutta la realtà che sperimentiamo» (Predicava nelle loro sinagoghe. L’esegesi ebraica dei vangeli, Paideia, Brescia 2001, p. 95).
    È sorprendente che ciò che Dio comanda è l’ascolto: non guardare, non contemplare, non pensare, non amare, non leggere, ma ascoltare che, come vuole Lapide, per Israele è «il fondamento indiscusso» dell’umano. Narra Baal Shem Tov (la più grande figura spirituale dell’ebraismo polacco del 1700 e fondatore del movimento chassidico moderno) che «un musicista suonava uno strumento bellissimo e la musica rapiva il popolo a tal punto che esso era spinto a danzare esteticamente. In quel mentre un sordo, che non sapeva nulla della musica, passò accanto e scorgendo l’entusiastico danzare del popolo decise che dovesse essere tutto matto. Se fosse stato saggio avrebbe intuito la loro gioia e il loro rapimento e si sarebbe unito alle danze». Per Baal Shem Tov il mondo non è una landa deserta dove, per sopravvivere, l’uomo si ritaglia uno spazio su misura, ma una musica da ascoltare che invita alla gioia e alla danza. Di qui l’importanza dell’ascolto, il secondo grande segnavia dopo quello del silenzio. Questo, «il riparo» nel quale l’io può rifugiarsi in ogni momento e rimanervi a suo agio, non è il luogo dell’interiorità dove tutto tace, ma il luogo dove risuona una voce, la più suadente e convincente, che è dentro l’io e che dell’io è il segreto stesso.
    Un’antica leggenda popolare indiana narra che un giorno una piccola capra si lasciò «sedurre dalla scoperta di un misterioso profumo, insieme vicino e lontano. Da allora la vita del giovane animale divenne un errare incessante e ansioso, ma senza che riuscisse mai a trovare la sorgente da dove emanava lo strano e delizioso profumo. L’ultimo capitolo della sua esistenza fu purtroppo, una tragedia: sempre più affascinata da un’attrattiva segreta, la piccola capra finì per cadere in un precipizio cercando il suo tesoro. Ed è allora che, nel corpo aperto dalla caduta, apparve un sacchetto strappato che spandeva il suo aroma in questo luogo di morte» (in E. Costa, La preghiera respiro della vita, Edizioni ADP, Roma 1988, p. 18). La lezione della storia è chiara: ciò che cerchiamo, il profumo «strano e delizioso» della vita che ci attrae e per il quale siamo disposti ad attraversare deserti e mari, non si trova lontano dall’io ma dentro l’io, nella sua parte più segreta e personale.
    Ciò che la storia indiana esprime con la metafora dell’aroma, la tradizione ebraico-cristiana traduce, più propriamente, con il simbolo personale della voce – la voce di Dio o della coscienza – che, in quanto voce, può essere solo ascoltata: «Ascolta Israele». Al fondo dell’io, al di là delle maschere e dei ruoli che egli assume o che la società gli fa assumere, nella sua stanza più intima, l’io si scopre alla presenza di una voce che gli parla: non la voce dell’io ideale e autentico, che, come vuole Heidegger, si nasconde e parla al di là dell’io inautentico dell’apparenza e della chiacchiera; non la voce dell’inconscio che, come vuole la psicologia junghiana, è a monte del logico e del razionale, e del logico e del razionale è l’humus stesso; non la voce della memoria collettiva e del passato che, come vogliono gli antropologi culturali, si sedimentano e tramandano in archetipi e modelli difficilmente modificabili; bensì la voce di un’alterità irriducibile che, altra dall’io e assoluta, cioè slegata e svincolata dall’io, si rivolge all’io e chiede all’io l’ascolto incondizionato: «ascolta Israele».
