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    Rinnovamento ecclesiale e pastorale giovanile - Cultura, processi e centralità dei soggetti


     

    Salvatore Currò

    (NPG 2001-07-9)



    Le riflessioni qui proposte ruotano attorno alla questione del rinnovamento ecclesiale: ne danno un’interpretazione, cercano di coglierne i dinamismi, ne tracciano per sommi capi l’orizzonte culturale e quello teologico-pastorale-spirituale.

    Il riferimento è sempre alla comunità ecclesiale nel suo complesso, ma sullo sfondo agisce un’ottica di pastorale giovanile, e cioè la convinzione che l’attuale difficile dialogo tra giovani e Chiesa è il luogo più rivelativo dei nodi problematici e quello più indicativo delle direzioni di rinnovamento. D’altra parte la dimensione ecclesiale della pastorale giovanile, e quindi l’intimo legame tra servizio ai giovani e cammino ecclesiale, è una delle acquisizioni più significative dei tempi recenti.
    La dinamica del rinnovamento, così come viene qui colta, si articola in tre direzioni tra loro intrecciate e che richiamano una mentalità, degli atteggiamenti, uno stile, dei modi di affrontare i problemi. Così le tre direzioni si potrebbero esprimere:
    - uno sguardo alla nostra vita di Chiesa a partire da fuori (o dall’altro o dall’oltre);
    - l’attenzione a leggere i processi in atto nel vissuto ecclesiale, riconoscendo in essi valori e controvalori;
    - un approccio ad ogni persona come luogo primo, unico e insacrificabile della manifestazione della vita.
    Si tratta di direzioni di cammino o forse di tre attenzioni che aiutano a camminare. Ciascuna di esse si porta dentro nel piccolo grandi visioni (culturali, teologiche, spirituali) ed esprime un peculiare modo di intendere il rinnovamento della vita ecclesiale oggi. Ciascuna di esse inoltre tenta di attingere alla sorgente dello Spirito. Ne viene fuori un tentativo di cogliere in modo nuovo la spiritualità e un singolare intreccio tra metodologia e vita nello Spirito.
    Strada facendo si noterà che le tre direzioni si integrano e diventano una; si avrà la sensazione di collegamenti, di intrecci, di un’interdipendenza.
    Come in una logica di sistema, dove la modifica di un elemento suscita (quasi impercettibilmente all’inizio) una serie di modifiche in tutti gli altri elementi, come per contagio e come se fosse secondario da quale elemento cominciare e diventasse più decisivo il fatto che ci si è messi davvero in movimento.
    L’aria nuova che si produce a partire dal più piccolo movimento è attraente e desiderabile di per se stessa, si propaga lentamente e irresistibilmente. Produrre aria nuova o stili nuovi o mentalità nuova: ecco l’unico compito. A partire da segni piccoli ma pregni di novità contagiosa.
    Le tre direzioni lasciano intuire, come da tre punti di vista diversi, una serie di piccoli/grandi segni possibili, la cui forza sta non nella loro appariscenza, come se il rinnovamento potesse essere pensato in termini meramente istituzionali, ma nel fatto che sono segni di vita (o di aria) nuova; questa d’altra parte non si dà astrattamente, e cioè a prescindere da elementi visibili e di tipo istituzionale.
    Pur riferendosi a tutta la realtà ecclesiale, tali segni (soprattutto nelle esemplificazioni che si danno) sono descritti con particolare riferimento ad alcuni ambiti pastorali (la parrocchia, i centri giovanili, la scuola cattolica…) e pensando particolarmente a contesti apostolici e spirituali animati da comunità religiose impegnate nella pastorale giovanile.
    Ciò è dovuto alla peculiare esperienza di chi scrive. Ma se l’attenzione a specifici ambiti aiuta a dare concretezza alla riflessione, l’accento è però posto su dinamiche che sembrano caratterizzare tutta la vita ecclesiale nelle sue diverse espressioni.


    UNO SGUARDO ALLA NOSTRA VITA DI CHIESA A PARTIRE DA FUORI (O DALL’ALTRO O DALL’OLTRE)

    È consuetudine interpretare la vita cristiana ed ecclesiale, nel suo complesso e nei suoi diversi aspetti, nell’ottica di un duplice riferimento: al Vangelo e alla cultura; o, se ci riferiamo ad esempio alla vita consacrata, al carisma dell’Istituto e all’attualità, alla tradizione e ai nuovi appelli dell’uomo d’oggi; o ancora, se ci riferiamo più specificamente alla pastorale giovanile, alla proposta evangelica e alla realtà giovanile attuale.

    Fedeltà al Vangelo e fedeltà alla cultura

    Nessuno in genere mette in discussione questo ideale del duplice riferimento o, come si dice anche, della duplice fedeltà. Ma tutti nel vissuto lo interpretano, come d’altra parte è inevitabile. Di fatto sono in atto diversi modelli interpretativi (della vita consacrata, della spiritualità, dell’evangelizzazione, della pastorale giovanile...) che, pur facendo riferimento, quando vengono tematizzati, allo stesso principio della duplice fedeltà, di fatto sono profondamente diversi tra loro.
    In modo molto generale e sicuramente un po’ approssimativo, si possono individuare due modi diversi di interpretare o, più profondamente, di sentire il duplice riferimento. Li esemplifico muovendo dall’evangelizzazione ma avvicinandomi via via al piano della spiritualità.
    C’è chi ritiene che l’elemento determinante dell’evangelizzazione sia il conformarsi ai valori del Vangelo e, nel caso di una congregazione religiosa, ai valori trasmessi dal Fondatore; e questo conformarsi lo si intende normalmente legato a processi di preghiera e di assimilazione. È a partire da questa ricchezza assimilata (fedeltà al Vangelo e al carisma) che si può essere significativi in questa cultura (cioè: si può essere fedeli in senso vero a questa cultura). Il movimento dell’evangelizzazione è fortemente propositivo, almeno dal punto di vista di chi evangelizza: dalla significatività della proposta (e la significatività è legata a volte più alla testimonianza o santità di vita; altre volte più all’annuncio, inteso come annuncio chiaro e conforme il più possibile al Vangelo) all’impatto con questa cultura (che normalmente è interpretata come cultura in crisi o che domanda, non certo esplicitamente, dei precisi punti di riferimento).
    C’è chi segue invece il movimento alternativo. Il punto di partenza e la prospettiva sono dati dal desiderio di misurarsi seriamente con questa cultura, di coglierne istanze, o addirittura segni della presenza di Dio e appelli al rinnovamento della pastorale, del linguaggio ecclesiale, ecc. In quest’ottica l’evangelizzazione si fa sensibile alle istanze di dialogo, si pone anzi nell’ottica del dialogo. Il termine stesso evangelizzazione può risuonare addirittura restrittivo, non dialogico, unilaterale.
    Le due prospettive attraversano il variegato pluralismo ecclesiale e, pur essendo in sé astratte, sono riconoscibili all’interno delle diverse esperienze; attorno ad esse ruota molto dibattito ecclesiale. E sono molti coloro che ritengono che negli anni più recenti, almeno su un piano più ufficiale, la prima prospettiva sia più incoraggiata rispetto all’altra: dopo una prima fase postconciliare segnata dal prevalere della mentalità del dialogo e dell’apertura ai segni dei tempi, sarebbe subentrata una fase più centrata sul compito propositivo della Chiesa, responsabile di offrire il Vangelo di Gesù Cristo a un mondo in crisi.
    Sarebbe riduttivo e fuorviante interpretare le due prospettive etichettandole l’una come la prospettiva teologica, della santità della vita, della spiritualità, della propositività forte... e l’altra come la prospettiva antropologica, dell’eccessiva (o ingenua) fiducia nell’uomo, della poca propositività...
    In tutte e due i casi si fa riferimento a visioni teologiche, antropologiche, spirituali e pastorali. Semplicemente, sono differenti. Si pensi ad esempio: la teologia dei segni dei tempi non è appunto una teologia? la santità della vita non implica un lasciarsi interpellare o addirittura un lasciarsi evangelizzare (dal giovane, dal povero...)? è così scontato che la propositività è data esclusivamente dal centrare il più possibile l’evangelizzazione sull’annuncio del messaggio di Gesù Cristo?
    Il confronto tra le due prospettive, che sarebbe molto proficuo, diventa spesso scontro. La pluralità stessa è vista a volte come problema più che come risorsa e segno di vitalità. Non di rado in nome del Vangelo o del carisma e a partire dalla propria prospettiva si tenta di promuovere la facile unità dell’uniformità. Le interpretazioni del Vangelo e del carisma si confondono col Vangelo e col carisma; l’interpretazione della cultura attuale si fa rigida e unilaterale. E su tali interpretazioni cade il sospetto di ideologia.
    Il discorso potrebbe a questo punto orientarsi sulla necessità di riscoprire il dialogo, di allenarsi in una comunicazione ricca, di riconoscere prima di tutto come risorsa il pluralismo delle posizioni, di cercare l’unità non nell’affrettato riconducimento all’ortodossia del Vangelo e del carisma. Ma forse perché tutto questo non diventi a sua volta ideologia (l’ideologia del dialogo) e per non cadere nelle maglie del relativismo, è necessario attingere a fondamenti di spiritualità, o meglio: alla vita secondo lo Spirito. Questo piano ci porta al di là delle due prospettive delineate, pur senza dimenticare - e lo vedremo - che orientarsi tra esse è necessario.

