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    Handicappati e comunità cristiana


    Giuseppe Morante

    (NPG 99-07-05)


    Introduzione al dossier

    C’è accoglienza per gli handicappati nella comunità parrocchiale? Si preparano per loro catechisti e animatori competenti? Si offre loro una proposta specifica di cammino di fede?
    Sono questi tre interrogativi che si pongono i responsabili dell’Ufficio Catechistico Nazionale (area dell’handicap) a proposito della pastorale e della catechesi per gli handicappati nelle nostre comunità parrocchiali e oratoriane (cf 2° Convegno dei responsabili diocesani della catechesi nell’area dell’handicap, in «Catechesi, 4 (1996), pp. 68-74, a cura di Federici). Lo scopo è quello di «promuovere una più responsabile e sapienziale presa di coscienza del problema dell’handicap nelle famiglie, negli educatori e animatori, nei catechisti e nelle comunità parrocchiali».
    È vero che ogni cammino pastorale è lungo; ma queste tre domande ripropongono un problema urgente, la cui soluzione appare ancora molto lontana. Nonostante gli inviti dei responsabili e qualche lettera pastorale di alcuni vescovi, «appare evidente» che la pastorale e la catechesi degli handicappati «non è molto evidente» nelle comunità parrocchiali; senza tuttavia misconoscere l’impegno di chi in qualche modo vi si dedica con zelo e lungimiranza.
    Il convegno citato ci augurava che in ogni parrocchia ci fosse almeno un catechista per l’handicap. Si tratta di un obiettivo minimo, lì dove il problema si pone. Infatti la comunità cristiana è invitata a costruire un futuro, ponendo dei segni concreti oggi, superando una certa mentalità ancora largamente diffusa di disinteresse, di pietismo e di elemosina... nei confronti degli handicappati.
    Le persone con problemi di handicap, più degli altri, hanno diritto di essere accolte e riconosciute parte integrante della comunità cristiana e di poter ricevere un adeguato annuncio cristiano. E tutto ciò come se fosse una cosa normale. Perciò, come tutti gli altri, esse hanno diritto di essere integrate nella chiesa locale e questa, per essere autenticamente se stessa nel senso evangelico, deve considerarle come un dono; come soggetti attivi di evangelizzazione e come ricchezza per tutta la comunità, e non solo come destinatari più o meno passivi a cui offrire qualche sporadico servizio pastorale.
    Sarà necessario, a questo scopo, organizzare un’azione pastorale di accoglienza che si compie in tre momenti che non sono da considerare diacronicamente come successivi nel tempo, ma che al contrario si attuano simultaneamente. E diventa una mentalità diffusa...
    * È prima di tutto un’opera di promozione umana. Tale disponibilità si evidenzia nella premura dei componenti la comunità, traducendosi in attenzione nei loro confronti e della loro famiglia, facendone un invito pressante a farne parte. La comunità ha bisogno di loro; senza questa parte «il corpo della Chiesa» ne risulterebbe mancante, priva di una dimensione importante per la visione dell’insieme di tutto il «corpo che è la Chiesa».
    * Diventa poi l’impegno di «evangelizzare i poveri». Costituisce la dimensione più importante della missione della Chiesa, che fa ad essi un annuncio esplicito di Cristo quale Figlio di Dio e Salvatore dell’uomo, e del suo messaggio di amore e di pace. Deve essere rivolto prima di tutto a chi è «più povero degli altri», per aiutarlo a venir fuori dalla prigionia della propria disabilità. Questo impegno diventa la garanzia della riuscita di ogni altra forma di evangelizzazione e di pastorale.
    * Si fa una proposta di fede con una catechesi adeguata. Come offerta di assistenza e di accompagnamento lungo il cammino della crescita cristiana, durante il quale la persona disabile possa ricevere i sacramenti, vivere le celebrazioni, partecipare alle feste della vita della Chiesa, quasi come un «atteggiamento normale». Tutto questo significa che non è la comunità che si fa dono agli handicappati, ma sono gli handicappati che sono un dono per la comunità. I doni o si accettano o si rifiutano. E anche se non c’è un rifiuto cosciente, il nascondersi di alcune comunità dietro a difficoltà (vere o presunte) mostra atteggiamenti diffusi che sanno di rifiuto pratico...
    * Vorrei partire da un episodio che evidenzia qualche deficienza pastorale. Capto al volo una domanda che un catechista rivolge ad un gruppo di ragazzi: «perché manca oggi tra di noi Fabio, il ragazzo handicappato che abita in via Dante?».
    Rilevo alcune risposte dei ragazzi: «forse perché i suoi genitori non vogliono mandarlo in parrocchia»; «perché nessuno ha potuto accompagnarlo»; «perché non si trova bene tra noi, e ha preferito guardare la TV in casa»; «perché gli è stato detto che non potrà accedere al sacramento della confermazione»; «perché l’ultima volta è stato trattato male da un compagno e non vuole più venire...».
    Un episodio come questo evidenzia che la comunità cristiana deve ancora camminare molto nell’accoglienza delle persone handicappate; nel riconoscerne il valore, la dignità e peculiarità; nel considerarle soggetti attivi all’interno della propria esperienza ecclesiale, anche quando sono in gravi condizioni.
    È necessario considerare che la presenza di questi battezzati nella comunità parrocchiale non è solo un riconoscimento dei loro diritti. È soprattutto un bene per i credenti normali in cui fa nascere il desiderio di instaurare relazioni caratterizzate da continuità e significatività, che superino il solo momento catechistico fino a farsi carico della persona handicappata nella globalità dei suoi bisogni. Il magistero, a questo proposito, è molto esplicito, quando afferma che «ogni battezzato, per il fatto stesso del battesimo, possiede il diritto di ricevere dalla Chiesa un insegnamento e una formazione che gli permettano di raggiungere una vera vita cristiana» (CT 14). Tutti hanno diritto ad essere iniziati a conoscere e vivere il dono della fede.


    1. Alcune convinzioni pastorali

    L’esperienza di Bartimeo, «il cieco di Gerico»

    Muovendo da una videocassetta [1] che si ispira all’episodio del cieco di Gerico (Mc 10, 46-52), vorrei precisare le motivazioni evangeliche che devono portare una comunità parrocchiale ad accogliere ogni tipo di handicappato, a partire proprio dalle loro esigenze specifiche. Il sussidio riflette sul miracolo operato da Gesù, facendone un’attualizzazione concreta e coerente. Sembra pastoralmente necessario aiutare la comunità cristiana a entrare nell’ottica evangelica dell’accoglienza di chi si sente escluso o emarginato, facendone superare ritrosie e diffidenze che purtroppo ancora rimangono. Questi sono i passaggi più significativi.
    * L’esperienza di Bartimeo ci permette di capire (allargando il campo della nostra visuale anche a tanti altri diseredati attuali) che ci si può sentire soli e trascurati, anche immersi in una grande folla. La solitudine dei diseredati di oggi appare evidente, sia che pensiamo a categorie (come i malati gravi, i vecchi soli, gli handicappati, i bambini abbandonati), sia che ci riferiamo a popoli poveri costretti a subire le dipendenze dei popoli ricchi.
    La solitudine, triste esperienza della vita che costringe a chiedere aiuto, significa che chi si sente emarginato appare come un oggetto di disinteresse della folla. Sembra proprio vero oggi che chi sta bene non si accorge di chi sta male, essendo ognuno egoisticamente portato ad emarginare chi gli appare diverso. Gesù, interessandosi a Bartimeo, insegna che non può essere accettata una simile condizione dalla comunità cristiana (Mc 10,46).
    * Il grido di aiuto di Bartimeo mette in evidenza che ogni disabile, coscientemente o inconsciamente, diventa un appello per le persone che gli stanno intorno. La sua sofferenza infatti non è che una richiesta di aiuto. Ma i presenti sono sordi all’appello; anzi vogliono ridurlo al silenzio, mettendolo a tacere. Non è un meccanismo perverso quello di far tacere, o di ridurre al silenzio coloro che gridano le loro sofferenze, perché il loro grido diventa una scomoda interferenza per la coscienza e disturba chi crede di non avere problemi? Si pensa (umanamente) che è molto meglio non essere in conflitto di coscienza e quindi non sentirsi richiamati ai propri obblighi morali. Non si è forse convinti, del resto, che l’handicap è una fatalità della vita? (Mc 10, 47-48)
    * Gesù, col suo intervento, insegna che la coscienza del bisogno altrui non può essere oscurata. Il miracolo dimostra che chi si trova nel bisogno non deve tacere, non deve desistere, non deve scoraggiarsi, non deve smettere di osare di prendere la parola, deve gridare per sentirsi riconosciuto. E questo sia nella Chiesa che nella società. In realtà, il bisogno di aiuto entra nella logica della ricerca della felicità, a cui i limiti umani non devono apparire come degli ostacoli insormontabili; la risposta di aiuto porta alla felicità, sia chi offre l’aiuto che chi lo riceve (Mc 10, 49).
    * L’offerta di aiuto però non deve sostituirsi al bisognoso; deve essere come una spinta iniziale per stimolare quel processo di recupero per cui ciascuno poi potrà muoversi con le proprie forze. L’episodio evangelico dimostra che chi accoglie l’appello si rende conto che alcune volte basta poco per ridare fiducia a qualcuno. Ognuno ha bisogno di aiuto per togliersi la benda dagli occhi... e vedere il vero, il bello, il giusto, il buono. Quando si aprono gli occhi il mondo appare diverso (Mc 10, 50-52).
    * Trovo una particolare e concreta sintonia tra questa prospettiva evangelica e alcune indicazioni «attuali» del Magistero. Il Direttorio Catechistico Generale (del 1971) precisa: «Questo compito non può essere ritenuto come secondario e marginale (nella vita cristiana). I ragazzi e gli adolescenti disabili non costituiscono una parte esigua della popolazione. La catechesi deve fornire a questi giovani la possibilità di vivere la fede secondo la loro capacità. Questo è un compito eminentemente evangelico e una testimonianza di grande rilievo, che rientra nella costante tradizione della Chiesa» (DCG 91).
    Giovanni Paolo Il, nella Catechesi Tradendae, insegna: «Alcune categorie di destinatari della catechesi richiedono una speciale attenzione a motivo della loro condizione particolare. Si tratta, innanzitutto, dei fanciulli e dei giovani handicappati fisici e mentali. Essi hanno diritto a conoscere, come gli altri coetanei, il ‘mistero della fede’» (CT 41).
    Il Direttorio Generale per la Catechesi (1997) afferma che «ogni comunità cristiana considera come persone predilette dal Signore quelle che, particolarmente tra i minori, soffrono di handicap fisico, mentale e di altre forme di disagio» (DGC n 189).
    Insieme a tanti altri interventi che prendono posizione sul problema, si rileva che la Chiesa, nella sua sensibilità materna, pone gli handicappati al primo posto fra le categorie delle persone che meritano particolare attenzione pastorale e catechistica; parla del «diritto» degli handicappati fisici e mentali a conoscere il «mistero della fede» ed essere educati nella vita cristiana; riconosce la difficoltà del compito e grandi meriti di chi è già impegnato in questo settore, denunciando la necessità di affrontare il problema in profondità, invitando tutti gli organismi cattolici a volersi dedicare allo studio e alla sperimentazione di una valida catechesi ai disabili.

