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    Nel cuore di Icaro - Bellezza e conflitti nell’esperienza dell’educatore


     

    Riccardo Ciccolella

    (NPG 2001-04-34)


    La mia è una riflessione sul tema dell’educare, a partire dalle diverse esperienze che mi hanno visto coinvolto come educatore e formatore di educatori e che mi è stato chiesto di raccontare.
    Sono contento di poter mettere in gioco le mie con le altrui esperienze e cogliere questa come un’occasione di autoriflessione, evento decisivo per ogni educatore.
    Mi sono trovato subito di fronte al primo problema: che titolo dare al mio intervento? Quale titolo potrebbe cogliere il nocciolo delle mie diverse esperienze intorno al tema dell’educare?
    Dare senso ai frammenti di vita, trovare il filo rosso che colleghi le diverse esperienze educative: proprio in questo sforzo si può trovare un senso al cammino di educando e di educatore.
    Mi viene così in mente l’immagine di Icaro: ecco trovata la metafora attorno a cui potrebbe ruotare la mia riflessione.
    Cosa covava nel cuore di Icaro? Quale forza spinse il giovane a tale progetto, quali paure dovette affrontare?
    Quale dramma vissero insieme padre e figlio? E cosa covava nel cuore di Dedalo?
    Non voglio troppo indugiare sull’immagine, ma questa suggestione mi dà il «la» per addentrarmi nelle mie esperienze intorno all’educare.

    Educare: l’arte di modificarsi reciprocamente

    Tempo fa ascoltai un bravo pedagogista che diceva: «Non esiste l’educazione, ma esistono le relazioni educative».
    Credo, infatti, che l’educazione sia l’arte della reciproca modificazione e abbia una sua dimensione irriducibilmente soggettiva. Ogni educatore, infatti, ha il suo Icaro da educare, dentro e fuori di sé, e il suo Dedalo interiore da conoscere.
    L’educare è creare una comunità di apprendimento, come il prendersi cura della rosa da parte del Piccolo Principe. Ognuno ha una sua rosa da coltivare che non lo farà dormire la notte, che popolerà i suoi sogni e che gli insegnerà il senso del prendersi carico.
    I miei ricordi di educando e di educatore sono tanti, ma quelli sui quali mi ritrovo a soffermarmi di più sono le esperienze di conflitto e di bellezza.
    Quanto al conflitto ho imparato che esso è la dimensione centrale della relazione educativa. Spesso mi ritrovo a dire agli educatori che incontro: «Sperate di entrare in conflitto con i vostri educandi, vuol dire che in quel momento si sta decidendo la vostra relazione educativa». Nel conflitto, infatti ci si dà una propria posizione, ci si definisce nell’identità; la persona deve scegliere e difendere il proprio punto di vista; è nella condizione di de-cidere per sé.
    La de-cisione per l’identità, poi, è il momento del passaggio dall’at-taccamento al dis-tacco, dalla re-cisione temporanea delle radici fino all’elevarsi in piedi, allo sperimentare il volo con le proprie ali, come Icaro.
    Potremmo quindi dire così: «Fammi vedere come vivi il conflitto e ti dirò chi sei. Come stai vivendo la fase di attaccamento, e la sua fine, e il momento del distacco?». Il conflitto è centrale perché potremmo definire ancora l’educazione come l’arte del farsi autor-izzare. Si perché è la persona che abbiamo di fronte che de-cide e legittima noi come suoi educatori per sperimentare quel passaggio tra attaccamento e distacco, di cui egli solo ne è l’attore principale.
    Il fatto, poi, che l’educatore debba capire se è stato autorizzato a pronunciare parole che entrino nella vita dell’altro, e debba cogliere il momento propizio, significa che l’educazione è di per sé un’esperienza attraversata da conflitti e da ambiguità. L’ambiguità che esiste tra il lasciare libera la persona di scegliere il suo cambiamento e il sentire l’urgenza di indurre cambiamenti è la radice di tutte le ambiguità e di tutte le domande che l’educatore si pone: quanto aspettare o forzare, quanto contenere o incoraggiare?
    L’educatore ha un progetto per sé e per l’altro, ma anche l’altro ha un progetto per sé, e spesso rimuoviamo il fatto che ce l’abbia anche per l’educatore.
    Saper vivere, accettare e lavorare dentro questo scarto progettuale, tra il principio di piacere (voler realizzare bei programmi, avere l’amore e il riconoscimento dell’educando) e il principio di realtà (l’altro con le sue resistenze, i suoi modi di amare, i suoi progetti): questa è l’ambiguità radicale dell’educare.
    Nella mia esperienza di responsabile di una comunità per giovani, ricordo che una volta, nel chiedere ad un ragazzo le persone importanti della sua vita, me ne nominò alcune. Qualche giorno dopo telefonò la sua assistente sociale per chiedermi come stava il ragazzo, e mi confidò che ci teneva in particolar modo a lui, e che aveva speso tanto tempo per aiutarlo. Questa cosa mi fece molto pensare, visto che l’assistente sociale non figurava tra le persone importanti nella vita del ragazzo. Un chiaro caso in cui il principio di piacere era davvero molto distante dalla dura realtà.
    Saper so-stare nell’ambiguità di tale esperienza significa sopravvivere all’indeterminazione dell’evento educativo, mentre vedo certa pedagogia che si affanna nel definire tempi ed obiettivi, nello strutturare metodologie e setting adeguati.
    Ma tutto questo credo che sia il tradimento dell’educazione, così come ci perviene dalla tradizione greca, ebraica, cinese, ecc.
    Un tempo l’educatore viveva la dimensione peripatetica, era colui che faceva riflettere sul mondo della vita. Anche oggi ci sono educatori che hanno il coraggio di ritornare all’evento educativo in sé, alla radicalità dell’esperienza educativa, laddove non esistono certezze, ma educando ed educatore sono di fronte a se stessi, laddove i confini dei ruoli sono molto più sfumati, laddove la pedagogia si gioca con la vita e non ci sono scrivanie (leggi àncore) di salvezza: progetti di intervento su strade di periferia, sui treni che trasportano prostitute, sui pulman che trasportano giovani verso le discoteche; senza sicurezze, senza ruoli predefiniti, senza certezze di tempi e metodi.
    La domanda più inquietante, ma proprio per questo più feconda, che ci si pose durante una supervisione di educatori impegnati nelle ore notturne, fu: ma noi chi saremo per loro e, soprattutto, chi sono io come educatore?