    La spiritualità (o vita nello Spirito) al di là della spiritualità

    Parliamo dunque della spiritualità al di là delle prospettive o - oso dire - della spiritualità al di là della spiritualità. Mi spiego.
    Si fa un gran parlare, e certamente a ragione, di spiritualità del sacerdozio, della vita consacrata, del laicato, di spiritualità dell’incarnazione o dell’animazione delle realtà temporali... i genitivi possono essere tanti. Ma queste spiritualità che, coi loro genitivi, fanno riferimento a contenuti, a visioni... a prospettive, misurano la loro verità prima di tutto in quanto rinviano all’iniziativa dello Spirito. E tale rinvio va oltre l’affermazione verbale e oltre la buona coscienza di chi, dopo aver affermato il primato di Dio, si sente tranquillo e autorizzato a proporre la sua dottrina.
    La spiritualità è prima di tutto la spiritualità dello Spirito (il genitivo è soggettivo) a cui soltanto e sempre appartiene l’iniziativa. Dello Spirito non si sa mai da dove soffia, da dove viene e dove va (cf Gv 3, 8). Forse si potrebbe dire questa spiritualità, che attraversa ogni spiritualità, spiritualità della Rivelazione o della restituzione a Dio dell’iniziativa. È Lui che si rivela. A noi - prima della preoccupazione di decifrare la rivelazione, prima di trasformare l’iniziativa in contenuto o consapevolezza e quindi prima di ergerci nella sicurezza di chi ha compreso - la responsabilità di trovarci sulla traccia della sua rivelazione.
    E il trovarsi sulla traccia è prima di ogni certezza, è povertà assoluta, è la gratuità inaspettata dell’azione di Dio, è l’«eccomi, sono la serva del Signore» di Maria (Lc 1,38): evento prima che comprensione dell’evento; risposta prima di rendersi sufficientemente conto e, in ogni caso, prima di una comprensione piena della chiamata; gesto d’amore prima che calcolo dell’amore come consequenziale alla coscienza di una verità su Dio; anzi: risposta e gesto d’amore che permettono la coscienza di ogni verità religiosa, dandovi senso e liberando dal pericolo dell’ideologia o dell’antropologismo (che in questo senso comprende anche ogni teologismo).
    Primato della gratuità e dell’iniziativa d’amore di Dio. Non primato della conoscenza della verità che Dio è amore, che per quanto sia certa (e proprio perché certa) è in fondo il primato del soggetto che conosce Dio. Primato del Dio vivo e vero che vuol trovarci sulla sua traccia e che, trovandoci sulla sua traccia, ci fa a nostra volta sua traccia, facendo sì che abbia senso la proclamazione della verità dell’amore di Dio. Primato del vivere in nome di Dio prima che dire il nome di Dio. In nome dell’amore di Dio o sulla traccia dell’amore di Dio prima-che e come condizione-per l’annuncio dell’amore di Dio.
    Le diverse prospettive, le diverse idee e il confronto tra esse, sono stati ricondotti al di là delle prospettive, sono stati situati nella vita nello Spirito, o nell’iniziativa di Dio, che è prima della proclamazione di una verità universale di cui tutti partecipiamo: che è propriamente già evento del suo amore, al quale ho già risposto o non risposto prima di comprenderlo, anzi nei confronti del quale sono già in ritardo. Perché la sua iniziativa mi precede sempre!
    Il fatto del trovarci in ritardo è la prima verità che permette l’incontro, che è il senso del ritrovarci in nome di Dio, o il senso del ritrovarci per grazia come Chiesa, come comunità cristiana. Se diventasse primo il piano delle idee comuni (qualsiasi sia l’idea, fossero anche idee spirituali) o delle norme comuni o dell’interpretazione del Vangelo, diventerebbe prima la prospettiva dell’appropriazione, che è esattamente la negazione dell’iniziativa di Dio.
    È nel recupero del primato di Dio che vanno a situarsi i discorsi su quali prospettive maturare. Solo in questa resa al primato della vita nello Spirito, e in quanto resa alla grazia, sono discorsi davvero di fede e... spirituali. La loro spiritualità non è legata al contenuto prima di tutto e tantomeno è proporzionata a quante volte si nomina il nome di Dio (lo si potrebbe nominare invano), ma al fatto che le parole sono cariche di risonanza di dono e hanno l’indicibile sapore di non venire dall’io ma da Dio.

    La spiritualità dell’altro e dell’oltre

    Ma questa riflessione sui fondamenti deve farsi adesso riflessione di taglio operativo, deve lasciar intravedere cioè piste, modi di affrontare i problemi, e forse anche strategie che, pur non producendolo, sostengono però il rinnovamento. Questo è il campo delle mediazioni. E le mediazioni sono sempre soltanto mediazioni. Non solo. Ma sono il prolungamento della mediazione prima che sono gli atteggiamenti di vita, veicolo primo della grazia.
    Ed è un atteggiamento quello che prima di tutto si vuol evocare: l’atteggiamento del lasciarsi raggiungere dall’altro, che significa allo stesso tempo dall’oltre (oltre le mie prospettive, oltre l’idea dell’altro che mi sono fatta, oltre le mie convinzioni, oltre le classificazioni...) o dal fuori (fuori dal mio mondo, dalla nostra mentalità...). Tale atteggiamento può essere pensato in riferimento ad ambiti diversi: si riferisce ad esempio alle relazioni coi giovani, coi poveri, alle relazioni tra laici cristiani, tra sacerdoti e laici, tra religiosi...
    È l’atteggiamento per cui l’incontro con l’altro non comincia da me, ma dall’altro. Non è dono mio all’altro, e quindi basato sul far pesare (e spesso molto subdolamente, attraverso la presunzione vestita di umiltà) l’unilateralità dell’iniziativa e la mia superiorità. È piuttosto dono dell’altro a me.
    Questo non vuol dire che io non do niente all’altro; vuol dire piuttosto che gli do tutto e glielo do senza farglielo pensare, come se già gli appartenesse o come se io fossi non il proprietario ma solo l’amministratore del dono. E di fatto, anche se il dono tante volte, o forse sempre, passa soltanto attraverso di me, io sono soltanto amministratore (cf Lc 16, 1-8). E questo non vuol dire nemmeno, sul piano educativo-pastorale, rinuncia all’offerta dei valori o alla dimensione propositiva: significa piuttosto un situare l’educazione o il restituirle il senso più profondo.
    E l’incontro con l’altro non è da pensare solo, e nemmeno forse prima di tutto, consequenziale al rapporto con Dio. Perché non pensare anche che è solo quando l’altro mi raggiunge, magari sconvolgendomi e sconvolgendo la mia stessa idea o coscienza dell’altro, che si produce la grazia di Dio, che cioè il Dio a cui appartiene l’iniziativa mi raggiunge? Non abbiamo forse fatto talvolta una tale esperienza?
    E perché interpretare la presenza di Cristo nei fratelli come l’invito ad approfondire la consapevolezza della sua presenza per poter poi amare meglio l’altro e non invece, o anche, come il richiamo al fatto che solo quando l’altro entra nella mia vita, si produce la presenza di Cristo, che supera l’idea che di Lui mi sono fatto? È come se la presenza del Dio vivo e vero squarciasse improvvisamente il mio cielo o il mio mondo, magari organizzato proprio attorno all’idea di Dio.
    Quando nella relazione con ogni persona, l’altro comincia ad entrare nella mia vita o irrompe, rompe cioè il mio centramento su di me, sostenuto dai miei modi di pensare, dalla mia esperienza, dal «si è sempre fatto così», dal rilevamento dei limiti e della povertà dell’altro, dai miei principi (teologici o antropologici, a questo livello, non conta proprio nulla)... solo allora si produce la sorpresa, la meraviglia dell’avvento di Dio: la coscienza religiosa, fatta di convinzioni e di motivazioni spirituali, trova qui il suo senso più pieno.
    Quante volte invece la relazione con l’altro è stata pensata ai margini, se non al di fuori, di un cammino di spiritualità! Quante volte la si è banalizzata pensandola come terreno di verifica dell’incontro con Dio maturato nella preghiera! E quante volte l’affanno del servizio agli altri è stato centrato sul proprio mondo, su proprie esigenze di realizzazione o sui propri progetti (o sui progetti ecclesiali... da questo punto di vista, non cambia niente).
    L’alternativa più radicale non è tra preghiera e servizio, o tra contemplazione e azione. E la questione più radicale non è quella dell’integrazione tra le due dimensioni, a cui nei tempi recenti si è aggiunta la dimensione del crescere insieme come Chiesa (questione pure importante... ma non la prima).
    La questione più radicale è il salto da una preghiera che è la risonanza della propria parola alla preghiera come ascolto della Parola; da un servizio centrato sulla nostra missione al vero de-centramento sugli altri; da una vita comunitaria ed ecclesiale per realizzare un nostro progetto alla comunità dei con-vocati.
    È questo salto la vera posta in gioco. È il salto della vita secondo lo Spirito, è il salto del perdersi e del ritrovarsi non calcolato alla partenza. È la spiritualità di Abramo che esce nel mare aperto, lasciandosi disintegrare le proprie sicurezze.
    Quali esempi si potrebbero fare di questo uscire?
    Il discorso si pone adesso sul piano delle prospettive e quindi delle scelte e degli orientamenti. L’attenzione è di indicare alcuni modi di risolvere i problemi che sembrano aiutare questa apertura, di richiamare sempre il più possibile gli atteggiamenti e di non perdere di vista l’orizzonte fin qui delineato della spiritualità. L’attenzione è anche di sollecitare interrogativi e di problematizzare scelte e non di offrire le soluzioni sicure e definitive.