    È possibile anche oggi questo miracolo?

    L’episodio evangelico insegna che accogliere chi è rigettato, chi è messo al margine della comunità, costituisce un miracolo che ogni credente dovrebbe realizzare anche oggi. Quanti handicappati nei nostri ambienti vivono ai margini della folla (la comunità), si sentono soli ed emarginati come Bartimeo! E anche se non chiedono direttamente aiuto, la loro realtà postula attenzione, il loro io desidera incontri per un conforto nella volontà di vivere e andare avanti, nonostante tutto.
    Quando si vive una grave menomazione fisica o psichica, ci si sente più vulnerabili, si desidera aver bisogno degli altri; ci si fida più facilmente degli altri... purché appaia loro questa disponibilità. Gesù ragiona con lo sguardo dell’amore e non con la visione del successo.
    Questa visione cristiana è fondamentale per imparare a rispettare le persone che non possono condividere gli stessi beni della natura, ma che tuttavia meritano rispetto. È un atteggiamento che non porta a rigettare o giudicare gli altri, ma ad amarli malgrado la loro differenza.
    Chi è nel bisogno profondo (l’handicappato lo può essere per nascita o per incidente), spesso avverte di brancolare nel vuoto, si sente perduto come se la terra si sottraesse ai suoi piedi; sopraggiungono spesso periodi di rivolta, di scoraggiamento, perfino di disperazione, nel pensare a ciò che non è più possibile sperare...
    Ma viene il tempo del sobbalzo. Un incontro, una testimonianza, una voce interiore hanno la forza di ridare speranza e coraggio per prendere in mano la propria vita, di battersi per continuare a vivere. È la scoperta di ciò che è ancora possibile, nonostante o malgrado l’handicap e perfino grazie ad esso. Si diventa «produttori di ricchezze» che nessuno neppure sognava.
    Anche i non disabili soffrono di qualche handicap: spesso hanno una benda sugli occhi; si ritrovano le gambe paralizzate; avvertono sordi i propri orecchi, la bocca contratta e la parola bloccata; soffrono di solitudine...
    È a ciascuno dunque che si indirizza questa parola: àlzati, va’, salta, corri... Egli ti chiama. È necessario superare definitivamente le concezioni inadeguate e false nei confronti degli handicappati. È necessario sottolinearne i moltissimi aspetti positivi (senza soffermarsi su quelli negativi), che possono essere la base di un dialogo, di un impegno da assumere nella comunità pastorale per una propria piena integrazione.

    Che cosa fare?