    L’educatore, la vita e la sua narrazione

    L’esperienza educativa ha in sé una forte carica emotiva, mette in gioco parti decisive della nostra persona, da qui il bisogno di controllo e di sicurezza scientifica. Infatti l’esigenza di supervisione e di formazione degli educatori è sempre molto presente.
    Ed è per questo che l’incertezza congenita dell’esperienza educativa mi fa pensare che la nostra biografia sia il miglior libro pedagogico che possiamo consigliare agli educatori.
    Le richieste di formazione però sono sempre secondo una logica schizofrenica, alla ricerca cioè di tecniche, analisi, diagnosi, metodi: elementi tutti che ci pervengono dall’esterno, ma che non ci mettono in gioco. Gli educatori invece debbono poter diventare i pedagogisti di se stessi, acquisire quella capacità elaborativa che li fa pensare secondo una logica depressiva; una depressione amorosa che permette di poter stare dentro di sé senza smarrirsi, ma generando da sé intuizioni e scelte.
    Educare significa preservarsi un tempo di riflessione. Provocatoriamente mi ritrovo a dire agli educatori che è più importante un’ora di équipe anziché un’ora di lavoro con i gruppi. Solo in questo modo diventiamo i pedagogisti dell’educatore che siamo.
    Questo tempo di interiorizzazione dell’esperienza educativa ha una valenza importantissima specie per l’educazione dei più piccoli: poiché i bambini vivono nei pensieri e negli sguardi degli adulti, essi «sentono» se gli adulti dedicano tempo interiore per loro. Questo è il segnale della presa in carico: «Io ti ho portato dentro di me, tu vivi nei miei pensieri; la mia attenzione per te non finisce con questo incontro».
    Eppure incontro genitori nelle scuole-genitori che nella vita professionale sono persone in formazione, ma quando si entra in merito alle questioni educative dei figli perdono ogni forma di problematicità: tutto è già chiaro, il metodo educativo è già bello e definito. Quando poi chiedo loro un brainstorming sulle frasi educative ricorrenti emergono preconcetti e stereotipi. Difatti la forte carica emotiva di cui si parlava fa sì che nell’esperienza educativa regni l’istintività, la ricorsività dei modelli introiettati, la coazione a ripetere di automatismi relazionali.