    Ambiti e esemplificazioni di apertura

    Un primo ambito da problematizzare potrebbe essere il modo di intendere il rapporto tra opera e territorio. È facilmente verificabile che tale rapporto è spesso vissuto secondo il movimento da noi verso gli altri. È evidente la frequente centralità delle finalità istituzionali dell’opera rispetto alle nuove domande del territorio. È evidente pure il ruotare attorno a ciò che si è sempre fatto, magari con alcuni ritocchi non di sostanza, ritenuto più sicuro rispetto al rischio di uscire nel mare aperto di nuovi tentativi, o in ogni caso rispetto al compito di verificare l’esistente a partire dalle nuove istanze. Sta di fatto che è necessario spezzare questo movimento centrato su noi (sull’opera, sulla tradizione...) e porre segni che esprimano il movimento dall’altro (dall’oltre, da fuori) verso di noi.
    Alcune provocazioni sono ormai da prendere sul serio:
    - la cultura delle persone (laici, giovani...), le loro sensibilità, i modi di pensare, di affrontare la vita... non possono essere accostati solo come termine del processo pastorale o in ottica di contrapposizione; essi contengono prima di tutto potenzialità e chiavi di lettura per una interpretazione sempre nuova del Vangelo e dei valori della vita cristiana;
    - le iniziative pastorali più significative non sono quelle gestite unicamente dai responsabili ufficiali della comunità e segnate da non-reciprocità, quelle organizzate attorno ad un unico centro di irradiazione o ad un progetto troppo costrittivo e controllato dall’alto; sono piuttosto quelle che si articolano come a rete: i centri sono vari, il controllo lascia lo spazio all’animazione, al sostegno e all’incoraggiamento;
    - l’opera non è più il luogo della pastorale. Non è più nemmeno il luogo o il soggetto della progettazione pastorale. Le esperienze più significative sono spesso fuori dall’opera o ai suoi confini; o sono quelle che nascono in un contesto già in partenza pluralista, ad esempio di credenti e non credenti, appartenenti (alla Chiesa, all’opera) e non appartenenti...;
    - i valori ecclesiali interagiscono con la cultura in un’ottica radicalmente nuova: non sono accolti in partenza come valori ma sono riconosciuti come tali a partire dai segni di novità che riescono a produrre. Ciò vuol dire che l’asse del dialogo pastorale si è spostato sulle problematiche della vita; il dialogo sui valori non è rifiutato ma si svolge nell’ottica delle risorse (o dello scambio di risorse) della (e per la) vita. A questo si collega la crisi delle relazioni pastorali centrate sul ruolo (del parroco, dell’educatore, del catechista...): il ruolo entra solo in seconda battuta e si misura su parametri di servizio alla vita.
    Un altro ambito esemplificativo, nel senso di prestarsi particolarmente per verificare la presenza di un movimento dall’altro a noi o da noi all’altro, può essere quello della qualità del dialogo coi giovani. Tale dialogo può far perno sul messaggio o valore da trasmettere loro, manifestando talvolta una sottile paura del confronto, oppure può far perno sull’accogliere e sul tentare di capire le nuove sensibilità. Il sentirsi sinceramente accolto da parte di un giovane al di là di ogni giudizio e al di là dello scambio di valori (che pure è importante che si realizzi) è elemento tutt’altro che secondario nella pastorale giovanile. Non solo. Ma la svolta, o l’estrema povertà, del farsi accogliere da parte dell’educatore, e cioè l’accettare che l’iniziativa sia del giovane e che il dialogo sia in senso pieno gestito dall’altro e nel luogo (non solo fisico ma anche culturale) dell’altro, apre la strada spesso ad incontri nuovi col Vangelo (non solo per il giovane).
    Le esemplificazioni potrebbero continuare. Ma conviene ancora soffermarsi sul raccordo tra la spiritualità sopra delineata e questi ambiti operativi. Per questo bisogna riprendere le due prospettive di interpretazione del duplice riferimento (al Vangelo da una parte e alla cultura dall’altra).
    Lo svolgimento della riflessione e le esemplificazioni offerte mostrano un’opzione nel senso del movimento dalla cultura a noi. E partire dalla cultura non significa antropologismo ma nemmeno approccio puramente strumentale all’oggi; non significa nemmeno un muoversi lontano da orizzonti e fondamenti teologici.
    La riflessione teologica post-conciliare ha dato un senso di fede all’approccio alla cultura: quando ad esempio ha svolto il tema del primato del Regno di Dio o del processo di salvezza rispetto alla Chiesa e alle sue mediazioni pastorali; o quando ha riconosciuto come luogo teologico le situazioni di vita dell’uomo, stimolando a leggerle con sguardo di fede; o, ancora, nell’affrontare i temi del dialogo con le culture e le religioni, sulla scorta della teologia conciliare dei segni dei tempi.
    La prospettiva del partire dalla cultura significa, se vissuta profondamente, porsi nell’ottica del piano di Dio, del Regno di Dio, del Dio che si rivela nella storia. L’ottica che sostiene e orienta è teologicamente fondata. Ma l’accento è stato posto, nella prospettiva del privilegiare gli atteggiamenti, gli stili e quindi la spiritualità, sul lasciarsi provocare, che non è elemento periferico della spiritualità cristiana ma che sta esattamente al cuore della vita nello Spirito. Questo lasciarsi provocare è stato pensato (e tentiamo finalmente una sorta di sistematizzazione del ventaglio delle dimensioni):
    - come un lasciarsi provocare da fuori (dalle nuove sensibilità culturali, dal mondo degli altri);
    - che è più profondamente un guardare all’altro facendo sì che la relazione parta da lui;
    - che è segno (pre-condizione e obiettivo ultimo allo stesso tempo) di vera relazione con l’oltre (relazione di trascendenza, di non manipolazione o appropriazione del Vangelo);
    - che significa il vivere la vita nel riconoscimento del primato e della grazia dell’Altro: il Dio che ama personalmente.

    L’ATTENZIONE A LEGGERE I PROCESSI IN ATTO NEL VISSUTO ECCLESIALE RICONOSCENDO IN ESSI VALORI E CONTROVALORI

    Non è sempre facile nell’ambiente ecclesiale - abitato da specialisti dei principi, della verità e dell’annuncio dei valori - porre attenzione ai processi e ai metodi. Tutto ciò che si pone nell’ottica metodologica (come comunicare i valori, come leggere le situazioni culturali, come entrare nei processi di crescita dei giovani...) rimane subordinato alla definizione dei contenuti di valore. La preoccupazione per il cosa ha sempre la meglio sul come.