    * Il punto di partenza è descritto nell’episodio di Bartimeo, in cui Gesù invita a farsi carico della promozione umana dell’handicappato. «L’uomo è la via che porta a Cristo». «È l’uomo vivente la gloria di Dio». Il primo impegno della Chiesa è garantire la piena riuscita dell’uomo in tutti i suoi aspetti, richiamati anche dal «Documento della Santa Sede per l’anno internazionale delle persone handicappate» (4/3/1981).
    Il compito della comunità cristiana, già semplicemente sotto questo punto di vista, risulta altamente benemerito nella società, e diventa per se stesso via all’evangelizzazione, quasi sempre la più efficace e credibile. E questo deve avvenire sia nell’interno, dove sono molti i cristiani che trascurano gli handicappati, che all’esterno, perché ovunque la dignità della persona umana venga protetta e sostenuta.
    Se la Chiesa si pone a servizio dell’uomo, di ogni uomo; se si pone per obiettivo la sua promozione integrale e a ciò si sente doverosamente impegnata in nome di Cristo, il primo compito rimane sempre quello di evangelizzarlo, quello di portare a lui l’annunzio gioioso che Dio lo ama e lo salva, in qualunque situazione egli si trovi.
    * Una volta accolti, gli handicappati diventano occasione di ulteriore provocazione: approfondire il loro modo di essere, di rapportarsi, di pensare, di agire... Essi presentano caratteristiche di tipo intellettivo, affettivo, relazionale, religioso che bisogna conoscere per mettere in una giusta luce i loro atteggiamenti e comportamenti. Dal punto di vista più strettamente religioso è utile richiamare come la stessa presenza di condizioni limitanti in un handicappato possono favorire più che mortificare l’esperienza religiosa. Una persona che ha il senso del proprio limite sente forte il bisogno di dipendenza (da Dio e dagli uomini). Chi ha il senso d’inferiorità, è aperto ad accettare la risposta positiva di consolazione che gli viene dalla fede. Una persona efficiente, invece, che ha successo dappertutto, corre il rischio di dire: «Non ho bisogno né di Dio né degli altri». Chi è poi in situazione di dipendenza, è naturalmente più aperto a ricevere il messaggio della fede, a meno che non si ribelli.
    * È importante considerare poi che anche gli handicappati corrono pericoli per la fede: evasione fideistica, superstizione, magia, infantilismo religioso. Una fede che va purificata con una seria educazione religiosa e sostenuta continuamente dentro una comunità di cristiani adulti; una fede provata anche dalla sofferenza che diventi liberante nell’accettazione della croce; una fede che scopra la ricchezza umana della sofferenza, del dolore, del senso del limite... accettati, valorizzati, sublimati.
    * L’esigenza di ripartire dagli «ultimi», di conoscere e di riconoscere la loro presenza in seno alla comunità, riemerge nella nostra cultura dell’efficienza in tutta la sua urgenza e diventa invito pressante anche dai convegni ecclesiali sulla «carità» (cf il convegno di Palermo, nel novembre del 1995). Le comunità parrocchiali non possono più rimanere ferme alla prassi della delega; né le congregazioni religiose che hanno un carisma specifico per l’handicap possono, da sole, continuare a svolgere un servizio che è proprio di tutta intera la comunità sociale, civile, ecclesiale. Occorre un cambio profondo di mentalità e di cultura.
    Si deve partire da una considerazione evangelica: l’handicappato, con la sua presenza, concreta e immediata, rimanda il credente ad una cosciente accettazione del limite dell’uomo, perché con la sua «anormalità» invita i «normali» a non cedere alla tentazione egoistica di credersi quasi onnipotenti nella loro efficiente indipendenza.
    Questa porzione «sofferente e limitata dell’umanità costituita dagli handicappati, per il 10% del totale», in una visione di fede, diventa un’immagine efficace di Cristo che, pur risorto, porta ancora i segni della passione. E diventa motivo di crescita spirituale e materiale per la comunità nel momento stesso in cui la accoglie.
    * La Chiesa ufficiale non parla di «catechesi speciale» per gli handicappati, ma invita a predisporre forme appropriate di catechesi, adatte alle condizioni dei singoli. E questo, non tanto per non isolare ancora una volta nella comunità chi è già isolato nella società, ma soprattutto perché la catechesi comporta l’esigenza di un adattamento specifico alle persone a partire dall’ascolto delle loro domande e dal bisogno di rispondere alle loro specifiche esigenze. Gli inviti della Chiesa sono molto chiari: «La povertà e la debolezza dei disadattati e dei subnormali, per difficoltà di carattere fisico, psichico e sociale, appaiono, sotto certi aspetti, ancora più gravi. Soprattutto ai fanciulli, in tali condizioni, bisogna assicurare forme appropriate di catechesi ed educatori pedagogicamente specializzati» (RdC n. 127).
    Se, dopo circa trent’anni da questo invito del progetto catechistico italiano, non si è ancora sviluppato nella vita pastorale e catechistica delle nostre parrocchie un segno visibile in questa area pastorale (con «catechesi appropriate» e «catechisti pedagogicamente» preparati per gli handicappati), vuol dire che:
    – o non prendiamo troppo sul serio la parola di Dio che è prima di tutto per i «poveri», perché siano liberati dai lacci della loro prigionia;
    – oppure crediamo che nelle nostre comunità non ci sono queste categorie di «poveri», pur sapendo dalle statistiche che gli handicappati sono circa il 10% della popolazione globale;
    – oppure perché crediamo che la soluzione del loro problema è demandato a quelle istituzioni benefiche che esercitano il loro carisma al servizio di qualche categoria di poveri (cioè le congregazioni religiose che hanno come loro compito un «carisma specifico» per gli handicappati), risolvendo apparentemente il problema con l’affidarne la soluzione ai soliti specialisti...
    * La pastorale interpella ogni categoria di persone. Perciò è necessario sensibilizzare parrocchie e diocesi alla loro presenza, alla loro originalità, aiutandole a riflettere di più sulla propria missione, affrontandone il problema nella pastorale parrocchiale, preparando qualche catechista più competente. In questa prospettiva si pone l’obiettivo minimo di ogni comunità parrocchiale: un catechista per l’area dell’handicap.
    Ogni comunità deve prefiggersi l’obiettivo dell’integrazione degli handicappati nella «sua vita normale», anche se ciascuno vi parteciperà con le proprie limitate possibilità. L’obiettivo del «pieno inserimento delle persone handicappate nella vita della chiesa come soggetti responsabili, con gli stessi diritti e la stessa missione fondamentale comune a tutti i battezzati, ma anche con una vocazione personale da attuare»,[2] deve costituire comunque la meta finale della nostra pastorale e catechesi parrocchiale.
    La comunità cristiana è costantemente invitata a prendere coscienza della necessità di accogliere nel suo interno gli handicappati se vuole essere se stessa nel senso evangelico, perché egli, più di ogni altro membro, rende presente in essa il mistero della Pasqua.
    Il tema è ribadito in un documento pastorale dei Vescovi della Emilia-Romagna: «Essi sono chiamati a celebrare sacramentalmente la loro vita di fede, secondo i doni ricevuti da Dio e lo stato in cui si trovano. Così partecipando alla catechesi, alla liturgia e alla vita della chiesa, potranno compiere il loro cammino di fede, e diventare soggetti attivi di evangelizzazione, capaci di arricchire con doni e carismi propri la comunità».[3]
    * L’orientamento pastorale che favorisce la partecipazione degli handicappati alla vita della comunità cristiana deve essere ispirato e sostenuto dagli stessi principi acquisiti nelle realtà educative e sociali, e verso cui deve camminare: l’integrazione, la normalizzazione e la personalizzazione. L’assistenza agli handicappati nel passato era data, quando era data, dalla quasi esclusiva generosità e impegno delle persone di alcune istituzioni religiose. Ma si è arrivati, sia pur lentamente, alla smentita di molti pregiudizi e, nello stesso tempo, al recupero e al superamento della funzione di supplenza rispetto alle strutture statali ed ecclesiali.
    Obiettivi certamente difficili; ma che non possono essere misconosciuti nascondendosi spesso dietro motivazioni speciose e non certamente evangeliche. In realtà può essere facile aiutare qualcuno senza accoglierlo pienamente. La carità è certo molto più impegnativa di una piccola beneficenza occasionale. La prima coinvolge e crea legame; la seconda si accontenta di un gesto. I semplici gesti occasionali, come beneficenza una tantum verso gli handicappati, non sono sufficienti a creare la mentalità di una pastorale rinnovata.
    * L’integrazione costituisce la possibilità concreta che l’handicappato sia considerato «dei nostri», opponendosi alla tendenza, venata da una presunzione di privilegio, che li spinge all’isolamento, alla segregazione e alla marginalizzazione, quando nella comunità parrocchiale non vengono offerte condizioni favorevoli all’accoglienza. Non si realizzerà l’integrazione, se non si supera l’atteggiamento della tolleranza, che è considerato forse più che normale.
    Essa comporta l’impegno a rendere la persona handicappata un soggetto a pieno titolo, secondo le sue possibilità, anche nell’ambito della vita parrocchiale. La comunità cristiana non può ammettere nel suo seno cristiani di serie diverse, operando delle discriminazioni.
    La normalizzazione implica lo sforzo teso alla riabilitazione comunitaria completa delle persone handicappate; e, ove ciò non risulti possibile per gravi deficit, alla realizzazione di un quadro di vita o di attività che si avvicina, il più possibile, a quello normale. Il solo considerare che ogni persona è irripetibile (con i suoi pregi e i suoi limiti) fa sì che nella comunità ci si consideri ciascuno con la sua specificità, che non è migliore degli altri, ma solo diversa l’una dall’altra.
    La personalizzazione mette in luce che nelle cure di vario genere, come pure nei diversi rapporti educativi e religiosi intesi a superare i limiti degli handicap, si deve sempre partire dal considerarne il valore e promuovere dignità, benessere e sviluppo integrale di ogni persona in tutte le sue dimensioni e facoltà fisiche, morali e spirituali.
    Lo stile di accoglienza condurrà la comunità cristiana a pianificare una pastorale che ponga l’handicappato al centro come soggetto di interessamento, per evitarne l’emarginazione del quotidiano; prendendosi cura di lui come membro attivo della comunità avente particolari bisogni. Solo a queste condizioni si eviterà quell’atteggiamento che purtroppo ancora favorisce l’infantilismo e una presentazione puerile della religione.
    * Di questo stile di pastorale intende farsi carico la Chiesa italiana quando scrive:
    – «Con premura speciale, i catechisti devono prendersi cura di tutti coloro che hanno maggiore bisogno, perché più poveri, più deboli, meno dotati. Proprio a loro Cristo ha voluto mostrarsi strettamente vicino e unito, annunciando che la lieta novella data ai poveri è segno dell’opera messianica. Essi vanno avvicinati con zelo e simpatia. Si devono studiare e attuare forme di catechesi, che meglio rispondono alle loro condizioni» (RdC n.125).
    – «La debolezza dei disadattati e subnormali, per difficoltà di carattere fisico, psichico e sociale, appare, sotto molti aspetti, ancora più grave. Soprattutto ai fanciulli in tali condizioni, bisogna assicurare forme appropriate di catechesi ed educatori pedagogicamente specializzati» (RdC n.127).
    – «Non si tratta di semplice preoccupazione pedagogica, ma di una esigenza di incarnazione, essenziale al cristianesimo» (RdC n. 96).

    Concretamente, come muoversi in parrocchia?