    Dimensione di cura e presa in carico: i binari della relazione con l’altro

    La riflessione mi sta portando alle soglie di due concetti che credo hanno bisogno di essere meglio compresi: la dimensione di cura e la dimensione di presa in carico, due binari su cui viaggia la relazione con l’altro, nel cui equilibrio risiede la saggezza pedagogica e lo specifico educativo.
    Dicevo quindi che esistono due dimensioni nella relazione educativa: la dimensione di cura, dell’attenzione nel qui ed ora alla persona e ai suoi bisogni, cioè la dimensione sincronica.
    La sincronia con l’altro (ritorna qui la questione dei tempi affrontata precedentemente) comporta il raggiungere un’assonanza crono-fono-tono-emo-simbolica.
    Perché io possa entrare in con-tatto con l’altro, infatti, ho bisogno di comprendere i suoi tempi e sentire la sua dimensione emozionale, la sua tonicità corporea, la sua storia psichica: solo così, come due diapason all’unisono, posso entrare in sin-cronia, in sin-fonia, in sin-tonia e in sim-patia con l’altro. Infatti la dimensione di cura è la dimensione affettiva nell’educare dove si realizza il contenimento e la condivisione. Potremmo dire che è la dimensione materna, quella che dà calore, che porta in grembo la vita dell’altro.
    Incontro spesso educatori e operatori sociali portatori di una bellissima dimensione materna, ma il dare calore solamente tradisce un bisogno soggettivo dell’educatore, la sua paura del dis-tacco appunto. Un bimbo nasce quando gli si dà calore ma gli si dà anche la luce.
    E il dare la luce corrisponde alla parte maschile della dimensione educativa, la quale consiste nella dimensione dell’orientamento nell’educare, la componente dell’accompagnamento e del senso del limite: quello che in gergo psicologico si definisce il flash dell’identità. E ritornando alla questione iniziale, l’esperienza della cura si completa con quella della presa in carico, ovvero con la dimensione dia-cronica della relazione: l’affiancamento della persona nella sua quotidianità, nei suoi ritmi vitali, nel suo viaggio di vita.
    Cura e presa in carico, sincronia e diacronia con l’altro.
    Una volta nel chiedere una metafora dell’esperienza educativa, un’educatrice disse che la relazione educativa è come una musica: l’educatore è il pentagramma, il limite e il contesto entro cui l’altro può scrivere le sue musiche. L’immagine era illuminante, e quando chiesi a qualcun altro di esplorare ancor di più la metafora, egli ci fece notare che è possibile anche scrivere le note sopra e sotto il rigo, quasi che la trasgressione è una dimensione temporanea ma indispensabile per sentirsi autore della propria colonna sonora. Durante una esperienza di formazione in musicoarterapy imparai che noi siamo per-suona, ognuno con le sue sonorità nate dalla melodia (la dimensione materna) e dal ritmo (la dimensione paterna): infatti l’armonia è l’immissione di una ritmicità in una melodia di sottofondo.
    Voglio concludere questa suggestione ancora con un riferimento mitologico: Armonia è figlia di Polemos e Calliste, del conflitto e della bellezza. Ritorna quindi il tema del conflitto come passaggio decisivo per il raggiungimento di una armonia interiore e relazionale.