    La dignità del metodo e dei processi in rapporto ai valori

    In alcuni ambiti, ad esempio in quello della catechesi e dell’educazione religiosa, ci si è fatti sensibili nei tempi recenti al verso dove: il primato dei contenuti da trasmettere ha ceduto il posto al primato delle mete o degli obiettivi da raggiungere. Il tentativo di immaginare la maturazione del ragazzo (la maturazione desiderata e a cui il ragazzo è chiamato) è avvertito prioritario e come pre-condizione per orientare tutto il processo educativo. Ma obiettivo significa processo già compiuto, o conclusione del processo. L’attenzione ai metodi, agli stili relazionali e di comunicazione... a tutti gli elementi che dicono la dinamica e la qualità del processo o è insufficiente o, in ogni caso, è subordinata al verso dove (l’obiettivo) e al cosa (i contenuti). I livelli sono ben gerarchizzati anche se tra loro collegati: il come è funzionale al cosa e il cosa al verso dove.
    E pur se il metodo lo si pensa in modo sempre più ricco e profondo - non un semplice insieme di tecniche ma, secondo il senso etimologico, come cammino e quindi con riferimento agli stili, alle relazioni e a tutto ciò che aiuta a camminare - la subordinazione resta. E nel fondo agisce una sorta di principio machiavellico del fine che giustifica i mezzi: l’importante è arrivare, i mezzi (i metodi, le vie) possono essere diversi.
    Ma il rapporto tra valori (alludendo col termine valore sia al verso dove che al cosa) e metodi non può essere inteso nel senso di tante vie che portano ad un unico fine; e neppure nel senso che si possa partire da una via e poi, quando si incontrano degli ostacoli, passare facilmente ad un’altra via.
    Le cose stanno diversamente e sono molto più complesse. Facciamo due passi in successione.
    - In certo senso sono poche le vie che conducono al valore, o sono di meno di quello che normalmente o apparentemente sembra. Diverse strade - escluse già quelle illecite, che evidentemente e a volte dichiaratamente non vogliono incrociare il valore (sono le vie 2 e 5 dello schema) - solo apparentemente (e cioè solo a parole o nelle intenzioni) raggiungono il valore: in realtà lo sorvolano (sono le vie 1 e 6) e, anche se lo dichiarano e lo indicano, in realtà non lo incontrano mai. Non solo. Ma spesso capita paradossalmente che la lontananza dal valore è giustificata e sostenuta in nome del valore stesso. In questo senso le vie 1 e 6 sono spesso più pericolose, perché subdole, rispetto alle vie 2 e 5; dal punto di vista della comunicazione, può capitare talvolta che ci si intende di più con quelli che espressamente dicono di perseguire valori diversi dai nostri: la possibilità di intendersi è legata alla sincerità, alla trasparenza del camminare (che - detto tra parentesi - sono già valori e non solo vie verso i valori).
    Le vie 3 e 4 sono quelle che vanno davvero al valore. Ma a quali condizioni? A questo punto lo schema utilizzato non ci è più sufficiente. E non lo è perché non esprime il fatto che non esiste in realtà una zona neutra rispetto al valore. Il valore ha a che fare già con l’inizio del camminare e con tutti i momenti del cammino. Il processo del camminare ha sempre un significato valoriale e cioè è sempre intrinsecamente legato al valore o al controvalore. Detto nei termini del linguaggio ecclesiale, è sempre una testimonianza o una controtestimonianza del valore; mai un fatto neutro.
    E allora - e a questo punto il secondo passo è stato fatto - bisogna esprimere questa profonda connessione di valori e metodi.
    Ogni percorso ha a che fare coi valori e coi controvalori sempre e a tutti i livelli: all’inizio, durante e alla fine. Il problema diventa
    - la capacità di leggere i processi, cioè di saper discernere (questa parola ha grandissima importanza) i riferimenti ai valori e ai controvalori;
    - e la capacità di saperli animare, nel senso di riferirli il più possibile ai valori.
    Il leggere (o discernere) e l’animare, arti difficili, sono essi stessi metodo e sono essi stessi intimamente legati ai valori. In realtà fanno riferimento non, o non solo, a una tecnica che chi ha ruoli di responsabilità dovrebbe imparare, ma ultimamente fanno riferimento a uno stile di relazioni (e già la parola arte suona un po’ stretta) e in definitiva a uno stile di vita e a una spiritualità.
    Il percorso fin qui fatto ha riabilitato il metodo, restituendogli dignità rispetto agli obiettivi (il verso dove) e ai contenuti (il che cosa). Senza cadere nell’enfasi di ridurre tutto a metodo, potremmo dire così: obiettivi, contenuti e metodo dicono le tre prospettive, intimamente connesse anche se distinguibili, della crescita e quindi dei percorsi di formazione e dei processi di rinnovamento…
    Privilegiare, senza esclusivismi o unilateralità, la prospettiva del come - che è ciò che si sta facendo in questa riflessione - significa forse rendere meglio conto della dinamicità e della complessità che hanno oggi i processi di crescita, non semplificabili in termini di formale o dichiarata adesione ai valori; significa inoltre orientarsi nel difficile allenamento del leggere e del discernere, e quindi dell’animare i processi: orientamento poco praticato e generalmente sottovalutato attualmente nelle comunità ecclesiali.
    Abbiamo preso le mosse, in questa riflessione, dall’ambito dell’educazione, che per sua natura coglie meglio la prospettiva dei processi. Ma le dinamiche individuate si riferiscono a tutte le dimensioni della vita ecclesiale. Si tratta adesso di riferirsi ad alcune di esse, cercando di cogliere qualche aspetto dell’imparare a leggere i processi, dell’imparare a cogliere i valori e i controvalori in atto (cioè dentro i processi). Lo faremo in modo pratico, facendo riferimento a fatti e ad esemplificazioni.
    Gli aspetti che evidenzieremo si riferiscono ai problemi dei messaggi e metamessaggi, ad altre distorsioni della comunicazione, all’insufficienza delle relazioni che passano troppo attraverso i ruoli, ai limiti dei modelli formativi deduttivi.