    Un forte impegno comunitario è necessario perché tutte le persone, senza distinzioni, possano crescere nella fede della Chiesa. Ma, come per tutte le grandi imprese di ispirazione evangelica, si può incominciare da poche cose, semplici, concrete e fattibili. I cosiddetti cristiani «normali» si devono imbattere in esse e rimanerne benevolmente provocati.
    Le poche «cose da fare» possono essere descritte dai seguenti verbi che si coniugano attraverso una messa in opera creativa (anche se parte da un catechista o da pochi cristiani più sensibili) di azioni pastorali possibili, tradotte in iniziative concrete, che orientano verso il raggiungimento della loro integrazione, normalizzazione e personalizzazione.
    Chi si lascia prendere da questa urgenza, troverà in sé capacità e modi. E soprattutto bisogna essere geniali nel trovare i canali per pubblicizzare l’iniziativa a coloro che partecipano alle normali attività di una parrocchia (senza rimproveri e imposizioni).
    * Conoscere le persone con handicap sul proprio territorio attraverso indagini, centri di ascolto, osservatori sociali. Un’opera di monitoraggio nell’ambito territoriale della parrocchia può portare immediatamente a due benefici.
    Il primo permette una prima sensibilizzazione pastorale della comunità che incomincia a rendersi conto di chi manca abitualmente in parrocchia, e per quale motivo. Gli handicappati battezzati che non partecipano alla vita della comunità forse non ne sono sempre responsabili in prima persona. E questo vale soprattutto per chi ha bisogno materiale di essere aiutato da chi è normale...
    Il secondo beneficio è da vedersi nell’incentivo a facilitare quella che chiamiamo la disponibilità all’accoglienza, alla offerta di aiuto e alla collaborazione «missionaria».
    * Accogliere le persone handicappate offrendo coinvolgimento e amicizia nella vita della comunità. Senza una preventiva conoscenza della situazione, si può essere portati a pensare che il loro stato non ci tocchi, perché non è compito nostro.
    Questo distacco in genere favorisce la logica della delega che carica su alcuni un compito comunitario che appartiene a tutti i cristiani.
    Chi arriva prima degli altri ad essere sensibilizzato al problema dell’handicap troverà le modalità concrete per favorire questo clima di accoglienza, con opportune iniziative e tempi di sensibilizzazione. C’è sempre bisogno che qualcuno incominci, perché altri comprendano che «è possibile», e si coinvolgano nella testimonianza della solidarietà e del servizio.
    * Rivolgere la dovuta attenzione alla famiglia dell’handicappato. Essa non va lasciata sola col proprio problema. Ma va aiutata ad assumere un atteggiamento sereno nei confronti dell’handicap, soprattutto quando scopre che esiste la solidarietà, quando vede la disponibilità, quando trova la possibilità di condivisione nell’affrontare i disagi relativi alla vita dei propri figli handicappati.
    Se i problemi dell’educazione scolastica e sociale non possono essere risolti senza l’aiuto di insegnanti di sostegno e di strutture sociali adeguate, anche per l’inserimento nella vita parrocchiale c’è bisogno di tanti che si facciano carico concreto di questa responsabilità di collaborazione.
    * Valorizzare i carismi delle persone in difficoltà (comprese quelli con problemi di handicap: ripartire dagli ultimi, ricordando che la Chiesa è mistero di comunione). Per questo tipo di intervento concreto bisogna prima di tutto superare la mentalità dell’efficienza, sapendo che bisogna chiedere a ciascuno quello di cui è capace.
    È necessario stimolare la creatività dei singoli; nella comunità si possono affidare tanti piccoli servizi anche a qualche handicappato, secondo le possibilità. Questo compito aiuta a superare gli atteggiamenti diffusi di falsa compassione, incoraggiando e offrendo le occasioni a misurarsi con le proprie forze e aiutando a comprendere che si può essere utili, nonostante i limiti...
    * Superare la mentalità assistenzialistica, sostituendo l’«agire per» con «l’agire con». Le azioni descritte precedentemente portano esattamente verso il superamento dell’atteggiamento di autosufficienza.
    Purtroppo, questa mentalità è ben radicata anche in tanti cristiani così ben sistemati in questa cultura del profitto e dell’efficienza, per cui viene naturalmente emarginato chi non può adeguarsi. Le conseguenze di questo atteggiamento assistenzialistico portano a far credere di stare a posto con la propria coscienza solo perché di tanto in tanto si offrono beni e tempo. È necessario invece non partire dalla propria efficienza, ma dalla possibilità che altri debbano poter esprimere il proprio valore.
    * Offrire la disponibilità agli handicappati di accedere ai sacramenti. Le persone con handicap, come le altre, hanno il diritto di crescere nella fede. In tale prospettiva è necessario convertirsi da quella mentalità conseguente ad una catechesi fondata solo sulle conoscenze delle verità. Per le situazioni di handicap psichico grave si può fare riferimento alla coscienza e alla fede della comunità.
    È chiaro che il problema non coinvolge solo il singolo catechista, ma ogni educatore, tutta la comunità con le sue istituzioni (compreso il Consiglio Pastorale Parrocchiale...) e una programmazione che rispetti il cammino possibile di ciascuno.
    Ciò comporta favorire l’integrazione degli handicappati nei gruppi di catechesi, superando gli ostacoli architettonici, adottando accorgimenti per la comunicazione e offrendo contenuti graduali. Inserire persone handicappate nei gruppi di catechesi non comporta di per sé l’adozione di forme didattiche specialistiche.
    Il gruppo è per sua natura luogo e strumento di integrazione.


    2. Criteri per la catechesi «speciale» agli handicappati

    Il Direttorio Catechistico Generale, circa la proposta di fede agli handicappati, così si esprime: «... è da considerare che la particolare difficoltà di questo compito e la necessità di dover presentare solo l’essenziale possono offrire a tutta la catechesi il beneficio di usufruire dei metodi e delle vie che la ricerca pedagogica scopre e mette al servizio dei disadattati» (DCG n. 91).
    Si tratta di ipotizzare dei criteri fondamentali che possono aiutare a superare alcuni atteggiamenti di catechisti e pastori che disattendono la catechesi ai disabili, con la speciosa motivazione che essi «non possono capire il messaggio»; o, al contrario, pretendono di inserirli in un contesto normale sottoponendoli a una integrazione forzata o a una sacramentalizzazione insignificante.
    Una recente indagine sui catechisti parrocchiali [4] evidenzia che esiste, almeno a livello di principio, una certa loro sensibilità (come attenzione educativa, pastorale e catechistica) nei confronti degli handicappati.
    Ma, in pratica, si fa molto poco per essi, per i più svariati motivi: è carente la sensibilità pastorale di accoglienza; non si ha una competenza psicopedagogica e catechistica sufficiente; non si sa quali proposte di fede selezionare e come farle.
    Naturalmente si fa salvo ciò che molto lodevolmente al contrario fanno alcune istituzioni specializzate, a cui sembra che venga delegato in toto il compito catechistico per i disabili!

    Un contesto da «inventare»

    Guardando in generale al contesto comunitario delle nostre parrocchie, esso il più delle volte ci appare indicativo di una catechesi che ancora oggi non è di tutti e per tutti. E questo vale soprattutto per gli adulti, per i giovani adulti, per gli handicappati adulti e non solo! Di certo, molto poco di fatto si fa nella comunità cristiana per il problema dell’accompagnamento degli handicappati alla vita di fede.
    Una proposta cristiana per essi, anche dove c’è, non appare articolata in un discorso pensato, lineare e sistematico, il cui contenuto e il relativo metodo di comunicazione vengano attentamente rivisti in funzione delle persone e delle loro esigenze.
    È evidente che la «riflessione teorica» sul rinnovamento della catechesi in atto in Italia non appare congiunta ad un piano organico per un aggiornamento della catechesi specifica per gli handicappati. Lo stesso Ufficio Catechistico Nazionale sta muovendo con fatica i primi passi in questo settore importante per la vita della Chiesa, e con parecchia difficoltà.
    Si può forse affermare appena che nell’ambito catechistico per gli handicappati si è realizzata, a volte, una certa socializzazione religiosa e uno sforzo di inserimento ecclesiale, fatti di per sé importanti, perché segno del rifiuto di ogni esclusione; però appare del tutto insufficiente in pratica una pastorale che coinvolga responsabilmente nella esperienza viva del Regno di Dio persone che ne hanno il diritto, come e più degli altri, e che costituiscono una ricchezza da sempre, anche se inesplorata nella realtà della Chiesa.
    Non si può neanche del tutto dire che non siano state tentate esperienze in diverse comunità; dalla ricerca appena citata traspare che ci sono al riguardo esperienze frammentarie, e per lo più si riferiscono quasi esclusivamente a fanciulli e ragazzi, escludendo generalmente giovani e adulti handicappati; continuando a perpetuare, quasi come copia conforme, l’errore della pastorale in genere, più o meno infantilizzante.
    La comunità cristiana non può non avvertire ancora l’urgenza di cointeressare tutte le sue forze migliori per assolvere l’impegno di offrire la proposta cristiana, nella sua pienezza, anche agli handicappati, nel modo più appropriato possibile, perché essi possano ascoltare Dio che parla nella loro particolarissima situazione come un Padre amorevole, lo accolgano, trovino in Lui le risposte più significative per la loro vita e imparino ad amarlo e a seguirlo.
    E perché questa catechesi si realizzi, come del resto per tutta la catechesi, il segreto è riposto nella figura del catechista degli handicappati, sulla sua preparazione e disponibilità. Se nessun catechista può improvvisarsi, in nessun modo ciò può verificarsi con il catechista degli handicappati. In particolare, tale catechista deve essere una persona di solida maturità umana e cristiana, di grande disponibilità all’accoglienza e alla comprensione, di forte capacità di accettazione incondizionata dell’altro, qualunque sia la sua situazione.
    È questo tipo di catechista – da preparare con urgenza e priorità – che si può far carico di un ambiente adatto all’accoglienza dell’handicappato, visibilmente significativo anche come luogo silenzioso e raccolto, senza alcuna possibilità di pericolo, in cui si possa stare a proprio agio.
    L’ambiente più importante, però, per questi soggetti è il gruppo di inserimento, di integrazione e di accompagnamento (salvo il caso di «handicappati mentali gravissimi» che non riescono a cogliere la realtà dello stare insieme, e per cui è necessario un rapporto più individualizzato). L’handicappato deve apparire il riflesso di ciò che fa il gruppo, che ha su di lui un’efficacia educativa unica.
    È necessario però che sia un gruppo numericamente ristretto, affettivamente stabile, comportamentalmente preparato, capace di accogliere il disadattato in modo differenziato e adatto alle sue possibilità, saggiamente guidato con competenza dal catechista-animatore.

