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    I (new) media a scuola: modelli di educazione a confronto


    Gianna Cappello *

    (NPG 2001-03-45)


    «Da dove viene il vento?» «Dagli alberi,
    risponde il bambino senza esitare. «Dagli alberi?»
    «Certo! Guarda qui – dice il piccolo
    agitando la mano sotto il naso del professore che
    sente la barba bianca attraversata da un refolo –
    se ci riesco io, pensa quanto vento può fare
    una grande quercia quando si muove!»

    Seymour Papert racconta sempre questo piccolo episodio per dimostrare quali sorprendenti e fantasiosi giri di analogie e associazioni i bambini riescono a compiere, «anelli logici e creativi che finiscono troppo spesso per essere irreggimentati, irrigiditi dalle verità che insegnano gli adulti». Se, come dice Piaget, conoscere è inventare – ci ricorda ancora Papert – le nuove tecnologie sono una grande risorsa di creatività, conoscenza ed esperienza di cui la scuola non può non tenere conto.
    Per poter sfruttare al massimo tutte le potenzialità di questa risorsa, va però riconosciuto che l’introduzione delle nuove tecnologie in ambito scolastico porta immancabilmente a una ridefinizione del concetto di formazione, dell’identità e del ruolo della scuola, dei suoi modelli culturali di riferimento, delle sue modalità di dialogo con gli studenti e con il mondo circostante. Da un punto di vista strettamente didattico le nuove tecnologie contribuiscono a creare un ambito di apprendimento particolarmente collaborativo e operativo in vista della realizzazione di progetti concreti (costruzione di «blob» audiovisivi, rappresentazioni multimediali, ipertesti, computer animation, comunicazione e cooperazione online) nella consapevolezza che ciò che conta in fase di verifica e valutazione non è tanto (o non solo) il prodotto finale quanto le competenze, le attività, le riflessioni compiute nel corso della produzione.
    Le nuove tecnologie mettono in crisi il concetto tradizionale di formazione e in particolare l’idea che la formazione si possa e si debba svolgere in un ambito protetto – la scuola – dove ogni relazione con il mondo circostante (e con le più diverse sollecitazioni che da questo provengono) viene rigidamente filtrata a difesa di un distacco istituzionale e culturale ritenuto unica garanzia di obiettività, neutralità, rispetto della tradizione. Dalla problematizzazione di questa idea deriva la necessità di una scuola che sappia porsi in una posizione più (positivamente) interlocutoria verso le nuove tecnologie (e i media in genere) nella consapevolezza che non si tratta semplicemente di «strumenti» di comunicazione, ma del tessuto stesso di cui si compone il nostro ambiente di vita, un ambiente in cui si sono accelerati i processi di cambiamento e di decisione, si sono allargati gli orizzonti, si sono accresciute le potenzialità relazionali e cognitive, e quindi la visibilità reciproca delle culture, delle identità, degli stili di vita.
    Entra in crisi anche la rigida scansione curricolare del sapere e dell’esperienza, l’idea cioè che l’esplorazione delle molteplici variabili culturali si sviluppi e possa essere razionalizzata all’interno di discipline autosufficienti sulla base di criteri di logicità, analiticità, pianificazione e prevedibilità. Secondo questa concezione tutto, «dall’area dei contenuti della formazione alle dinamiche cognitive e non cognitive dell’apprendimento all’uso dei mezzi, deve essere sottoposto al vaglio logico (ed estetico) di una progettazione spinta. Nulla deve essere lasciato al caso». Una formazione intesa in questo modo non può non entrare in contrasto con i paradigmi conoscitivi sollecitati dalle nuove tecnologie, caratterizzati dalle nozioni di interdisciplinarità ed espansione reticolare, di complessità e contaminazione dei contenuti, di pluralità e fluidità delle modalità e delle fasi di apprendimento, di mobilità e interscambiabilità degli elementi di base dei saperi.
    Cambia anche la fisionomia del docente. Grazie alla maggiore disponibilità del sapere resa possibile dalle nuove tecnologie di archiviazione (CD-rom) e di circolazione delle informazioni (le reti), il suo ruolo non è più quello di fonte esclusiva del sapere, ma di mediatore, di catalizzatore dell’apprendimento lasciando molto più spazio all’intervento degli alunni i quali, in un’ottica costruzionistica, creano giorno dopo giorno i loro stessi percorsi formativi. Si assiste, insomma, a «una ridefinizione dell’intervento formativo più nel senso di una fornitura di abilità (saper fare) che non di informazioni (sapere): nella società della comunicazione non occorre più rendere disponibile un sapere già a disposizione, ma far acquisire delle competenze per interagire correttamente con esso».