    I doppi messaggi

    Tempo fa partecipai a un consiglio pastorale parrocchiale, che il parroco aveva convocato per riflettere sulla corresponsabilità tra i sacerdoti impegnati in parrocchia e i laici, in vista evidentemente di migliorarla e approfondirla; così era stato percepito l’obiettivo. All’incontro, iniziato alle 18.30 e che doveva durare fino alle 20.00, partecipavano una trentina di persone: due sacerdoti, i laici responsabili delle attività dei gruppi e i rappresentanti delle diverse aree della vita parrocchiale. Dopo un breve momento di preghiera (la lettura di un brano della Lumen gentium, scelto dal parroco ma letto da un laico, e una preghiera recitata dal parroco), iniziò la riflessione sul tema posto all’ordine del giorno. Il parroco (ri)prese la parola e iniziò un excursus sulla teologia del laicato, molto ben ambientato dentro gli orizzonti dell’ecclesiologia del Vaticano II. Attraverso una serie di sottolineature sulla uguale dignità dei membri del popolo di Dio, sul radicamento di tale dignità nel battesimo, sulla fondamentale uguaglianza dei christifideles, si arrivò… al 50° minuto dell’intervento che ormai si era rivelato una conferenza. Lo sviluppo del discorso era giunto persino a citare, valorizzandone il contenuto, un articolo sulla corresponsabilità di clero e laici di una signora della parrocchia, uscito nell’ultimo numero del giornalino parrocchiale (un altro grande segno di attenzione alla sensibilità laicale!)... quando improvvisamente, come un fulmine a ciel sereno, con la voce un po’ emozionata e allo stesso tempo dirompente, una catechistica esclamò: «Scusi, padre, è già un’ora che lei, prete, parla di noi laici... ma noi quando parleremo?». Il parroco, per un istante colto di sorpresa, riprese la parola assicurando di star per finire e addirittura concedendo vagamente un po’ di ragione alla catechista… comunque un po’ importuna.
    Stiamo isolando un brevissimo scorcio di vita di una comunità cristiana. Se questo scorcio lo pensassimo dentro la storia di cui fa parte, dovremmo far riferimento a tanti elementi. Diverse persone quella sera non si presentarono al consiglio pastorale, perché, conoscendo lo stile del parroco, non avevano intenzione di perdere tempo; esse furono regolarmente accusate poi di poca responsabilità e classificate nella schiera di quei laici (a dire il vero quasi tutti) a cui non si possono affidare responsabilità. La catechista aveva già sperimentato, in riferimento a fatti precedenti, sensazioni di disaffezione: l’orientamento fu nel senso di rimanere in parrocchia (aveva avuto la tentazione di andarsene ma le esperienze in essa vissute negli anni precedenti erano state molto forti e la passione educativa per i ragazzi era tanta); certo il prezzo da pagare era quello di essere etichettata come «un po’ individualista» e, anche se brava coi ragazzi, «poco partecipe della vita parrocchiale». Qualcuno dei laici, tra quelli che non lo avevano fatto precedentemente, rassegnò le dimissioni, dichiarando di far fatica a conciliare gli impegni parrocchiali con quelli familiari e di lavoro. Il parroco interpretò questo fatto a sostegno della sua vecchia tesi, confermata da tanti anni di esperienza e persino in città diverse, che in fondo non si possono affidare grandi compiti di responsabilità ai laici: «nel momento in cui hai bisogno ti piantano all’improvviso»... e poi in fondo «non hanno una formazione approfondita come la nostra!»; ma dichiarò anche che lui, per conto suo e nonostante tutto, avrebbe sempre creduto (come d’altronde aveva sempre fatto) nella collaborazione dei laici... proprio secondo la teologia del Vaticano II!
    I riferimenti alla storia che fa da contesto a questa ora di vita parrocchiale potrebbero continuare e sarebbero molto indicativi... ma fermiamoci al frammento selezionato. È evidente che ci troviamo di fronte a un doppio messaggio. Dal punto di vista del parroco (e non c’è motivo di dubitare della sincerità della sua intenzione), il messaggio si riferiva alla volontà di realizzare un rapporto più intenso coi laici e tutto l’insieme, a suo modo di vedere, concorreva a questo scopo: la preparazione dedicata all’incontro, che aveva richiesto tempo e consultazione di diversi testi, l’esposizione del tema in termini molto aggiornati, i testi citati selezionati ad hoc, la pazienza manifestata nei confronti della catechista importuna... Ma è evidente che il messaggio percepito dai membri del consiglio pastorale era stato esattamente l’opposto: ancora una volta il parroco aveva manifestato sfiducia nei laici; questo emerse dopo l’incontro nelle voci di corridoio: «non ci ha coinvolti né nella preparazione né nella gestione dell’incontro...», «non ci ha fatto nemmeno parlare...», «ha parlato di questioni teologiche per sorvolare su come lui realizza i rapporti in parrocchia...». E in realtà il vero messaggio è quello che i laici hanno compreso (sì proprio quei laici - poverini! - un po’ importuni e a cui non si possono affidare grandi responsabilità). In realtà il parroco non vuole la collaborazione autentica coi laici, vuole una relazione unilaterale, vuole che si coinvolgano a cose già fatte e chiaramente alle sue dipendenze. È un volere che va al di là della sua intenzionalità, forse radicato segretamente su paure personali o su un collaudato atteggiamento di unilateralità rafforzato nell’accumulo della tanta esperienza.
    Fatto sta che il valore della corresponsabilità coi laici avrebbe dovuto entrare nel processo e nella qualità delle relazioni, attraverso, ad esempio: una compartecipazione nella preparazione, una gestione oculata dei tempi, la previsione di diversi interventi, una apertura non paurosa al concreto della vita parrocchiale...; a rigore tale valore avrebbe potuto essere colto senza parlarne e ponendo altre questioni all’ordine del giorno, appunto perché è il processo che è decisivo e appunto perché il metamessaggio (il vero messaggio) va al di là del linguaggio verbale.
    Ma la dissonanza tra messaggio e metamessaggio non è interpretabile come il semplice problema di qualche sprovveduto sacerdote o educatore. Molto spesso tale dissonanza fa parte integrante dell’intero sistema di relazioni. Gli esempi potrebbero essere tanti.
    Si pensi a cosa comunicano alcune nostre opere ai giovani del territorio. Mi riferisco non a ciò che gli educatori dell’opera vorrebbero comunicare, ma ai linguaggi dell’istituzione e della sua organizzazione, del clima che si respira, delle scelte che si fanno: è il metamessaggio che parte da questi livelli (più che i messaggi legati agli annunci, alle predicazioni, alla catechesi...) quello che prima di tutto giunge ai giovani, che tra l’altro più degli altri comunicano a contatto di pelle e per sensazioni, prima che attraverso la parola. A volte giunge loro un messaggio di giudizio, di non-accoglienza, l’invito a non infastidire... naturalmente - va ancora ripetuto - al di là delle intenzioni e di quanto si esplicita nei progetti pastorali.
    Questo pone interrogativi sulle grandi strutture ma più ancora sugli stili relazionali: a volte basterebbero poche attenzioni, collegate a una disponibilità di mettersi in discussione, per trasmettere un senso di autentica accoglienza.
    Tempo fa un religioso, che lavora in un contesto missionario, disse in un incontro pastorale di aver notato, dopo tanti anni di lavoro, che i giovani non sperimentavano un senso di appartenenza all’opera, ma che in fondo avevano solo usufruito di servizi; era - continuava il missionario - come se la comunità religiosa, pur benemerita e pur avendo riscosso grande successo e anche molta riconoscenza da parte della gente del posto, avesse sottilmente trasmesso (= metamessaggio) un senso di superiorità o di paternalismo, o il senso del mantenere le distanze e del far dipendere. E il problema non è da sottovalutare, se è vero che il senso dell’appartenenza, molto legato al senso del sentirsi soggetto e non semplicemente destinatario, è fondamentale nell’evangelizzazione e nell’educazione alla fede, dei giovani in particolare.
    L’attenzione ai metamessaggi si intreccia con una squisita mentalità educativa nell’approccio al mondo giovanile; ad esempio sapendo andare al di là del linguaggio e dei comportamenti che, a una prima lettura, sembrerebbero superficiali o addirittura provocatori o di contestazione, e che invece a volte nascondono grandi valori o grandi istanze di confronto o addirittura un’autentica domanda o invocazione di educazione. Normalmente le domande più forti sono quelle inespresse verbalmente.

    Il già della comunicazione e il peso dei ruoli

    Un elemento particolarmente nocivo alla comunicazione, tanto più perché si insinua sottilmente e facendosi difficilmente riconoscere, è quello che potremmo chiamare il già della comunicazione: il già detto, il già deciso, la delimitazione già avvenuta del campo di dialogo.
    A dire il vero ogni comunicazione (ogni messaggio che si lancia dentro un processo comunicativo) si realizza sempre a partire da un già; è cioè sempre dentro o a partire da un peculiare orizzonte o - come si dice anche - da una peculiare pre-comprensione (e cioè: una particolare interpretazione della verità che è in gioco, una ipotesi di soluzione già intravista sul problema su cui si interviene). L’elemento nocivo sta non tanto nell’agire della pre-comprensione ma nel non riconoscerla, nel far finta o nell’illudersi che non ci sia.
    Ciò porta a ritenere il proprio discorso assolutamente oggettivo e conforme ai principi o alla verità o all’obiettivo che si vuole raggiungere. E l’assolutezza più pericolosa è quella che si nasconde talvolta nelle sembianze della cordialità, dell’apertura apparente, nei toni pacati, nell’assenza di scontri... questi modi di fare non sono sempre quelli più conformi ai valori: il conflitto e lo scontro non sono da escludere in partenza.
    Il riconoscimento del già della comunicazione è condizione perché questo stesso già sia messo in discussione e perché quindi la comunicazione sia davvero libera e il più possibile aperta. E non bisogna facilmente rifugiarsi nel fatto che l’essere cristiani e l’appartenere a una comunità cristiana significa che ci sia un orizzonte (una pre-comprensione) che ci è già dato, che abbiamo già in comune e ci fa da ambito invalicabile nella discussione. A costo di rasentare il relativismo, va tenuta sempre viva la coscienza che la verità, il Vangelo, il carisma di una congregazione... pur trascendendo sempre le nostre interpretazioni e i nostri stili di incarnazione, e proprio perché trascendenti, di fatto, nelle nostre azioni e nei nostri discorsi, sono sempre interpretati. Il riferimento alla verità, al Vangelo, al carisma è cammino di apertura.