    Una catechesi da «adattare alle esigenze»

    Una riflessione preliminare va fatta, prima di tutto, sui contenuti della proposta di fede da offrire agli handicappati. Va superata quella mentalità che si sforza di adattare ad essi, «riducendolo», il catechismo comune, con qualche accorgimento sul piano della didattica. Non si può accettare il principio di «un catechismo ridotto per un ricevente limitato».
    Gli handicappati sono prima di tutto una realtà originale da esplorare, perché si possa per essi fare una adeguata catechesi. Si pensi, per esempio, al significato dell’handicap in ordine alla teologia e alla spiritualità della croce, che riqualifica il ruolo della loro presenza nella Chiesa e fa riscoprire una dimensione troppo a lungo dimenticata nei progetti pastorali moderni.
    In tale prospettiva la catechesi per gli handicappati deve fare la scelta dell’essenziale. È questa un’opzione nella catechesi sempre valida, ad ogni livello: partire dall’essenziale e poi progredire gradualmente nella conoscenza e nella vita nuova, sapientemente distinguendo ciò che è fondamentale da ciò che – pur utile – può ritenersi secondario, in rapporto sempre con le capacità del soggetto. E questo metodo serve soprattutto per gli handicappati, soprattutto per chi presenta ritardi mentali.
    In linea di principio, tenendo presente le persone e le loro esigenze, la catechesi dovrà almeno garantire a tutti queste dimensioni fondamentali del messaggio cristiano, se si vogliono evangelizzare anche gli handicappati: la dimensione della «paternità» di Dio (un Padre comune per tutti gli uomini, senza alcuna differenza); la dimensione della «fraternità degli uomini in Dio» (attraverso l’accettazione di Gesù Cristo); l’universalità della chiamata (per cui tutti sono invitati ad amarsi come fratelli e a costituire una vera comunità di fratelli, la Chiesa); la dimensione della «provvidenza di Dio» (un Dio che in modo particolare ama i poveri, i deboli, gli umili, i piccoli).
    Ad ogni credente dovrebbe essere familiare questa visione cristiana; a tutti, soprattutto agli handicappati, dovrebbe essere possibile annunziarla anche con la parola (dove è possibile), ma soprattutto con l’esempio, la testimonianza, il servizio.

    Un linguaggio efficace da «studiare»

    Il problema della comunicazione catechistica con gli handicappati a volte è difficile, soprattutto con chi non afferra o non possiede il linguaggio verbale. È necessario perciò che si scoprano forme e modi alternativi e comunicazioni più adatte. Per questo è opportuno affidarsi a specialisti e maestri. Non si può lasciarsi andare all’improvvisazione e allo spontaneismo.
    Ma ciò che alla fin fine risulta importante è l’atteggiamento di fondo che spinge a non arrendersi, neppure davanti a ciò che, a prima vista, sembrerebbe impossibile. Anche con gli handicappati mentali è doveroso tentare tutti i mezzi (come suoni, colori, ritmi, posizioni, espressioni) per stabilire una relazione, per far penetrare un’idea, un messaggio.
    E anche quando ogni sforzo comunicativo appare inutile, ce ne deve essere uno che soprattutto arriva attraverso i ritmi affettivi del cuore. Gli handicappati, anche quelli mentali gravi, possono scoprire che «Dio ama», che «Dio è Padre», che «gli uomini sono fratelli», che «Dio predilige i poveri e i piccoli»... attraverso i semplici e quotidiani gesti d’amore di cui essi sono fatti riferimento.
    Questo dovrebbe essere il linguaggio preferenziale per i disabili. Il prendersi cura della loro persona, del loro modo di vestire; a volte imboccarli e fare i servizi più umili; stare con loro e fare quanto a loro piace; farli sentire bene; renderli contenti; inserirli gradualmente in un gruppo e nella assemblea liturgica... Se essi si accorgono di essere rispettati, attesi e amati; se scoprono di essere destinatari di una forte carica affettiva di amore generoso e delicato... il miracolo dell’annuncio si realizza.
    Oltre tutto, proprio questo è il linguaggio che può rivelare l’amore di Dio a tutti gli uomini, ma in modo particolare ad essi. Non è praticabile per essi una catechesi fatta in una stanza dove si trovano a disagio, obbligarli a rimanere immobili e silenziosi e fare discorsi sull’amore di Dio, e magari ammonirli perché disturbano. In tali contesti anche il linguaggio scritto è del tutto inutile, quello parlato serve poco, le immagini non sono ben interpretate. Non resta quindi che la vita, l’azione, il gesto.
    È il linguaggio che essi comprendono (concreto, gestuale, reale e non simbolico) anche durante la liturgia. Intuiscono la grandezza dell’evento che si sta svolgendo, per l’atmosfera che c’è intorno, per il modo in cui lo vivono, il gruppo o i genitori con cui partecipano: i segni diventano più comprensibili e c’è la possibilità d’intervenire, di rispondere, di muoversi, di fare gesti, di cantare. Basterà, a volte, moltiplicare canti e ripetere preghiere per rendere una liturgia piacevole a loro.
    E inoltre è necessario anche offrire loro una possibilità reale di servizio nella comunità. L’handicappato, soprattutto se giovane o adulto, non può solo essere soggetto di una pia istruzione con qualche incontro di preghiera. Deve sperimentare quanto più pienamente possibile la fede-vita, la fede-comunione, la fede-missione. Egli, cioè, deve già vivere nel gruppo piccoli impegni di servizio nell’interno della comunità o in rapporto con l’ambiente e la società.
    Specialmente per le forme non gravi di handicap, bisogna offrirgli anche la possibilità di assumere personalmente o in gruppo dei precisi impegni, in relazione alle sue effettive possibilità. Dove questo già avviene, non è facile riconoscere la realtà di una collaborazione attenta, diligente, ispirata.

    Il problema della celebrazione dei sacramenti

    Per sé, si può ragionevolmente ritenere che per gli handicappati gravi i sacramenti non siano strettamente necessari, in quanto Dio li salva, anche se non pongono essi stessi questi «segni» di salvezza nella comunità cristiana. In particolare la riconciliazione e l’eucaristia. Ma, perché non dare questi sacramenti anche agli handicappati?
    I sacramenti, infatti, prima di essere dei «segni di salvezza» per l’uomo, sono segno di Dio e della Chiesa:
    – segni dell’amore di Dio, che ama sempre la creatura, prima ancora che questa possa riamarlo, anzi anche quando questa di fatto non lo ama. E il suo amore è orientato in modo particolare a chi è più povero, più debole, più abbandonato ed emarginato;
    – segno dell’amore della Chiesa, che si fa rivelazione dell’amore del Padre, del Figlio e dello Spirito con gesti concreti, chiaramente profetici. Partendo da queste considerazioni la Chiesa conferisce il battesimo ai bambini appena nati e anticamente vi univa, alla stessa celebrazione, confermazione ed eucaristia.
    In questo contesto teologico-pastorale il fatto che gli handicappati gravi non capiscano o abbiano dei ritardi nella formazione culturale e psicologica non può essere perciò un motivo sufficiente per una esclusione gravemente discriminata e traumatizzante.
    Il contraccolpo psicologico di un rifiuto sarebbe ancora come un «segno» e «marchio» estremo del rifiuto della società e della stessa comunità ecclesiale. Non c’è niente di più assurdo, evangelicamente, e quindi insopportabile. La celebrazione dei sacramenti per gli handicappati diventa anche un momento di chiara espressione di fede e di conseguente impegno missionario: la fede che anche negli handicappati si manifesta l’amore di Dio e si rende particolarmente presente: che ogni cosa che si fa a favore di questi «ultimi» è diretta a Dio stesso; che perciò la Chiesa fa del servizio a questi un impegno sacramentale, assunto davanti a Dio.
    Si potrebbe dire paradossalmente che proprio gli handicappati, prima e più degli altri, sono chiamati ai sacramenti. Ma certamente determinante risulterà la fede della famiglia, la capacità della comunità ad accogliere affettivamente l’handicappato, mettendosi a suo servizio nell’aiutarlo a vivere un reale rapporto con Dio e con i suoi fratelli, nei limiti delle sue reali possibilità, anche minime. Ed è evidente che la stessa celebrazione dei sacramenti deve avvenire nella comunità, anche nei segni esterni, insieme agli altri, senza chiusure, privatismi, senza appartarsi.
    Un’ultima osservazione: proprio con gli handicappati dovrebbe essere pienamente rivalutata la presenza del padrino e della madrina, scelti tra coloro che effettivamente si prendono o si prenderanno cura di lui, sostenendolo responsabilmente nelle difficoltà, facendosi carico dei suoi bisogni e di quelli della sua famiglia.
    La celebrazione del sacramento, anche quello dell’eucaristia, dovrebbe favorire così l’assunzione da parte della comunità, in particolare di qualche suo membro, di veri impegni di assistenza, di carità, di amore.