    Accordare il proprio strumento con l’altro

    Alla fine Icaro spicca il volo, si distacca da una realtà che lo tormentava, che lo inchiodava al sempre uguale, che lo faceva sentire passivo ed arreso, e non gli faceva vedere via d’uscita nel labirinto interiore ed esteriore.
    Ma il labirinto è anche simbolico di un conflitto precocemente evitato o subito. Nel conflitto occorre saperci stare, e questo significa che per entrare in risonanza con l’altro, per con-possibilizzare i reciproci ritmi (dell’educando e dell’educatore) occorre esercitarsi nell’accordare il proprio strumento interiore per acquisire quella sensibilità emotonica necessaria all’empatia con l’altro.
    Il lavoro di supervisione di équipe di educatori diventa allora la ricerca di un legame: «Cosa ti sta legando a quel ragazzo? Cosa pensi ti stia impedendo di entrare in sincronia con lui? A che danza-gioco vi state esercitando?». Rendersi danzatori sensibili alle movenze dell’altro, riuscire a palpitare di nessi: solo una relazione vissuta globalmente (crono-fono-tono-emo-simbolicamente) mette radici.
    Ritorna ancora l’ambiguità di fondo: lasciare che spicchino il volo o lottare perché mettano radici? L’educazione credo che sia il dare nome a queste dimensioni della vita, il dare nome ai vissuti che attraversano la vita, l’alfabetizzarci alle emozioni provate nelle varie esperienze.
    Nella teoria biosistemica si dice infatti che il riuscire a dare il nome proprio ad un vissuto personale libera quell’energia emo-azionale che rompe le corazze e le resistenze al cambiamento per attivare un processo elaborativo dell’esperienza di vita.
    Vi racconto a questo proposito un altro episodio. Era stata per tutto il tempo in un atteggiamento isterico, senza mai entrare nel clima di lavoro, quell’educatrice non ne voleva proprio sapere di lavorare quel giorno. Chiedo ad alcuni volontari di realizzare un esercizio per la lettura del linguaggio corporeo e l’educatrice si propone. Bisognava realizzare attraverso delle sculture corporee un proprio modo di vivere alcune emozioni. Tra le emozioni che propongo, l’educatrice opta per l’abbandono. Così cominciamo la lettura corporea. Quando arriviamo all’analisi dell’abbandono gli osservatori cominciano ad individuare le caratteristiche di quel tipo di vissuto. Mentre leggevamo la postura delle spalle ricurve e appoggiate al muro, delle mani senza energia, del ventre aperto ma senza tonicità, dell’inclinazione del capo, delle gambe contratte, il sorriso isterico dell’educatrice incominciò a trasformarsi in un ghigno, poi in una smorfia contratta, fino ad un pianto bloccato ma copioso. Interrompo l’esercizio. Rimaniamo tutti in silenzio per un po’, ad ascoltare le nostre emozioni, a risentire i propri passaggi emozionali, dal sorriso contratto, segno di chiusura, al pianto liberatorio.
    Alla pausa l’educatrice mi raggiunge e mi confida: «Sai, sto male, ma non so perché mi sento bene, era davvero tanto tempo che non piangevo... Forse per questo non riuscivo a tollerare più il pianto dei miei bambini». L’educatrice si portava dietro un’esperienza di abbandono che non era riuscita a confidare a nessuno ed ora sentiva la necessità di rimuoverla, e il blocco emotivo le impediva di mettersi in empatia con gli altri.