    Qualche esempio concreto

    E veniamo ad alcuni esempi di comunicazione solo apparente, dove in realtà il gioco è già fatto.
    Tempo fa un vescovo organizzò un convegno pastorale diocesano mettendo a tema l’elaborazione di un nuovo progetto di catechesi, un progetto che avrebbe dovuto essere espressione di un cammino davvero e finalmente «corale» della diocesi, superando i frammentarismi e i cammini paralleli. I tre giorni in cui si articolava il convegno (a cui parteciparono, tra catechisti e altri operatori pastorali, tra laici, religiosi e presbiteri, circa 200 persone) furono preparati ad arte e secondo le regole di un buon manuale di progettazione pastorale, che prevede il passaggio dalla lettura della situazione alla individuazione di obiettivi, itinerari e strategie operative. Il primo giorno venne un relatore, scelto dal vescovo, e tenne una conferenza sulle problematiche della prassi catechistica attuale in Italia; rimasero una quindicina di minuti per verificare col relatore quali tra i problemi enunciati si riscontravano anche nella diocesi. Il secondo giorno fece una lunga relazione il vescovo che prospettava in forma molto ampia e dettagliata una serie di obiettivi e di scelte strategiche (che si richiamavano alla lettura della situazione del giorno precedente, anche se per la verità appariva chiaro che la relazione era stata preparata precedentemente) e lasciando pure lui una quindicina di minuti per qualche intervento, sollecitando anzi molto affabilmente e democraticamente persino delle obiezioni. Il terzo giorno ci si divise in gruppi zonali, a ciascuno dei quali fu assegnato il compito di vedere come nella propria zona gli orientamenti maturati nel convegno potevano essere applicati. Qualche giorno dopo, un piccolo gruppo di persone scelte dal vescovo, preparò il documento diocesano per la catechesi, in pratica: la relazione del vescovo con alcuni rifacimenti e aggiunte non di sostanza.
    L’obiettivo prefissato fu pienamente raggiunto. Adesso nella diocesi è chiaro il cammino da fare; coloro che procedevano e procedono ancora per strade individualiste dovranno a poco a poco conformarsi (ormai ci sono tutte le ragioni per chiamarli individualisti). D’altra parte è stato il convegno diocesano a prendere questi orientamenti ed è stato anche dato spazio per le obiezioni (che non ci sono state o, a dire il vero, ce n’è stata qualcuna ma subito ed elegantemente confutata).
    Nel racconto ho volutamente tralasciato i contenuti per porre l’attenzione sul processo e per sottolineare gli effetti di questo processo che, al di là di quelli immediati (il progetto espresso nel documento), furono: la sensazione da parte di molti catechisti che le problematiche e i tentativi concreti delle loro esperienze parrocchiali non avessero trovato spazio nel convegno, un senso di disaffezione da parte dei responsabili diocesani della catechesi che si erano sentiti scavalcati, la diminuzione dei tentativi di esperienze nuove (coloro che avevano promosso delle sperimentazioni si sentivano adesso un po’ fuorilegge), una accentuazione dei percorsi cosiddetti individualistici con la differenza che adesso sono più sottobanco perché ufficialmente la catechesi deve andare in una certa direzione. Questi sono effetti che emergono alla lunga distanza e che da parte di chi ha impostato il processo in genere non sono colti. Anzi non appena anche ai suoi occhi affiorano tali effetti, essi vengono subito ascritti allo scarso senso ecclesiale e all’individualismo di alcuni operatori (individualismo è la parola magica che risolve subito il problema e tranquillizza la coscienza di chi la usa).
    L’ottica del racconto era quella del già della comunicazione. A pensarci bene, l’obiettivo del convegno non era già stato raggiunto prima che il convegno cominciasse? In realtà il convegno non si è svolto all’interno di un già deciso, all’interno di un campo già delimitato, da cui era quasi impossibile uscire? I contenuti del convegno non erano in sostanza già stati detti prima che il convegno cominciasse? Non è vero (e qui ri-interviene la chiave del doppio messaggio) che in realtà si è voluto mandare alla diocesi un forte messaggio che, tradotto in termini verbali, potremmo esprimere così: «Nella diocesi la catechesi si fa in questo preciso modo»? Si dirà: un vescovo ha il diritto e forse prima di tutto il dovere di dare degli orientamenti! Certo! Ma il suo intervento è solo uno, anche se certamente uno dei più decisivi, degli elementi che concorrono a una autentica progettazione della catechesi.
    Non solo. Ciò che è più grave (ed è il punto di vista che ci interessa) è la confusione e l’ambiguità della comunicazione. Sarebbe molto meglio e anche più accettato e compreso dalla diocesi (e in alcune occasioni potrebbe anche essere giustificato) realizzare un’azione direttiva chiamandola per quello che è e non mascherandola (mascheramento che non ha generalmente alcuna connotazione morale) per azione corale: una decisione già presa è tutt’altra cosa che un’azione di corresponsabilità e di coralità. E non si può certo ragionare nel senso che il risultato alla fine è più o meno lo stesso... a meno che per risultato si intenda il documento; da questo punto di vista anzi i documenti sono più belli quanto meno numerose sono le persone che li preparano.

    I risvolti dei presupposti comunicativi

    Ma anche il già detto o il già deciso va visto non come un qualche occasionale incidente di percorso ma come elemento che diventa spesso parte integrante del sistema di comunicazione.
    Si pensi a quante volte gli orientamenti maturati da una comunità educativa (da un consiglio pastorale, da un consiglio dell’opera...) sono nella sostanza già stati decisi (dal parroco, o dalla comunità religiosa…). Quando la corresponsabilità educativa e pastorale non è già alla partenza e il laico interviene a cose già fatte, è impossibile che si produca il senso della corresponsabilità: c’è sempre una distanza, il laico è sempre in ritardo, perché in fondo gli si trasmette che lui viene dopo... gli si chiede responsabilità mentre gliela si nega!
    Ad un incontro di religiosi e laici, in cui si parlava della corresponsabilità nella gestione dell’opera, una signora, da tanti anni impegnata nell’opera, pose ai religiosi alcuni quesiti: «Perché mi chiedete di gestire con voi l’opera che voi avete cominciato? Perché il campo di intervento educativo e pastorale è l’opera così come voi la intendete (e cioè l’insieme delle attività all’interno della parrocchia e del centro giovanile) e dove voi ci siete a tempo pieno e io invece ci sono solo in alcune ore della settimana, giacché ho famiglia e sono insegnante in una scuola pubblica... situazione questa che mi pone già in svantaggio rispetto a voi? Perché non ridefiniamo insieme il concetto di opera o perché non parliamo del territorio come luogo dell’azione apostolica? Perché la testimonianza della mia famiglia e il mio impegno nel mondo della scuola non deve entrare nell’orizzonte dell’opera apostolica?».
    Forse è solo a partire dall’apporto, già in partenza, dei laici che è possibile entrare davvero nella mentalità di una pastorale a partire dal territorio, a partire dalle persone... la pastorale del giovane al centro. Spesso invece, da parte dei sacerdoti e dei religiosi, è forte il tentativo, più o meno palese, di costringerli in un’ottica che rimane clericale.
    Si pensi alle dinamiche che si realizzano in genere nei diversi consigli (pastorali, dell’opera...) chiamati a rendere effettiva la corresponsabilità. Non sono molto spesso viziati dall’ottica clericale? E non è forse vero che il fatto stesso di istituire questi consigli non assicura un’autentica mentalità di dialogo e di corresponsabilità? E non è pure vero che, per uno strano o diabolico meccanismo, proprio tali consigli, i consigli della corresponsabilità, sono talvolta diventati lo strumento attraverso cui l’autorità ha dato la parvenza di dialogo al già deciso, per cui sono diventati i consigli della negazione della corresponsabilità?
    Il già della comunicazione si intreccia spesso con un altro virus: quello che si nasconde nel far pesare troppo il ruolo nella comunicazione. La comunicazione autentica, pur se tiene conto rispettosamente dei ruoli, non è mai a partire dal ruolo e non si esaurisce nella prospettiva del ruolo.
    La comunicazione è incontro umano, è contatto da persona a persona. Quante volte si può avere la sensazione, anche dopo lunghi dialoghi o dopo lunghe frequentazioni, di non incontrare davvero l’altro! Il ruolo è una delle migliori maschere per nascondere se stessi, per non esporsi e per rendere quindi la comunicazione chiusa e assolutamente improduttiva.
    Un giovane seminarista fu destinato a una nuova esperienza apostolica con ragazzi difficili, dove da anni lavoravano altri giovani; egli mise subito in chiaro che al suo ruolo di seminarista si confacevano incarichi di coordinamento e di servizio alla formazione degli animatori: dopo un po’ di tempo si rese conto lui stesso delle paure che lo condizionavano nel rapporto con ragazzi.
    Tanta comunicazione religiosa si sviluppa quasi esclusivamente a partire dal ruolo: il parroco che rimprovera i fedeli dal pulpito e che sa di poterlo o addirittura di doverlo fare perché, in quanto parroco, è responsabile del suo gregge; l’educatore o il catechista che fa leva (e lo fa pesare) sulle attenzioni continue con le quali egli si prodiga per i ragazzi, come se non ci fosse qualcosa di assolutamente gratuito in ogni incontro umano; il responsabile delle attività giovanili che tiene accuratamente a distanza i giovani che si avvicinano troppo (a minacciare la sua responsabilità) e che fanno delle proposte troppo innovative, magari con buone motivazioni.
    La minaccia spesso è allontanata con espressioni del tipo: «Nemmeno riconoscono quello che faccio per loro!», «Si meriterebbero ben altro, o addirittura che me ne andassi a lavorare con gente più riconoscente o che ha più bisogno rispetto a loro... eppure continuo a stare con loro!».
    Queste stesse persone incontrano in genere gravi difficoltà, che però tante volte riescono a rovesciare sugli altri, quando si trovano a doversi inserire in contesti non loro (per esempio quelli non ecclesiali), a dover collaborare in iniziative la cui responsabilità prima è di altri, a doversi inserire in un dialogo sulla religione e sulla fede in cui la comunicazione è gestita da altri, magari da un non credente. L’allontanamento della difficoltà può avvenire in tanti modi: assumendo toni aggressivi o difensivi, tenendo il più possibile la parola, non entrando in ogni caso nel terreno dell’altro.
    Sono in atto diversi tentativi di comunicazione religiosa, sostenuti anche da una riflessione teorica, a partire dal terreno (fisico e culturale) dell’altro; o nell’ottica di attivare una reciprocità tra il luogo ecclesiale e il luogo dell’altro. Spesso i tentativi falliscono perché l’uomo di Chiesa (il parroco, il catechista...) attiva una comunicazione con lo stesso stile che nel luogo ecclesiale; e cioè tenendo lui la responsabilità dell’incontro e quindi una posizione di primato, che spesso trasmette agli altri difensività e paura. Insomma: ci si mantiene nel ruolo e si pensa il terreno che si sta attraversando come il proprio terreno di influenza e come il terreno i cui abitanti devono, o in ogni caso dovrebbero, riconoscere il proprio ruolo.
    Se queste problematiche si confrontano poi appena un po’ con alcuni tratti della cultura attuale (attraversata dai processi della secolarizzazione, del pluralismo culturale e religioso...), l’inconsistenza di una tale comunicazione (centrata sul ruolo e sull’autorità della Chiesa in una cultura centrata su polarità di tipo laico) si fa ancora più palese. È evidente che dal punto di vista ecclesiale o, diciamo meglio, del responsabile dell’iniziativa tentata, l’interpretazione del fallimento è nel senso dell’accusare o del compatire - che è lo stesso dal punto di vista della (in)comprensione della comunicazione - questa (povera) società in crisi e sempre più scristianizzata.