    Facendo dell’ascolto un imperativo, la bibbia insegna che, per l’uomo, la cosa prima e più importante non è cercare e scoprire Dio o l’Assoluto, per poi rivelarlo, testimoniarlo, pensarlo e dimostrarlo o, nella pretesa nichilista, negarne la razionalità e il fondamento, come è avvenuto nella tradizione filosofica moderna, bensì accorgersi della sua presenza e ascoltarlo, mettendo a tacere la propria voce e le voci esterne per fare spazio alla sua voce. Di fronte a Dio conta solo la sua voce e, da parte dell’uomo, il silenzio che l’accoglie e vi assente. A Dio non si accede attraverso lo sforzo mentale e razionale, ma attraverso la formazione al silenzio, come insegna il poeta di un altro salmo il quale, nell’interpretazione che ne dà Maimonide nella Guida dei perplessi, afferma: «Ragionate in cuor vostro sui vostri letti e tacete» (Sal 4,4). Non si può non pensare a Dio – essendo l’uomo un animale razionale come vuole la saggezza greca – ma il pensare a Dio resta sempre derivato e secondo, restando prioritario sempre e solo l’ascolto e che questo – ascoltarlo – non può essere sostituito e compensato da nessuna razionalità e intelligenza.
    Per la saggezza orientale esistono tre tipi di viaggiatori: chi procede coi piedi, chi con gli occhi e chi con il cuore. Quelli che procedono con i piedi sono coloro i cui «passi s’impolverano su piste assolate, s’inerpicano su erte scoscese, si riposano in valli, in oasi e locande. Costoro sono i mercanti, i cui percorsi sono comandati da scopi e interessi precisi e il cui viaggio è sempre e solo un transito». Chi invece procede privilegiando gli occhi, spinto non dal bisogno di accumulare ma dalla curiosità di conoscere, è colui che «vuole scoprire e sapere, penetrare in città operose o abbandonate, ricostruendone la storia, sostare in antichi castelli, perdere lo sguardo negli arabeschi di un dipinto o di un bassorilievo, contemplare l’orizzonte luminoso di un panorama. Costoro sono i sapienti». Chi infine nel viaggiare privilegia il cuore è colui che «non si accontenta di procedere, visitare, sapere, ma vuole vivere con gli uomini e con le donne delle regioni attraversate, ascoltarli e parlare con loro e – come dice un aforisma arabo – ‘mettere in luce la perla segreta di Dio’ che dappertutto s’annida. Costui è il pellegrino della verità» (G. Ravasi, Pellegrini sulle strade dell’illuminazione, in «Il Sole 24 Ore» 2.12.2001).
    Comandando l’ascolto come imperativo primo, la bibbia privilegia il terzo tipo di viaggiatore e, istituendo l’uomo come uditore, per essa tutto ciò che esiste «è una melodia che si suona da sé. Farfalle, lumache, cicale, formiche, pettirossi, scoiattoli: ciascuno di essi è una forma unica di bellezza che scaturendo dai loro corpi invade lo spazio, sotto forme diverse di musica, alla ricerca di eco e di risonanze. Ipotizzano che da qualche parte, al di fuori, giaccia assopita la loro bella addormentata, in attesa del loro bacio. E quando avviene il miracolo, quando qualcosa risponde al loro richiamo di bellezza, si crea un mondo a immagine e a somiglianza della loro bellezza» (R. A. Alves, Parole da mangiare, Edizioni Qjqaion, Magnano BI 1998, p. 170).
    Il vero umano si dischiude là dove l’uomo si pone in ascolto e, ponendosi in ascolto, scopre e sente che il mondo che gli sta intorno, dalla pianta al filo d’erba, alla farfalla, alla lumaca, alla cicala, alla formica, al colore dei campi e al cielo nuvoloso o azzurro, non è un foglio bianco dove disegnare i propri sensi, ma una pagina musicale dai suoni sommessi e delicati che solo nel silenzio risuona e penetra nel cuore e nella mente. Iniziare la giornata e, nel frastuono degli impegni e delle tensioni quotidiane, ricordarsi che l’imperativo primo al quale sottostare è ascoltare, è sintonizzarsi con il cuore del reale dalle cui profondità risuona una voce che fa compagnia e dà allegria.


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