    Non si dà apprendimento senza emozione, ma non c’è cambiamento senza con-emo-azione: se percepiamo un riverbero nell’altro, se sentiamo che l’altro si con-muove per i nostri vissuti, allora io posso sentirmi riconosciuto e la vita tornerà ad appartenermi.
    Potremmo dire che esistono due forme di pedagogia: l’una genitale e l’altra anale. Quella «anale» è quella che offre soluzioni in confezione spray o in pappette omogeneizzate, già metabolizzata e «defecata» dall’educatore, senza alcuno sforzo di mordere la vita e faticare per la digestione, senza emozione appunto.
    La pedagogia «genitale» è una pedagogia dello scontro, della penetrazione nell’altro, dell’inseminazione di domande, dubbi, pro-vocazioni, sensazioni; la pedagogia genitale è una pedagogia dell’incontro, dell’emozionarsi, della passione per le cose, dell’avventura. Questa pedagogia è generativa, mentre l’altra è produttiva; l’una è una pedagogia relazionale ed euristica, l’altra agisce per obiettivi e programmi. Come per l’apprendimento: da una parte abbiamo l’apprendimento come controllo del mondo, un apprendimento per apprendistato, ripetitivo (Von Foestern direbbe la pedagogia delle domande illegittime, che non mette in ricerca la persona, ma la mantiene allo stato di passività); dall’altra abbiamo l’apprendimento/cambiamento attivo come sforzo nel dare senso alle proprie esperienze.
    A proposito di ciò mi viene in mente la storia di Humbolt, l’esploratore. Mosso da una grande passione per le terre inesplorate, egli è stata la persona che ha disvelato al mondo occidentale i segreti delle foreste amazzoniche. Ma il suo modo di esplorare era affetto dalla mania occidentale di misurare, comparare, classificare, catalogare. Per Humbolt era inconcepibile pensare che nel Rio dell’Amazzonia ci fossero gli spiriti che rapiscono i bambini e, spiegando agli indigeni che l’anaconda è un serpente innocuo, spezzò l’incantesimo, il senso dei miti e il valore delle favole. Colori di farfalla, nidi di uccello: tutto era schedato ed osservato (ossia reso servo), nulla contemplato. Un giorno il Rio dell’Amazzonia si vendicò, e gli appunti e i diari andarono persi nel fondo delle acque, e tutto andò smarrito, anche la bellezza del giaguaro e i colori delle farfalle. Humbolt non aveva avuto tempo per queste cose così inutili. Ma la smania dell’esploratore non si era esaurita, tornando in Germania tentò di riportare tutto su carta, ed ancora oggi conserviamo i suoi scritti e siamo a lui debitori. Qualche anno dopo la cattedra di zoologia di Monaco gli propose un nuovo viaggio, sulle Ande. «Perché proprio sulle Ande, in quelle montagne desolate?» – chiese. «Abbiamo ragione di credere che lei farà scoperte sensazionali» – gli dissero. Ma pochi sanno perché Humbolt partì per quelle terre dove lui sapeva che non c’era nulla di scientificamente interessante, e perché ci andò senza apparecchiature per misurare e catalogare. Mi piace pensare che Humbolt, nel caldo della sua casa, di fronte al fuoco del suo camino, fu assalito da sensazioni di vuoto, ricordi di quella terra meravigliosa, ma senza riuscirne a sentire gli odori e vederne i colori. La domanda che lo assaliva non era più: «Cosa altro c’è da conoscere», ma «Che senso ha il mio viaggiare?». Quello che la storia ci fa sapere è che Humbolt accettò la proposta senza però più fare ritorno da quelle montagne, così sperdute ma così vicine al cielo.