    L’handicappato soggetto attivo di evangelizzazione e di catechesi

    L’handicappato non è solo oggetto di catechesi e di evangelizzazione, ma deve esserne anche soggetto attivo, cioè portatore di un messaggio per i suoi fratelli, per la comunità cristiana, per la stessa società civile.
    Anche gli handicappati infatti sono Parola di Dio, che gli altri sono chiamati a leggere e ad accogliere con spirito di conversione.
    Per chi sa leggere e accogliere quella Parola, superando egoismi e individualismo, si accorge a lungo andare, che la sua presenza costringe a cambiare mentalità, a scoprire valori determinanti nella vita, ad assumere atteggiamenti e comportamenti consequenziali, a fare scelte profonde e radicali.
    Questa è facile esperienza nei parenti, in coloro che con amore vivono loro accanto, nei gruppi in cui vengono accolti. L’esperienza dimostra che la presenza di un handicappato a volte ha cambiato il comportamento di una classe, di un gruppo, di una famiglia.
    Se vogliamo poi enucleare dei messaggi, che possono costituire oggetto di riflessione cristiana per modificare certe restie mentalità, eccone alcuni:
    – l’amore di Dio Padre, anche quando l’umanità è ferita, mortificata, è infinito;
    – il valore primario della vita deve apparire anche in situazioni difficili;
    – c’è la necessità di una vita fisica integra ed efficace, ma esiste anche la relatività di molti suoi aspetti in una globale e unitaria visione dell’uomo;
    – è necessario scoprire il significato profondamente umano della sofferenza, del limite, della Croce, come valori di purificazione e di liberazione, di crescita e maturazione;
    – bisogna valorizzare il valore della solidarietà, dell’amore, della comunione come unica via possibile per venire incontro ai fratelli nella sofferenza e costituire per loro delle reali possibilità di vita serena e tranquilla;
    – la pienezza di una vita semplice, essenziale, povera, umile, può costituire l’ideale primo e più importante di vita di ogni persona matura;
    – l’azione dell’uomo è necessaria per debellare i molti mali che incontriamo presenti nell’umanità, limitandone la vastità e la crudeltà con impegni prioritari.
    Perciò, anche l’handicappato è soggetto attivo di evangelizzazione e di catechesi, in quanto anche lui è chiamato:
    – ad aiutare la propria comunità ad approfondire e chiarire alcuni aspetti della vita cristiana, con la propria riflessione e testimonianza. È possibile oggi conoscere handicappati che prendono la parola e parlano di sofferenza, croce, passione, povertà con serietà dottrinale, congiunta soprattutto ad una credibilità unica, che proviene dalla loro vita, dall’accettazione nella loro vita di quei valori, da una profonda maturità che è facilmente percepibile;
    – a farsi attivamente presente nella comunità, nei momenti più qualificanti, e nella vita del gruppo di appartenenza;
    – a rendersi disponibile ad assumere ruoli di servizio, di puro volontariato, e secondo la propria possibilità. In alcuni possono essere appena modeste, in altri notevoli. Se qualcuno li aiuta a superare certe barriere, allora essi diventano eccezionali nell’animazione, nel servizio.
    «Qualcosa sta cambiando – afferma il card. Martini – nel comportamento comune verso gli handicappati. Non sono più nascosti nelle case, segregati, guardati con diffidenza. Certamente rimangono ancora molti passi da compiere. Purtroppo si verificano ancora incresciosi episodi di ottusità spirituale. Comunque una coscienza nuova sta maturando... Si sta configurando un nuovo rapporto dell’handicappato con la società civile: egli non è più «soggetto» di leggi, di programmi, di interventi, di discorsi, ma diventa «soggetto» interlocutore responsabile, protagonista del suo inserimento sociale...».[5]
    La Chiesa, attraverso una sua fattiva organizzazione pastorale, è chiamata ad assumere ancora una volta questo compito, arduo e difficile, e proprio perché tale irrinunciabile e improcrastinabile. Esso deve costituire «scelta» decisa nella sua azione evangelizzatrice, oggi, nel contesto del suo servizio totale agli ultimi, ai deboli, agli emarginati, fidando nell’aiuto di Dio e nelle sue forze, presenti in tanti fedeli generosi e disponibili.
    Sarà primavera finalmente per tanti infelici e sofferenti, tornerà il sorriso sulle loro labbra, ma lo sarà anche per la comunità cristiana che ancora una volta ripeterà il prodigio messianico: «I ciechi vedono, i muti parlano, i sordi ascoltano, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono guariti, i morti risuscitano, ai poveri è annunciata la buona novella» (Lc 7, 22).
    Sono i segni inconfondibili della fedeltà al Signore della storia e al Signore della fede.


    3. Iniziare gli handicappati ai sacramenti

    Le nostre comunità ecclesiali si preparano al grande giubileo del 2000, sforzandosi di ricordare e rendere attuale oggi l’insegnamento di Gesù, il cui nucleo fondamentale è la sua predilezione per i poveri. I «2000 compleanni» di Gesù devono rendere sempre più attuale la sua persona e i suoi segni salvifici per tutte le persone del nostro tempo.
    Ma è proprio così anche per i fratelli handicappati?
    Nella cultura attuale non sono essi considerati i più poveri tra i poveri? È sotto gli occhi di tutti che la cultura odierna predilige le forme esteriori, appariscenti e dimentica i valori profondi della persona. Perciò, nonostante le affermazioni di principio, gli handicappati sono privi di attenzione, sempre più emarginati dalla società efficientista, guardati con distacco o con indifferenza, quando non con disprezzo.
    Si ha l’impressione che spesso anche le nostre comunità parrocchiali smentiscano, nella prassi comune, quello che credono di affermare, nella evangelizzazione, a livello di principio. In realtà, all’autore di queste riflessioni capita di ricevere lettere di catechisti che chiedono come comportarsi circa la celebrazione dei sacramenti dell’iniziazione cristiana agli handicappati, soprattutto mentali. Catechisti più sensibili al messaggio evangelico intuiscono che qualcosa non va quando si trovano davanti a casi a cui non si amministrano i sacramenti, con la speciosa giustificazione che «tanto non capiscono».
    In realtà un certo cammino in alcuni casi è stato fatto a proposito della pastorale degli handicappati e della loro accoglienza a pieno titolo nella vita della comunità cristiana; ma molto rimane ancora da fare circa il loro inserimento ecclesiale, circa una catechesi speciale di accompagnamento personalizzato, circa l’ammissione ai sacramenti.
    Vogliamo riflettere pastoralmente, perciò, sulle ragioni profonde che possano aiutarci a superare quelle esitazioni o quei rifiuti, quelle reticenze e quei disagi che si evidenziano (forse anche inconsciamente) davanti a certi handicappati gravi o chiusi nel proprio autismo.
    Come tutti i chiamati alla vita, anche essi hanno diritto di condividere i tesori offerti da Dio all’umanità. Essendo nati alla vita, come tutti, hanno bisogno del battesimo per diventare figli e figlie di Dio; dovendo vivere una vita cristiana, come tutti i battezzati, hanno bisogno del nutrimento dell’Eucaristia e del perdono di Dio; dovendo crescere nella esperienza della fede, hanno bisogno di ricevere la confermazione e l’unzione che dà forza, pazienza e fiducia, nella malattia e nel passaggio verso Dio. Spesso, però, ci si difende pensando che essi non possano «andare a Dio», perché non hanno «mezzi intellettuali adeguati», perché... «tanto non capiscono».

    Le ragioni della fede

    La domanda che sorge dal considerare come Gesù ha dedicato gran parte della sua giornata evangelizzatrice a guarire i malati, a incoraggiare i limitati umanamente, ad accogliere i disprezzati e gli emarginati dalla società del tempo è: «Gli handicappati hanno bisogno dei sacramenti? L’amore di Dio lo vuole? I sacramenti non sono prima di tutto per le persone più bisognose?».
    E invece spesso prevalgono le solite scontate obiezioni: «non ne è capace»; «dando i sacramenti, rischiamo di influenzarli mettendoli alla mercé delle dipendenze imitative, senza reazione critica...».
    Davanti a motivazioni che manifestano preoccupazioni intellettualistiche piuttosto che evangeliche e pastorali, proprio come pastori e catechisti, dobbiamo essere mentalizzati da alcune convinzioni:
    – si deve riscoprire il valore fondamentale del sacramento, che è la modalità per cui la vita di ogni persona è presente nella Pasqua di Cristo, nella sua vita di uomo offerta al Padre. Il sacramento è il modo con cui Gesù Cristo si rende presente in «gesto umano», assumendolo, facendolo diventare suo. Nel sacramento, accanto alla realtà di Cristo che si rende presente, vi è la presenza dell’essere e della libertà umana;
    – è necessaria la convinzione che la realtà umana assunta dal sacramento deve essere una realtà personale. Nella comunità cristiana, a seconda delle circostanze, questa acquisizione deve essere sottolineata dal fatto che la vita personale del soggetto bambino è contenuta nel «contenitore» della famiglia. Se la Chiesa infatti battezza il bambino, senza chiedergli una prestazione di tipo personale, libera e volontaria, lo fa nella fede della sua famiglia e della sua comunità. Perciò il fatto che «essi non capiscono» non è un motivo sufficiente. Una simile esclusione inoltre mette i genitori dei ragazzi handicappati nella situazione di ritenere che la non ammissione dei propri figli ai sacramenti diventa ancora una volta un estremo marchio di rifiuto da parte della società, con la stessa comunità ecclesiale che fa delle discriminazioni. Il desiderio dei genitori va rispettato ed esaudito, soprattutto se diventa un punto di partenza per un coinvolgimento insieme ad altri nel processo di preparazione. Supplisce la fede dei genitori e della comunità;
    – l’amministrazione dei sacramenti agli handicappati serve anche alla nostra fede di adulti credenti: credere cioè che proprio negli handicappati più gravi si manifesta la presenza di Dio. E si potrebbe dire che proprio loro sono chiamati ai sacramenti, dopo che sono stati trattati come figli di Dio nella vita di ogni giorno, perché anch’essi chiamati alla vita cristiana più piena. Il «seno della madre-comunità cristiana» li deve alimentare, perché essi possano sentirsi avvolti da un clima di accoglienza gratificante e protettiva.

