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    Luis A. Gallo

    (NPG 2001-04-28)



    La breve analisi biblica fatta precedentemente è sufficiente per far apparire la ricca complessità dell’autentica fede cristiana. Si tratta di un’esperienza che comporta più componenti. Le principali sono queste tre: conoscenza, fiducia, azione.

    Come abbiamo visto, la loro articolazione non è stata sempre uguale nella vita concreta della Chiesa. Per molti secoli si è accordato un ruolo predominante, anche se non esclusivo, alla conoscenza delle verità rivelate da Dio; più vicino a noi tale ruolo è stato attribuito alla fiducia nel rapporto interpersonale con Dio; oggi c’è chi lo assegna all’azione mirata all’attuazione del progetto di salvezza da Lui rivelato.
    Al di là di queste accentuazioni, si può dire con fondamento che credere da cristiani significa accogliere in un clima di radicale fiducia il disegno di salvezza rivelato da Dio per mezzo di Gesù Cristo, e impegnarsi attivamente nella sua attuazione.

    Credere significa accogliere con radicale fiducia il mistero rivelato da Dio

    Non è raro incontrare dei cristiani per i quali credere è soprattutto accettare a occhi chiusi le verità che ritengono rivelate da Dio, e che vengono proposte dalla Chiesa principalmente nel suo Credo, nei suoi dogmi e nelle altre formulazioni del Magistero.
    Li conferma in quest’idea il fatto che lo stesso simbolo di fede che recitano nella celebrazione domenicale – il Credo niceno-costantinopolitano – appaia ai loro occhi come l’elenco di una serie di verità riguardanti Dio, Gesù Cristo, lo Spirito Santo e la Chiesa. Per di più, formulate in un linguaggio eminentemente concettuale. E li conferma anche il voluminoso Catechismo della Chiesa Cattolica che ha voluto presentare, come servizio alla fede dei suoi membri, «una esposizione organica e sintetica dei contenuti essenziali e fondamentali della dottrina cattolica sia sulla fede che sulla morale» (n. 11), ossia l’insieme di ciò che la Chiesa d’oggi ritiene essi debbano sapere per poter vivere in coerenza con la loro condizione di battezzati. Tutta la prima parte del Catechismo è dedicata a esporre «la professione di fede», cioè quello che «coloro che per la fede e il Battesimo appartengono a Cristo devono confessare […] davanti agli uomini» (n.14).
    Eppure, la Bibbia ci insegna che la vera fede non è questo. O meglio, non è solo questo. Che ci sia anche bisogno di conoscere ciò che Dio ha rivelato è indiscutibile; ciò che è invece discutibile, e può essere perfino fuorviante, è il fare della fede un fatto prevalentemente conoscitivo. Credere, infatti, come lo dice l’esperienza, è anzitutto fidarsi di qualcuno, e di conseguenza accogliere ciò che questo qualcuno dice su cose che non si è in grado di conoscere direttamente. Lo si esperimenta ogni giorno in tanti modi, anche nelle conversazioni più ordinarie. Perciò già nell’antichità Aristotele diceva che credere è conoscere per testimonianza di un altro, di cui si conosce la competenza e l’onestà.
    Ma c’è fiducia e fiducia. C’è la fiducia che si presta a chi trasmette le notizie attraverso la radio o la televisione, c’è la fiducia che si ripone nel medico che formula la diagnosi di una malattia, e c’è la fiducia con cui si ascolta un amico che ci svela le proprie e irripetibili intimità personali. In quest’ultimo caso, ciò che si accoglie con fiducia non sono delle mere informazioni oggettive, ma è in qualche modo il mistero stesso della persona, consegnato in un clima di reciproca confidenza.
    La fede cristiana si colloca in quest’ultimo ambito. Come disse il Vaticano II nella Costituzione Dei Verbum, «piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare Se stesso, e manifestare il mistero della sua volontà […]. Con questa rivelazione, il Dio invisibile, nel suo grande amore, parla agli uomini come ad amici» (n. 2). È chiaramente indicata l’atmosfera in cui viene ubicato il dialogo di Dio agli uomini, quella dell’amore e dell’amicizia. Come è chiaramente indicato anche il contenuto del suo colloquio. Non comunica della verità oggettive, ma qualcosa di impareggiabilmente soggettivo: rivela se stesso e il mistero della sua volontà. Come dicono gli studiosi del tema, si auto-comunica. Si potrebbe dire che Egli esce all’incontro degli uomini con il cuore in mano. Intendendo per «cuore» ciò che di più intimo e personale c’è in Lui. E in questo «cuore», è racchiuso, come in uno scrigno, il suo «mistero».