    Viene problematizzata, infine, la presunta supremazia di un’intelligenza dell’«astrazione» rispetto a un’intelligenza dell’«immersione». Contrariamente a una vulgata abbastanza diffusa del pensiero piagetiano, secondo cui lo sviluppo del bambino procede per stadi «elevandosi» (grazie soprattutto alla scuola) da una intelligenza di tipo empirico e operativo (un’intelligenza delle cose e delle situazioni concrete) a un’intelligenza di tipo analitico e astratto (un’intelligenza delle forme e dei concetti), e contrariamente all’idea che quella debba essere necessariamente rimpiazzata da questa (ritenuta pedagogicamente e culturalmente più appropriata), le nuove tecnologie dimostrano come di fatto le due intelligenze coesistono man mano che si cresce. Ciò impone l’adozione di un atteggiamento pedagogico che alla logica lineare degli stadi evolutivi a compartimenti stagni sostituisce la logica reticolare della compresenza e della molteplicità delle identità e delle intelligenze. Scrive Maragliano, «ognuno di noi, in quanto adulto improntato alla supremazia del pensiero astratto, non smette, per le sue faccende quotidiane – di rapporto con gli altri, con se stesso, con il mondo – di esercitare assiduamente gli schemi del pensiero operatorio concreto, e anche di quello sensomotorio. Per svolgere attività apparentemente molto semplici (orientarsi dentro uno spazio non conosciuto, far funzionare una macchina, preparare un piatto, e così via) egli attinge con generosità agli schemi intuitivi di un sapere pratico e difficilmente formalizzabile. In questi frangenti in lui non agisce il precipitato degli apprendimenti formali; a poco gli serve la grammatica del sapere geometrico, di quello ingegneristico, di quello matematico; gli è necessario invece far ricorso a quelle risorse di intuitività, di problematizzazione empirica, di esercizio delle dinamiche «prova ed errore», di partecipazione e condivisione affettiva del contesto di conoscenza e di azione, di valorizzazione del patrimonio assolutamente originale delle esperienze e delle enciclopedie che, sole, gli garantiscono la fuoriuscita dalle situazioni problematiche».
    In altri termini, le nuove tecnologie sollecitano il riconoscimento della valenza conoscitiva e pedagogica del coinvolgimento corporeo-affettivo, della simulazione, del gioco, dell’operatività concreta, tutte forme di conoscenza e di interazione con la realtà che la scuola solitamente ignora o comunque relega ai laboratori, alle ore di educazione fisica/artistica/tecnica, ai minuti della ricreazione. La marginalizzazione di questa modalità conoscitiva nasce da un pregiudizio fortemente radicato nella scuola che vede nel testo scritto il solo strumento didattico capace di giungere a un sapere «serio» che acquista tanto più valore quanto più viene distillato attraverso lo sforzo, la dedizione, l’impegno, il rigore analitico, il distacco. La supremazia erroneamente attribuita al sapere raggiunto attraverso la scrittura, porta alla sottovalutazione delle potenzialità cognitive delle tecnologie multimediali le quali, operando per analogia, associazione e condensazione del significato, offrono un tipo di sapere «leggero», superficiale, empirico, «mondano». Ovviamente non si tratta di «rompere con i valori della serietà per affermare gli ideali della leggerezza e del gioco. Si tratta invece di lavorare a creare le condizioni per una compresenza tra i due stili di azione pedagogica e per un loro dialogo». Si tratta di riconoscere che anche il gioco è conoscenza, che la dimensione affettiva (il piacere di «immergersi»), lungi dal rappresentare un momento di superficiale godimento sensoriale, contribuisce a suo modo all’arricchimento cognitivo.
    Immersione e astrazione sono dinamicamente chiamate in causa nel nostro rapporto quotidiano con i media. E lo devono essere anche quando i media entrano a scuola concretizzandosi nelle più diverse attività didattiche. Si pensi, per esempio alla possibilità offerta dal videoregistratore di bloccare e segmentare il flusso televisivo (o anche di un film) per sottoporlo a un’attenta opera di scomposizione e analisi; si pensi ancora alla videocamera e alla possibilità che essa offre di adottare criticamente stili rappresentativi (inquadrature, angoli di ripresa, setting, ecc.) e punti di vista (dell’operatore, dei personaggi, del pubblico, ecc.) diversi; ma si pensi anche al grado di approfondimento di contenuti e prospettive offerto da un ipertesto; o alle strategie di comportamento e adattamento, alle capacità di previsione, prevenzione e problem-solving mobilitate da un videogioco: in questo caso l’utente unisce all’intelligenza motoria necessaria per agire sulla tastiera e con il joy-stick, l’intelligenza mentale necessaria per sviluppare una strategia di attacco, prevedere una mossa dell’avversario, attivare azioni combinate, insomma dialogare «con la macchina e comunicarle le informazioni giuste perché avvenga ciò che è nella sua mente... Non c’è disunione tra la persona fisica, la macchina e il programma: un buon giocatore deve «‘pensare con le dita’».
    Pertanto, sebbene la scuola mantenga intatto il suo diritto-dovere di stimolare modalità cognitive e di pensiero più astratte e meno legate a logiche fattuali ed empiriche, non può assolutizzare tali modalità come uniche vie di accesso alla conoscenza. Solo in questo modo si potrà cominciare a colmare il divario che si è venuto a creare tra il mondo non alfabetico (o post-alfabetico) del multimedia e il mondo alfabetico della scuola.
    Ancora una volta, va ribadito che non si tratta di una sostituzione tout court del secondo con il primo, quanto di un’articolazione continua tra approcci didattici e regimi di saperi di diversa natura. Occorre, insomma, gettare un ponte tra un apprendimento «immersivo» (che si nutre di immagini, suoni, movimento) e apprendimento «astrattivo» (dominato dalla parola scritta).
    * Segretaria Generale del MED (Associazione Italiana per l’educazione ai media e alla comunicazione). Sito Web: www.medmediaeducation.it


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