    La voglia irresistibile di volare: pedagogia della bellezza

    L’irresistibile voglia di volare prese il cuore di Icaro. Il giovane ebbe bisogno di provare l’ebbrezza del rischio, di osare nel vedere il sole più da vicino, di sentire il calore sulla pelle. Sono così giunto all’ultimo punto di questa mia riflessione: la bellezza nell’educare nel senso della pedagogia della bellezza.
    Ho parlato di analfabetismo emozionale di certa pedagogia, o come a me piace dire, la pedagogia anestetizzante. L’anestetico infatti ci toglie la sofferenza ma anche la sensazione di vivere, l’estetico ci fa sentire la bellezza della vita e qualche volta ci strugge.
    Si dà educazione quando la persona si sente considerata bella dall’educatore che ha scelto per la sua vita. Questo significa che l’educatore diventa il biografo della vita dell’altro, inducendolo a pensare: «Se mi ascolta così attentamente, se reputa interessante ciò che per me sembrava banale, allora vuol dire che la mia vita ha un suo valore, anzi è bella». Il senso estetico è la dimensione gratuita del gesto etico; l’estetico è il vero fine dell’etico.
    Mi viene in mente quella storia del poeta Rilke, che ogni giorno passeggia nel parco con il suo amico prete, discorrendo della vita e dei suoi misteri. Ed ogni giorno passavano davanti ad una vecchietta che chiedeva l’elemosina. Quella volta, senza pensarci più di tanto, Rilke le regalò una rosa. Il giorno seguente la panchina dove sedeva la vecchietta rimase vuota. In silenzio e con un po’ di sgomento i due amici attraversavano il parco. Anche nei giorni successivi la panchina rimase vuota. Poi, un bel giorno, ecco di nuovo la vecchietta sulla solita panchina a chiedere l’elemosina. Contenti i due si guardarono con sollievo, poi il prete chiese al poeta: «Ma di cosa avrà vissuto quella vecchia nei giorni in cui non ha raccolto la sua elemosina?». E Rilke rispose: «Avrà vissuto della rosa».
    Credo che l’insegnamento più bello che ci perviene dalla pedagogia dell’autobiografia sia che la formazione è tale quando c’è tras-formazione.
    La bellezza di una storia di vita è la sua tras-figurazione, la vita diventa unica e la persona sente che è stata scelta per quella che è.
    Ogni educatore è scelto e dovrebbe a sua volta scegliere. Una volta un ragazzo chiese ad un educatore: «Ma tu quanto guadagni?». L’educatore rispose: «Io non lo faccio per i soldi». Peccato che quell’educatore non colse il messaggio implicito che il ragazzo voleva mandargli: «Ma la mia vita ha un costo, oppure vale comunque?».
    Il verbo amare si coniuga in tre modi: amare, essere amato, sentirsi amabile. E questo terzo verbo che noi impariamo a coniugare quando ci sentiamo scelti ed ascoltati.
    Esiste una fertile incomunicabilità negli esseri umani: siamo biografie invisibili agli altri, e la bellezza è in quel lento aprirsi di immagini inedite. La curiosità prepara l’attimo del dis-velamento. L’educatore è un esploratore e un facilitatore di ricerca. Come dice il sapiente: saper entrare a piedi nudi nella terra sacra dell’altro.
    L’educatore sa che siamo reciprocamente rivelanti e rivelati, e che si è chiamati a ricucire l’itinerario coscienziale a volte interrotto bruscamente, a volte frantumato e disperso in tanti luoghi, altre volte mai iniziato o smarrito chissà dove.
    La relazione educativa è fatta di barlumi di visibilità interiore, così come la bellezza è fatta di attimi. Noi siamo ri-velazione, e la pedagogia è al confine tra la consapevolezza di sé offertaci in dono e il ritorno solitario al proprio mondo individuale.
    La conoscenza oggettiva dell’altro ingabbia la persona, egli farà fatica a trasporsi in un’immagine altra di sé. Il gioco del «Se fossi...» è simbolico del lavoro educativo: ex-ducere, non solo nel senso di portar fuori, ma nel condurre in un luogo altro dove potersi immaginare. La relazione educativa dovrebbe indurre il piacere della metamorfosi, il desiderio di una nuova vita. Mi hanno insegnato che desiderio significa: de-sider, cioè andare su una stella, immaginare la terra e ritornarci con il nuovo progetto, proprio come quando esprimiamo un desiderio quando vediamo una stella cometa. E, visto che ci sono, continuo il gioco di parole: l’educatore non risponde ai bisogni, essi sono legati al passato, ma stimola desideri, che fanno guardare al futuro, perché una vita senza desideri è proprio un dis-astro, una stella in meno nel cielo.
    Un ultimo racconto, anzi due episodi che io collego e che mi hanno fatto molto riflettere. Durante il mio servizio civile ho affiancato un ragazzo di cui non sapevo nulla. Era molto dolce con me. Un giorno, poi, la psicologa mi volle parlare di lui perché il mio intervento fosse più mirato, e mi rivelò episodi agghiaccianti della sua vita, fino a scoprire che era un potenziale parricida. Il ragazzo sapeva di questo incontro, e quando ci rivedemmo mi chiese subito cosa la psicologa mi avesse detto. Imbarazzato lo tranquillizzai: ma da quel giorno il nostro rapporto cambiò per sempre. Non ho più notizie di lui. Tanti anni dopo, nell’accoglienza in comunità di un ragazzo si valutò l’ipotesi di non leggere la scheda anamnestica dei servizi sociali del Tribunale. Con nostra grande sorpresa, questa decisione, anziché favorire il ragazzo nel suo processo di reintegrazione lo mandò in confusione, ed in tutti i modi tentò di farci conoscere il suo «curriculum vitae». Quel ragazzo era ormai ingabbiato in un ruolo distruttivo, magari faticosamente costruito, ma almeno era quello che sapeva fare.