    UN APPROCCIO AD OGNI PERSONA COME LUOGO PRIMO, UNICO E INSACRIFICABILE DELLA MANIFESTAZIONE DELLA VITA

    L’istanza di una relazione più diretta, di una relazione da umanità a umanità è nel cuore di ciascuno. La si riscontra nei giovani e si impone al di là di tante parvenze di superficialità o di narcisismo. La si riscontra negli ambienti ecclesiali che, quando riescono a porre qualche segno di relazioni nuove, lo avvertono come testimonianza significativa per il mondo e spinta rigeneratrice per più veri cammini di fede.

    Il senso della soggettività, la polarità soggettività-trascendenza, la mediazione ecclesiale

    Ciò che è stato chiamato relazione da umanità a umanità significa tante cose: esigenza di sentirsi accolti, compresi, apprezzati in ciò che si ha di più proprio; desiderio di rapporti basati sulla fiducia e non sul sospetto o sul pregiudizio; desiderio di sentirsi importante per gli altri... Queste istanze, che sono di tutti e che non possono e non debbono essere ignorate o cancellate o ritenute in contrasto con la fede, si portano dentro il bisogno proprio di ciascuno di essere se stesso, il senso della propria identità, il senso della propria soggettività.
    Nel tempo del pluralismo valoriale e religioso, della perdita del senso della verità, della crisi delle ideologie e delle istituzioni, la cultura è pervasa dal vento forte della soggettività; la persona è fortemente centrata su di sé, come abitata da una sorta di gelosia della soggettività. Il soggetto fa perno su di sé per la propria crescita, pur cercando sempre l’incontro e il confronto. Le stesse proposte educative e religiose si concentrano, più che sulla loro veridicità o autorità, sul senso che recano per la persona; e si misurano sulla loro capacità di aprire a nuova produzione di vita.
    Senza entrare qui nella descrizione dei risvolti culturali, ecclesiali ed educativi del senso della soggettività e senza addentrarci eccessivamente nella riflessione, oggi molto importante, su fede e soggettività, assumiamo il senso della soggettività come un principio di metodo, come un’istanza che deve attraversare tutti i processi ecclesiali. Attraverso alcune esemplificazioni, cercherò di mostrare un orientamento non di soggettivizzazione della fede e dei valori ma di espansione della soggettività o della sua apertura alla trascendenza. Tale orientamento si fonda su una spiritualità, già evocata, del soggetto aperto al (e dal) venire del Dio personale e che ama personalmente. È il soggetto-aperto-al-(dal)-Trascendente il criterio o la prospettiva di ogni proposta, di ogni scelta e di ogni esperienza ecclesiale, educativa e pastorale. Che la prospettiva - parliamo (non dimentichiamolo) dall’ottica dei processi - è data dal soggetto, significa che non è data da altro, ad esempio: dall’istituzione, dal progetto, dai valori, dalle finalità ecclesiali (tutte realtà importanti peraltro). Si dirà: ma è Dio che sta prima di tutto! Appunto: Dio. Il che significa: non l’istituzione, il progetto, i valori, le finalità ecclesiali.
    Questo primato di Dio stiamo semplicemente cercando di dirlo in dialogo sincero con questa cultura; stiamo cercando inoltre di esprimerlo più operativamente, senza ridurlo all’affermazione del primato di Dio ma riconducendolo all’effettivo operare di Dio nella storia e nella vita di ogni persona. Potremmo esprimerci nel modo seguente.
    L’affermazione teologica: «Dio è il primo» e l’espressione riconoscente ed esultante della preghiera: «Tu sei il primo», diventano (nell’ottica della lettura e dell’animazione dei processi e delle relazioni in questa cultura): prima è la soggettività-che-si-apre-al-trascendente e che, quando si apre, si avverte come ricercata, chiamata e amata da sempre dal Dio di Gesù Cristo.
    Per cogliere la portata di questa impostazione, si può pensare al semplicissimo fatto che l’affermazione del primato di Dio non coincide con l’effettivo primato di Dio nella vita e al fatto che non è sempre vero che la convinzione del primato di Dio è pre-condizione per vivere tale primato. Bisogna saper vedere che a volte l’esperienza molto concreta dell’eccomi (esperienza tutta del soggetto ma del soggetto che risponde a un appello... un appello non generico ma personale) apre a dar senso al «Tu, Dio, sei il primo» della preghiera e al «Dio è il primo» della teologia, delle comunicazioni religiose, degli incontri formativi ecclesiali, dei documenti, delle raccomandazioni di chi esercita l’autorità.
    In quest’ottica, decisiva è la polarità soggettività-trascendenza, che non è polarità di continuità ma di discontinuità, perché Dio irrompe, rovesciando l’io o facendolo cadere da cavallo (per riferirci alla vicenda di Paolo): la sua azione ha sempre il tono della grazia e dell’inaspettato. Si produce - potremmo dire - il salto (salto di grazia) dall’io all’eccomi. L’eccomi è ancora soggettività: soggettività perduta e ritrovata.
    Non solo. Ma il salto (salto che sa di dono più che di produzione dell’io) non implica una soggettività debole ma una soggettività forte: solo chi è se stesso può rispondere alla chiamata; solo chi progetta la vita può vivere la resa al dono che sovrasta ogni progetto.
    A questo punto sorge spontanea la domanda: ma, colta la fondamentale polarità soggettività-Dio personale trascendente, che significato hanno gli elementi oggettivi della fede e della vita cristiana: regole di vita, precetti, momenti comunitari...? E che significato ha, in definitiva, l’appartenenza stessa alla Chiesa?
    Tutto rimane importante ma tutto cambia di prospettiva. Se si entra nella nuova prospettiva, alla prima sensazione di perdere dimensioni importanti subentra probabilmente la sensazione del ritrovarle nel loro senso più vero... e cioè nell’ottica della mediazione: semplicemente mediazione, pur se mediazione indispensabile.
    Ciò che è sostanzialmente in gioco è la risposta del soggetto al Dio che chiama e ama personalmente.
    Tutto il resto è mediazione (pur se sono diversi i livelli delle mediazioni).
    Questa nuova, o in realtà antica, prospettiva rovescia l’altra prospettiva. Quella vecchia? Probabilmente no. Forse quella che ha meno fiducia nel soggetto ma, a pensarci bene, anche in Dio... come se Dio non fosse già operante nel cuore di ogni persona. O forse è la prospettiva che risente ancora dell’ottica, rassicurante e tutto sommato poco impegnativa, dell’identificazione di Chiesa e Regno di Dio, di salvezza e strumenti di salvezza.
    I due piani di questo schema sono diventati tre (v. lo schema precedente). O, in realtà, lo sono sempre stati... tranne quando, sia sul piano personale sia su quello ecclesiale, ci si dimentica (tentazione vecchia e nuova) che è peccato appropriarsi dell’azione di Dio e dimenticare la propria natura di servi e mediatori. Descritta l’ottica, leggiamo ora alcuni frammenti del vissuto ecclesiale.

    Il soggetto prima dell’istituzione, del progetto, delle finalità...