    La parola «mistero» può significare molte cose, tutte in qualche modo collegate con l’idea del nascosto, dello sconosciuto. Spesso, anche in ambito cristiano, la si è adoperata per designare le verità che superavano totalmente la capacità della ragione umana e perciò rimanevano di per sé completamente irraggiungibili. Erano «i misteri della fede». Ma in questo caso ci si muoveva ancora nell’ordine delle realtà oggettive, e non in quello dei rapporti interpersonali ai quali accenna il testo sopra citato. In esso, infatti, il temine «mistero», di chiara estrazione biblica, fa riferimento al grande disegno di salvezza concepito «nel suo grande amore» da Dio sin dall’eternità in favore degli uomini. Un disegno che è frutto della sua libera decisione, della sua «buona volontà» verso l’umanità, come dice S. Paolo nella sua lettera agli Efesini (Ef 1,9). In quanto tale, era «nascosto» nell’intimità del suo cuore.
    Egli ha voluto dirlo agli uomini, come ad amici, per invitarli a incorporarsi in esso. E lo disse a poco a poco, lungo la storia, mediante avvenimenti e parole umane carichi della sua intimità divina. Per secoli e secoli uomini e donne furono protagonisti di questo dialogo di amore, ascoltando le confidenze di Dio su una grande promessa. Li abbiamo ricordato precedentemente: Abramo, Sara, Mosè, Davide, i profeti, e tanti e tante altri, pur non vedendo realizzata la promessa, vissero attendendo con fiducia il suo compimento (Eb 11,13). Finalmente, Egli svelò pienamente questo suo disegno nella persona e nella vicenda di Gesù di Nazaret (Eb 1,1). Il trionfo pieno e definitivo della vita sulla morte nella sua risurrezione sono la parola ultima di Dio agli uomini o, detto in altro modo, Gesù Cristo risorto è la Parola di Dio in persona. Ciò che la potenza vivificante di Dio fece in lui, strappandolo dal sepolcro e portandolo alla pienezza della vita, è ciò che nel suo amore eterno ha deciso di fare con tutti ed ognuno.
    Credere è, quindi, come afferma ancora la Costituzione Dei Verbum, «abbandonarsi totalmente e liberamente a Dio prestandogli il pieno ossequio dell'intelletto e della volontà, e assentendo volontariamente alla rivelazione che egli fa» (n. 5). È un rispondere con fiducia totale alla fiducia totale che Dio manifesta nel consegnarsi, indifeso, all’uomo, svelandogli la sua intimità e il grande sogno che ha concepito da sempre su di lui.
    Ne consegue che la fede, così intesa, rende capaci gli occhi dell’uomo non solo a guardare Dio come ad un amico, ma anche a guardare se stesso come è guardato da Dio, e cioè, come un essere destinato alla pienezza della vita e della felicità.
    Lontano, quindi, dall’essere una mera adesione a delle verità misteriose e irraggiungibili con l’intelligenza umana, la fede è anzitutto adesione fiduciosa alla persona di Dio e di Colui in cui Egli ha voluto dire pienamente Se stesso, Gesù Cristo. Un’adesione che, proprio perché è fiducia nella loro persona, diventa anche accoglienza di ciò che essi dicono. «Io credo in te, perciò credo ciò che tu mi dici», come dicevamo anteriormente, è la frase che esprime tale atteggiamento.
    Ciò ci aiuta a capire che i contenuti a cui aderisce il credente non sono un cumulo di verità oggettive giustapposte tra di loro, ma una serie di comunicazioni salvifiche che si dispongono attorno ad un nucleo centrale, quello della morte e risurrezione di Gesù Cristo come rivelazione del destino personale e collettivo dell’umanità. L’abbiamo ricordato nel tema precedente, citando il libro degli Atti: «Gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù con grande forza» (4,33). Tutto ciò che essi andavano annunciando gioiosamente era condensato in questo contenuto essenziale, e ad esso faceva riferimento direttamente o indirettamente. Dimenticare ciò significa travisare la fede nella sua più genuina identità.
    Va ancora detto che, proprio perché esiste un nucleo centrale nella fede, esiste anche una gerarchia tra i suoi contenuti. Il che vuol dire che non tutti i suoi enunciati hanno la stessa importanza. Certo, se li si pensa nella prospettiva della semplice trasmissione di verità, è facile arrivare a livellarli tutti senza percepire differenza alcune tra di essi. È successo così molte volte nella Chiesa, come conseguenza di un certo modo di comunicazione pastorale e catechistica che puntava prevalentemente sulla conoscenza.
    Il Vaticano II ci ha orientato invece in un’altra direzione, anche in vista del dialogo con i fratelli delle altre chiese e confessioni cristiane. Nel suo documento Unitatis redintegratio sull’ecumenismo, infatti, raccogliendo le riflessioni di diversi teologi contemporanei, si premurò di enunciare il seguente criterio: «Nel mettere a confronto le dottrine si ricordi che esiste un ordine o ‘gerarchia’ nelle verità della dottrina cattolica, in ragione del loro rapporto differente col fondamento della fede cristiana» (n. 11). È la vicinanza o la lontananza che gli enunciati hanno nei confronti di tale «fondamento», ciò che decide anche della loro maggiore o minore importanza. Se si fosse tenuto presente questo criterio in altri momenti della storia, probabilmente si sarebbero risparmiati non poche condanne e non pochi roghi nella Chiesa.