    Educazione come comunicare res-ponsabilizzante

    Due episodi apparentemente opposti, ma con un significato unico: conoscere tutto, indagare noi su cause, eventi, problemi, significa de-res-ponsabilizzare la persona, nel senso che non è portatore più di un messaggio. Ognuno, invece, ha le sue buone ragioni per comportarsi in quel modo. Ogni comunicazione è un co-municare, è un far partecipe l’altro del mio stato di vita. Solo la persona può raccontare se stessa.
    Educare allora significa ridare potere, il potere di sentire che le mie azioni hanno senso, la vita, qualunque cosa faccio, mi appartiene. Le forme espressive sono legittime perché diventano comunicative grazie alla altrui comprensione. Anche la trasgressione è un intenzionalizzare il proprio mondo. Educare significa ancora far cogliere che il mondo è un pre-testo sulle cui pagine possiamo scrivere il nostro romanzo di vita.
    Come insegna l’ermeneutica, il mondo di per sé non ha un senso, ma aspetta che noi lo intenzionalizziamo. Se invece la persona è mis-conosciuta, rimarrà intrappolata nel gioco induttivo altrui, proprio come quel ragazzo ritenuto un potenziale parricida. Credo che quel ragazzo abbia ragionato un po’ così: «Se tu non riconosci i miei sforzi, allora il mondo è già dato, tutto è stato scritto, io non ho il potere di cambiare nulla, io non sono capace di niente, non valgo, tanto vale seguire l’istinto». Questa disistima porterà ad usare il mondo e non a tras-formarlo creativamente, o forse a distruggerlo perché troppo invasivo, o forse a chiudersi in se stessi perché troppo forte questo mondo già bello e definito. Spesso chiedo agli educatori: provate a ricordare un’esperienza di stima e di disistima ricevuta, e ricordate la vostra reazione corporea a tale esperienza. Ed ora provate a ricordare un’esperienza in cui vi siete sentiti profondamente ascoltati e una in cui non vi siete sentiti ascoltati.
    L’apprendimento che emerge da questi ricordi è che una persona, vissuta in un clima di passività, di dis-conoscimenti continui, di giudizi distruttivi, svilupperà atteggiamenti violenti per sé o per altri. Una persona stimata, capace di autostima, e di attenzione verso il mondo esterno è libera di ri-vedersi nel passato e di re-inventarsi per mille altri futuri.
    Credo che il mondo si possa dividere in chi ha curiosità e chi l’ha persa, in chi ha sempre una pagina bianca da scrivere e chi non sa più recitare a soggetto. E il lavoro pedagogico, tra resistenze e metamorfosi, tra conflitti e bellezza, si gioca negli spazi di duttilità che l’identità di una persona conserva e lascia che noi li possiamo abitare.
    Voglio concludere questa mia lunga riflessione con le parole di un vescovo rimasto ad abitare quegli spazi di tenerezza di molti cuori. Egli parlava ad un gruppo di giovani, tra cui uno spaurito e curioso «ragazzino»: «In piedi, costruttori di pace! Coraggio, che questo nostro mondo non ha ancora finito di stupirci, ma soprattutto questa nostra vecchia terra aspetta da noi nuovi significati e inedite storie di pace e di amore». Quel ragazzino ero io.


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    Etty Hillesum
    una spiritualità
    per i giovani
     Etty


    Semi e cammini 
    di spiritualità
    Il senso nei frammenti
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    Ritratti di adolescenti
    A cura del MGS


     

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