Nicoletta Grieco
(NPG 2000-07-6)
È cominciato tutto un anno fa. Avevo qualche chilo di troppo, o meglio, diciamo che ero come sono a volte le tredicenni, non grassa certo, ma con quelle rotondità che incominciano a spuntare dopo l’adolescenza. Però non mi piaceva: non mi piacevo, avrei voluto tornare al mio corpo infantile, snello e sinuoso senza un filo di grasso. E invece quella natura femminile era prepotente: ogni giorno potevo vedere cambiamenti nel mio corpo, e i vecchi jeans non mi entravano più.
Così decisi che dovevo dimagrire. Iniziai quasi per gioco, insieme ad Anna, la mia compagna di banco che aveva anche lei gli stessi problemi.
All’inizio fu solo rinunciare a delle golosità particolari, come le patatine o i cioccolatini: dopo però, quando incominciai a vedere i primi risultati, divenne quasi una mania. Mi pesavo tutti i giorni e ogni etto perso era un vittoria: una felicità sottile si impadroniva di me, ed era più forte di qualunque tentazione. Nulla mi faceva più gola o, se succedeva, era comunque più forte la sensazione di vittoria che conseguiva alla tentazione dominata.
Stavo dimagrendo sul serio, e provavo un forte senso di onnipotenza e di dominio sul corpo: cominciai a comprare libri di alimentazione, conoscevo perfettamente la quantità di calorie di ogni cibo da me ingerito, avevo eliminato completamente la pasta, i carboidrati e i cibi grassi.
La magrezza era un mito da perseguire: le immagini delle modelle scheletriche degli anni ’60 i miei idoli. Mi sembrava assolutamente più dignitosa della grassezza, un ideale di spiritualità totale, di astinenza purificatrice. Avrei voluto assottigliarmi contro i muri per svanire, asessuata, invisibile agli occhi del mondo. Il dominio sul cibo mi faceva sentire superiore, come se gli altri cedessero ad una tentazione carnale mangiando, come se fossero schiavi di un qualcosa di sporco e prosaico.
Io mi sentivo pulita dentro, in pace con me stessa quando accarezzavo il ventre piatto e sentivo le ossa del torace sotto le dita.
I miei genitori cominciarono a preoccuparsi: mia madre mi stava dietro costantemente offrendomi del cibo. A pranzo e a cena era un tormento continuo con lei che mi preparava i manicaretti più prelibati per invogliarmi. Mio padre la prese ancora peggio: un giorno a tavola, fuori di sé, mi spiaccicò sul viso una mozzarella nel tentativo di farmela ingoiare. Alla fine, sottostando alla violenza la ingoiai, ma fu per poco, corsi in bagno a vomitarla immediatamente. Quella sera sentii mio padre piangere nella sua stanza.
Mi portarono da tutti i medici più bravi, mi fecero ogni sorta di iniezioni, ma nulla mi indusse a ricominciare a mangiare. Era come farmi rinunciare ai miei ideali, o tradire il mio migliore amico, come commettere qualcosa di immorale.
A scuola i compagni mi guardavano con un misto tra pena e ribrezzo, ma io non ci facevo caso, pensavo che fossero invidiosi della mia forza, della mia volontà superiore a qualsiasi altro bisogno.
Tuttavia, come a conferma della giustezza del mio comportamento, non avevo ancora conseguenze fisiche: non mi sentivo debole, anzi, sentivo di avere la mente più lucida che mai e anche gli sforzi fisici non mi erano difficili.
Poi, d’improvviso, un giorno persi i sensi. Da allora non ricordo più molto, so solo che sono stata in coma per molto tempo e poi, miracolosamente, ne sono uscita.
Sono attaccata alla vita, e questo, dice il mio psichiatra (che adesso mi ha in cura) è stata la mia salvezza.
Non starò a raccontarvi i motivi per cui la mia anima si è ammalata e ha fatto ammalare il corpo. So di essere malata, e questo è già molto, sto combattendo questa malattia come se ne combattono molte altre, ne sono pienamente cosciente e per il momento è già abbastanza. Ho ripreso qualche chilo, sono ancora magrissima, ma adesso non sono sicura di piacermi così tanto. Sono giovane, so che ce la farò, il tempo è dalla mia parte.