    Le ragioni degli handicappati

    Chi vive a contatto diretto con handicappati gravi, come chi mette la propria vita al loro servizio nelle strutture di accoglienza, sa che essi più che «capire» possono «intuire», più che «ragionare» possono «comprendere», più che «imparare» possono «vivere». Dobbiamo essere capaci di concedere loro l’onore di credere a quella parte di libertà che è di ciascuno con l’esigenza intrinseca di rispettarla e di predisporre tutte le condizioni perché il loro inserimento nella comunità ecclesiale sia completo.
    Invece, davanti a certe situazioni, ci si rende conto che in genere quando i sacramenti vengono conferiti lo si fa o in assenza di formazione catechistica, o adattando e riducendo i contenuti della proposta di fede. E il più delle volte i sacramenti vengono conferiti in contesti privati. E tutto questo offende in vario modo la dignità delle persone con handicap, e lede i loro diritti naturali di persone e di figli di Dio. Per far rispettare questo diritto, occorre facilitare la partecipazione piena delle persone con handicap alla vita della comunità, magari partendo dall’elemento più esterno e visibile che è costituito dall’abbattimento delle barriere architettoniche. Ma bisogna andare oltre.
    I sacramenti sono al centro della fede del mistero cristiano: viverli rimane un’esperienza necessaria per tutti; non c’è «uomo nuovo» senza i sacramenti; che perciò non possono essere preclusi agli handicappati, mentre si «sacramentalizza» facilmente ogni «persona normale».
    Rimane certamente il fatto che questa accessibilità sarà variabile in funzione di molti fattori. Ma fondamentalmente il sacramento è una delle manifestazioni più sorprendenti e più commoventi della stima, dell’amore e del rispetto con cui la Chiesa si rivolge a loro.
    I sacramenti sono i segni concreti dell’amore di Dio per la persona umana. Se col tempo tali doni sono stati riservati solo agli intelligenti, questo vuol dire che «gli altri» non sono degni di tali doni.
    Ma Dio chiede di rendere visibili i suoi gesti alla comunità, quando egli si rivolge a coloro che sembrano non capire, quando chiede di accompagnare i più deboli a Lui; quando dice: «Lasciate che i piccoli vengano a me».

    Le ragioni dei sacramenti

    I sacramenti sono segni dell’amore di Dio che ama sempre la sua creatura, prima ancora che questa possa riamarlo, anzi anche quando questa di fatto non lo ama. Il suo amore poi è orientato particolarmente a chi è più povero, più debole, più emarginato, segno di un amore di Chiesa che si fa rivelazione dell’amore del Padre con gesti concreti, chiaramente profetici.
    La celebrazione dei sacramenti per gli handicappati diventa anche un momento di chiara espressione di fede e di conseguente impegno missionario: la fede che anche negli handicappati manifesta l’amore di Dio e si rende particolarmente presente; che ogni cosa che si fa a favore degli ultimi è diretta a Dio stesso; che perciò la Chiesa fa del servizio a questi un impegno sacramentale. Si potrebbe dire paradossalmente che proprio essi sono chiamati ai sacramenti prima degli altri.
    È vero che questi segni della misericordia di Dio e dell’amore di Cristo non vanno mai dati a cuore leggero, ma sempre nella fede di una comunità e quindi nella fede che aiuta la famiglia, soprattutto nei casi di presenza di handicappati. Ma quando un handicappato viene battezzato da bambino, allora non si vedono ragioni perché in seguito non possa e non debba ricevere questi segni della misericordia, accompagnati dal coinvolgimento della comunità e della famiglia.
    Pare importante l’approfondimento, necessario soprattutto per noi e per la comunità che celebra, del significato dei sacramenti dentro la vita. Bisognerebbe superare quel tipo di atteggiamento padronale, che qualche volta con la pretesa di difendere Dio si assume nei confronti dei sacramenti, e che non ha nulla a che fare con il senso del servizio e della misericordia.
    In contemporanea, in forza del servizio e della misericordia, è necessario pretendere con serietà la fede nei sacramenti. Ma la serietà di fede non va addossata solo all’altro, deve coinvolgere tutti nel cammino di umiltà e conversione. È una prospettiva che può permettere anche un dialogo, una formazione, un’educazione degli operatori pastorali.
    Sappiamo che i diversi sacramenti si riferiscono ai bisogni fondamentali della nostra vita di figli di Dio, alla quale è chiamato ogni essere umano.
    Il Battesimo corrisponde alla nascita, la Cresima al momento della crescita, l’Eucaristia al bisogno di nutrirsi, la Penitenza e l’Unzione dei malati alla guarigione spirituale e corporale. Il Matrimonio e l’Ordine alla capacità che Dio ci dona di trasmettere la vita e la sua vita. Sogno bisogni che esistono più o meno avvertiti in ogni essere umano che sia dotato o no di ciò che viene chiamata «la normalità». Non ne sono esenti neppure gli handicappati gravi. Al contrario questi bisogni in alcuni di loro sono molto più forti, e si dà il caso che spesso ne sono anche consapevoli.

    La globalità dell’esperienza di fede

    Abbiamo preso coscienza delle ragioni teologiche e pastorali per cui gli handicappati, come tutti i battezzati, hanno il diritto di partecipare, normalmente, al banchetto della vita cristiana, usufruendo dei doni di Dio, che sono i sacramenti del suo amore liberante.
    E sappiamo tutti, inoltre, che Gesù è «il ponte» tra Dio e l’uomo, e che quindi non può essere scoperto isolatamente. La sua conoscenza per la nostra vita di fede comporta una dimensione trinitaria che è indispensabile ad una normale vita cristiana per tutti.
    Non vogliamo però nascondere anche i veri problemi tipici degli handicappati (specie di quelli mentali gravi), relativi alle facoltà conoscitive spesso poco sviluppate. E tuttavia dobbiamo essere convinti che la visione della fede non si limita alle sole conoscenze della «verità»; essa va integrata nella crescita della persona e confrontata con la vita comunitaria. Soprattutto per essi, quindi, non dobbiamo pensare ad una catechesi «intellettualistica», nel senso che si devono «impossessare» dei concetti della fede. Un handicappato può fare una buona conoscenza di Gesù, Figlio del Padre, animato dallo Spirito, senza essere costretto ad analizzare intellettualmente una situazione del genere (specie se non lo può assolutamente fare per carenze personali!).
    Diciamogli subito: «con Gesù possiamo essere amici di Dio nostro Padre»; «Gesù ci insegna, attraverso il suo Spirito di Amore, come essere amici di Dio». Così fin dall’inizio presentiamo il vero Gesù, la cui vita è trinitaria e che ci invita a partecipare a questa ricchezza d’amore.
    È così, ad esempio, che la messa sarà presentata a partire dall’esperienza della nostra incapacità di trovare da soli il modo di indirizzarci a Dio nostro Padre; sarà vista come una festa, con Gesù, per ammirare i doni che Dio ci ha fatto. La comunione eucaristica sarà percepita come necessaria poiché Gesù viene a dire con noi: «Gloria a Dio», «Padre nostro».
    Si tratta certo di una specie di «teologia affettiva» che essi potranno tradurre nella loro vita religiosa in mentalità pre-logica; ma, a poco a poco, e man mano che le loro facoltà intellettuali progrediscono verso il realismo, la loro visione religiosa si purificherà; anche se spesso sarà necessario aiutarli esplicitamente. È vero, comunque, che in via ordinaria la nostra catechesi si deve indirizzare anche all’intelligenza delle persone; ma sappiamo inoltre che deve essere mobilitata tutta la persona nella scoperta delle verità rivelate nella Scrittura e nella Chiesa.
    L’intelligenza non può rimanere la sola interessata alla proposta di fede. Anche la dimensione affettiva ne deve essere capace; e poi, se il livello del soggetto lo permette, ne potrà rispondere a sua volta. La catechesi non deve essere centrata sulla preparazione alla vita futura (quando avremo il pieno possesso delle verità), ma deve essere l’occasione di una vita presente in cui ciascuno è sollecitato a ricevere e dare secondo le sue possibilità.
    Infatti, malgrado i nostri limiti, più o meno accentuati, relativi alla nostra natura, noi aspiriamo a una vita in cui saremo pienamente noi stessi e felici. Ma sembra che talvolta dimentichiamo che la vita eterna ci è data fin d’ora, nella fede. La speranza non è l’attesa di un paradiso futuro, è la certezza che la vita attuale ha dimensioni di eternità. Già oggi, come domani e sempre, l’amore del Signore è presente per crearci e ri-crearci.
    Perciò non si deve avere paura di mettere al più presto l’handicappato (anche quello mentale) a contatto con il Signore con la preghiera personale e la recezione sacramentale, obbligandosi a procedere molto lentamente sia nella organizzazione delle proposte relative alla iniziazione sacramentale, sia nell’attenzione al linguaggio dei segni.
    Bisogna procedere per livelli progressivi:
    – un primo livello richiede la differenziazione metodologica delle esperienze ambientali e la stimolazione del clima vitale per l’arricchimento personale. Da qui nascono le domande concernenti i segni e le esperienze umane nel clima della vita cristiana;
    – un secondo livello richiede lo sviluppo dei temi di fede in un momento in cui vengono condensati i dati sperimentali che assumono un senso più profondo. Così la catechesi rende le esperienze del primo livello più fruttuose dal punto di vista religioso;
    – l’applicazione del terzo livello è operata dalla «individualizzazione» della proposta religiosa relativa ai momenti liturgico-sacramentali; tradurre cioè i dati del tema generale in funzione dell’individuo che deve approfondire di più l’ambiente individuale e comunitario.