    Nella comunità cristiana, come anche nei centri giovanili, è spesso diffusa, tra giovani e adulti collaboratori, la sensazione che da parte dei sacerdoti o dei religiosi ci si rapporti a loro in un’ottica sottilmente strumentale. La relazione è troppo orientata alla finalità dell’attività; il dialogo è tutto sul da farsi. «Ho avuto un grande problema in famiglia... ma il parroco, che pure incontro in continuazione, non mi chiede mai: come va?» diceva, sconsolata, Anna, una catechista molto impegnata in parrocchia. «Sono stato all’ospedale... ma il prete non si è fatto vivo... ma allora mi cerca solo quando ha bisogno di me!» esclamò Paolo, un operatore della caritas parrocchiale.
    Talvolta, soprattutto nelle relazioni coi giovanissimi, si creano radicali incomprensioni e come dei circoli viziosi. I giovanissimi si prestano ad attività di servizio (si pensi ai grest, all’estate ragazzi…), evidentemente con tutte le ambiguità tipiche del momento di crescita che stanno vivendo (sbalzi di umore, incostanza, motivazioni miste, istanze narcisistiche, esigenza di fare gruppo...); l’adulto primo responsabile (laico o sacerdote) si rapporta loro guardando esclusivamente all’impegno di cui sono capaci in vista dell’obiettivo dell’attività. E allora affida loro incarichi superiori alle loro forze; o al contrario mette alcuni sempre da parte perché «incapaci di portare a termine un incarico»; si arrabbia spropositatamente quando le cose non vanno. In realtà questa dinamica finisce per rafforzare, come in un circolo vizioso, da una parte, nei giovanissimi, il senso dell’incapacità della comunità cristiana di comprenderli nelle loro istanze di crescita e dall’altra, nell’adulto, la convinzione che questi giovani sono proprio buoni a nulla. In realtà il responsabile non si accorge che avrebbe dovuto affidare le grandi responsabilità a giovani più cresciuti o ad adulti, che il rapporto con i giovanissimi non è stato con soggetti in crescita e che ha visto solo l’obiettivo che bisognava raggiungere.
    Cristina, che per un lungo periodo prestò un servizio presso la caritas a favore di barboni e altri emarginati, confessò dopo un po’ di tempo che in lei stava avvenendo una conversione. Capì che la sua relazione con gli emarginati era troppo unilaterale, (un dare senza saper ricevere) e che non era davvero centrata su di loro (era troppo condizionata dalla preoccupazione di sentirsi una buona cristiana e dalla preoccupazione che l’istituzione della caritas facesse bella figura); capì inoltre che non poteva relazionarsi con gli emarginati. Questi erano in realtà: Pietro, Giuseppina, Mario... dei soggetti.
    A pensarci bene, in tante comunità cristiane, le classificazioni tra i cristiani (quelli più bravi e quelli meno bravi), quelli più impegnati o meno impegnati (classificazioni che ogni buon parroco, più o meno pubblicamente, si sente in dovere di fare) o - nel caso dei parroci che non fanno le classificazioni - i modelli di vita cristiana che si propongono nella predicazione, nella catechesi..., rispondono in definitiva al criterio di quanto ci si impegna in parrocchia, di quanto si contribuisce all’edificazione della comunità cristiana. Alla celebrazione eucaristica domenicale molti laici che nella giovinezza erano stati impegnati in parrocchia e che ora, per motivi di famiglia e di lavoro, non offrono più un servizio parrocchiale (perché stanno costituendo una nuova famiglia o perché molto presi nell’ambito del lavoro) e che magari stanno facendo seri tentativi di animare a partire dai valori cristiani difficili ambiti di vita (extraparrocchiale)... alla celebrazione eucaristica - si diceva - si sentono un po’ esclusi se non addirittura rimproverati o giudicati. Ciò che conta è partecipare a un gran numero di incontri intraparrocchiali e avere qualche incarico (sempre intraparrocchiale). Qualche volta i laici stessi più impegnati in parrocchia assumono un velato senso di primi della classe rispetto agli altri.
    La comunità cristiana è invece mediazione, semplicemente mediazione: al centro c’è il Regno di Dio e cioè il prodursi dell’azione di Dio attraverso l’opera di soggetti chiamati ad essere «sale della terra» e «luce del mondo» (Mt 5, 13-14).

    Logiche di animazione del rinnovamento... dall’alto... dal basso... centrate sulle risorse dei soggetti

    È difficile pensare alla vitalità di un organismo, e quindi al rinnovamento, saltando le motivazioni e le risorse dei singoli soggetti. C’è una via di mezzo tra il caricare di eccessiva importanza la dimensione istituzionale (o le decisioni dall’alto, o le strategie verticistiche) e la completa anarchia e gestione individuale dei processi. Una via, in realtà, che è più che via di mezzo; essa prevede: la sapiente valorizzazione degli input dall’alto e allo stesso tempo una irrinunciabile fiducia nei rapporti e la capacità di riconoscere potenzialità, qualità e risorse in tutti.
    Si potrebbero fare tanti esempi che evocano questa via, o questo stile, traendoli dall’ambito e dalla tradizione dell’educazione dei giovani. I grandi educatori sanno intervenire dall’alto ma senza cessare mai un attimo di credere nel ragazzo; provando e riprovando attivano finalmente nel ragazzo il senso della fiducia in se stesso e nelle sue risorse. La forza dell’educatore si rivela a volte nella sua pienezza proprio nel momento che sembrerebbe di estrema debolezza: «ho bisogno di te», «cosa sai fare?», «dammi una mano».
    Ma anche l’ambito di quelle relazioni di reciprocità che si realizzano nelle parrocchie, nelle opere, è ricco di spunti e suggerimenti. Tante opere molto ben funzionanti, perché il direttore (o il consiglio dell’opera, o il consiglio pastorale) organizza tante iniziative, possono mancare però spesso di autentica vitalità e le iniziative possono essere di parata. Altre opere possono avere iniziative meno centralizzate ed eclatanti ma più distribuite, con tanti soggetti che intervengono. Non sarebbero più efficaci forse iniziative più in sordina ma alla lunga più costruttive?
    In quest’ottica si può vedere il farsi strada del modello di parrocchia come comunione di piccole comunità, di esperienze più a misura umana, dove le persone si sentono più protagoniste. Il modello, che prevede sapiente animazione e sostegno e non eccessivo controllo da parte del parroco, è esattamente il contrario del modello la paroisse c’est moi, espressione che circola in riferimento a parroci accentratori.
    Accettare il protagonismo delle persone significa anche attivare il gusto di un dialogo franco e aperto, che relativizza sapientemente i ruoli e che aiuta l’effettiva corresponsabilità. Un dialogo che, se vero, è talvolta anche conflittuale. Perché aver paura della pluralità delle idee? Perché attivare logiche di scavalcamento o prevenzione del conflitto? I conflitti, prima che essere un problema (lo possono diventare certo, se non li si sa gestire con maturità), sono il segno della vitalità di un organismo, in quanto esprimono la pluralità delle idee e la vitalità dei soggetti. Se qualcuno perseguisse l’obiettivo dell’eliminazione dei conflitti (nel senso del prevenirli ad ogni costo), opererebbe in realtà per la morte dell’organismo.
    Il percorso non può essere: dalla preoccupazione per l’unità alla tolleranza delle diversità. Il percorso più sano è: dal riconoscimento della ricchezza delle diversità al dialogo-confronto verso una unità sempre in fieri. Certo in questo percorso, il dialogo-confronto si intesse di riferimenti agli ideali e ai valori cristiani, che in quest’ottica interferiscono davvero, sia pure in forma sempre imperfetta e qualche volta conflittuale, nel concreto vissuto ecclesiale.
    Un cammino in avanti di rinnovamento non avviene attraverso la facile definizione dei quadri comuni e attraverso tattiche di allineamento, ma attivando un clima che favorisca l’emergere di soggettività vivaci, che si interrogano, che tentano modi nuovi e inculturati di vivere il vangelo, che si fanno coraggio nel rischio. D’altra parte, se è vero che la cultura ci sfida a porre nuovi segni, questi nascono in genere da tentativi di singoli o di pochi e dentro un clima di sostegno, di circolazione di idee e di contagio. In questo senso il rinnovamento non può essere progettato eccessivamente e centralizzato. Gli organismi centrali sono chiamati a sentirsi in certo senso meno responsabili del rinnovamento e a interrogarsi su come favorire di più un rinnovamento che forse non può essere che di base... di soggetti vivi.
    È come se bisognasse rovesciare la prospettiva: dall’eccessiva preoccupazione di controllare i carismi dei singoli al favorire un clima perché ci siano tanti profeti.
    È come se dovessimo entrare nel desiderio di Mosé che la Scrittura ci testimonia: «Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore dare loro il suo spirito!» (Num 11,29).
    È, ancora, come se ogni soggetto fosse il luogo privilegiato, e in senso radicale l’unico luogo, dell’agire di Dio; e tutto il resto fosse semplicemente e necessariamente, sia pure senza appiattimenti, mediazione: compresa la mediazione ecclesiale. Mediazione necessaria, addirittura sacramentale, ma mediazione.


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