    Credere significa impegnarsi nell’attuazione del progetto di Dio

    È apparso chiaro nelle figure di credenti che abbiamo richiamato alla memoria: essi hanno espresso la loro fede rispondendo attivamente ad una promessa di vita e felicità che veniva loro annunciata da Dio, una promessa fatta sullo sfondo, più o meno esplicitamente intuito, del suo grande disegno di salvezza per l’umanità intera. Tutti senza eccezione, tanto quelli dell’Antico quanto quelli del Nuovo Testamento, hanno dimostrato di aver abbracciato quel disegno agendo in ordine alla sua attuazione. Essi non si sono accontentati di ascoltare l’annuncio, non hanno concentrato il loro sforzo principalmente nel capirlo, ma soprattutto si sono dati a metterlo per opera.
    L’impegno fattivo della fede è fortemente sottolineata negli scritti neotestamentari. Tanto da farlo diventare criterio definitivo di giudizio sulla realizzazione di una persona. Ne è un chiaro esempio la parabola di Mt 25,31-46, nella quale il fatto di venire operosamente incontro al fratello piccolo per sopperire ai suoi bisogni, viene proposto come «tessera di identità» di coloro che appartengono al regno eterno del Padre. Si potrebbero capire a questa luce diverse altre parole di Gesù. Tra esse, quelle riportate dallo stesso vangelo di Matteo: «Non chiunque mi dice: ‘Signore, Signore», entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt t,21), e quelle altre da lui dette alla folla quando i suoi parenti erano venuti a prenderlo per riportarlo a casa, perché pensavano che aveva perso il senno: «Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre» (Mt 12,50; cf Mc 3,35; Lc 8,21).
    Credere consiste in definitiva, quindi, nel fare la volontà del Padre, come Gesù stesso la fece. Per lui, da quel che si vede nei vangeli, la volontà del Padre suo è una sola: la venuta del suo regno, la realizzazione del suo grande disegno d’amore in favore degli uomini, quel grande disegno il cui obiettivo supremo è «che [gli uomini] abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). A questo egli invita tutti e ognuno di coloro che lo vogliono seguire.


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