    La pedagogia della espressione globale

    Come allora annunciamo agli handicappati il Dio-Amore? Con quale pedagogia ci mettiamo di fronte ad essi? Quali parole useremo? A quali segni e simboli possiamo ricorrere, per avere una possibilità di riuscita?
    L’importante, quando si vuol trasmettere il messaggio essenziale dell’amore di Dio, è far scoprire e vivere una presenza e un amore attuali. Perciò i passaggi metodologici sembrano essere:
    – una pedagogia dell’accoglienza (che non è solo atteggiamento personale ma anche esperienza di amore concreto). Gli handicappati non dovranno avere l’impressione che sono trattati da diversi, quasi con un senso di pietà. Accoglienza significa, in questa prospettiva, andare loro incontro, sorridere, salutare affettuosamente, incontrasi insieme agli altri membri dell’équipe, instaurare un clima di accordo e di amicizia. La preoccupazione principale deve essere quella della fraternità. Questi «modi di essere» non devono apparire artificiali, fabbricati all’ultimo momento, ma il segno visibile di una esperienza di fede e di amore;
    – una pedagogia del «trovarsi e ritrovarsi», che non è solo disponibilità di servizio ripetuto, ma esperienza di incontro arricchente. Dobbiamo imparare nei nostri momenti di incontro a sentirci vivi, a stare insieme, a sentirci tutti a proprio agio, a esprimere la propria gioia di vivere, a ritrovarsi gli uni con gli altri per guardarsi, per prestare attenzione a ognuno, per lasciare a ciascuno la possibilità di dire una parola, a far sentire a ciascuno che è stimato, ascoltato, che è importante ai nostri occhi e agli occhi di Dio. Si tratta di incontri realizzati «a tu per tu», che gratificano ed esprimono i segni fondamentali con i quali gli handicappati saranno invitati a scoprire l’amore di Dio-Trinità. Tutto può avere un valore simbolico: come lo spazio accogliente, la disposizione logistica degli ambienti, il clima cordiale;
    – una pedagogia del simbolo oltre la parola. Ogni simbolo è un segno e nei sacramenti si hanno simboli tutti profondamente autentici e naturali (e non convenzionali). Ma i simboli non vanno spiegati, perché pervadono tutti i livelli del nostro essere. Andiamo a Dio con tutto il nostro essere. A partire dalle esperienze di vita, simbolicamente messe in valore, condurremo l’handicappato a scoprire le realtà profonde che vuole comunicargli il Signore. Le Scritture come la liturgia della Chiesa sono le sorgenti per eccellenza dei simboli, e corrispondono alle esperienze della vita più significative della nostra natura umana. Il nostro corpo è la sorgente simbolica per eccellenza, in cui unità e diversità non possono che costituire armonia;
    – una pedagogia della parola semplice, se si distingue la parola da cui partono i simboli dal linguaggio nel senso più ristretto. Non si deve razionalizzare il simbolo né tentare di interpretarlo; bisogna fare un uso moderato delle parole, la costruzione delle frasi sia molto breve e semplice, e il parlare sia lento. Ma è necessario anche conoscere il vocabolario abituale degli handicappati, tener conto della risonanza affettiva delle parole usate per poter evitare le interferenze, le false interpretazioni, le ambivalenze di significato;
    – una pedagogia dell’espressione globale. Ricordiamo pure che il linguaggio e i segni della catechesi non si riducono a quelli impiegati dai catechisti. Ci sono anche quelli usati dagli handicappati per parlare con noi, per esprimersi tra di loro e parlare con Dio. Il nostro corpo è il primo di questi mezzi espressivi, il simbolo fondamentale; e dovrebbe avere un ruolo speciale nel nostro modo di comunicare sia con gli altri che con Dio: il mimo, l’espressione musicale, il canto, la pittura, il collage, il disegno, le attività che coinvolgano direttamente...

    La pedagogia della speranza

    I sacramenti dell’iniziazione cristiana sono azioni nelle quali la grazia si rende presente per raggiungere il credente. La catechesi speciale deve aiutare a scoprire prima di tutto la valenza che più direttamente chiama in causa la realtà di Gesù e in lui la presenza degli uomini: la sua Pasqua, di cui ogni sacramento è manifestazione e attuazione.
    In essa Dio offre la suprema prova del suo amore, perché dà la certezza che nessun limite umano gli impedisce di amare ogni uomo, anche quando viene da lui rifiutato. In questa prospettiva i sacramenti devono apparire come segni mediante i quali l’amore di Dio si rivela in tutta la vita di Gesù:
    – Gesù Cristo risorto è presente nella storia degli uomini attraverso la sua umanità: così l’esistenza umana prende sempre più la forma di Cristo;
    – la Chiesa (comunità cristiana attuale) vive la Pasqua come comunione con Gesù, nella comunione ecclesiale, anche se ci sono difficoltà di rapporto tra le persone;
    – Dio continua a fare i suoi doni agli uomini, ad ogni uomo; e non solo a coloro che hanno una intelligenza sviluppata; essi rendono l’uomo più uomo, anche quando questi non ha capacità di amarlo coscientemente;
    – il Padre mostra anche oggi la sua misericordia verso i peccatori, anche quando essi non si riconoscono tali; quando non hanno la coscienza dei propri limiti e non sanno o hanno imparato a chiedere perdono;
    – mediante i sacramenti Dio salva anche oggi; essi sono una esperienza necessaria, e ognuno va aiutato ad essere santificato cioè «salvato», ma in modo particolare ne hanno bisogno quelli più deboli umanamente, perché sono i prediletti di Cristo.


    4. La celebrazione dei sacramenti con gli handicappati

    Prima di tutto fermiamo la nostra attenzione di pastori e di catechisti sulla urgenza di far prendere coscienza agli handicappati del fatto che sono stati battezzati. Che cosa comporta per loro aver ricevuto il battesimo?
    Per i cristiani il battesimo segna l’ingresso nella vita del Regno, e costituisce il primo sacramento della nuova legge. Cristo lo offre a tutti per avere la vita eterna. Ma perché questo avvenga, è necessaria la fede per mezzo della quale gli uomini, illuminati dalla grazia dello Spirito, rispondono al vangelo di Gesù.
    Il sacramento, donando il germe della fede, incorpora gli uomini nella Chiesa e li fa diventare figli nel Figlio. Ma è evidente – per il principio della essenzializzazione – che una buona catechesi agli handicappati deve evidenziare ciò che è più caratteristico del battesimo e ciò che essi possono essere in grado di interiorizzare.
    La prima dimensione deve essere senz’altro questa: aiutare a prendere coscienza della chiamata ad essere Figli di Dio; il che avviene solo se messo in relazione con la sua paternità. Ma può diventare problematico presentare l’immagine di Dio come Padre a soggetti che dell’immagine paterna non hanno un modello esemplare. Però l’ostacolo non è insuperabile se si dà rilievo alla bontà, all’amore personale, ma anche alla trascendenza della paternità.
    A questo proposito la testimonianza della paternità concreta da parte del catechista aiuta molto. Il disadattato per abbandono o per traumi affettivi reagisce a questa nuova figliolanza in modo molto intenso: «si tratta per lui di una seconda nascita e quasi della possibilità di rientrare nel seno di sua madre. Per questo la persona della madrina e talora del padrino prendono ai suoi occhi una importanza che sembra eccessiva e che ci può persino apparire deplorevole» (H. Bissonnier).
    L’handicappato può arrivare a comprendere che l’amore di Dio lo ha chiamato alla vita e gli ha preparato un posto. Un posto per vivere è un bisogno vitale e profondo radicato nel cuore di ogni uomo. Ciascuno, per essere se stesso e trovare la propria identità, ha bisogno di sentirsi parte integrante di un luogo che, appunto perché accoglie, non può non divenire luogo di amore. Ed è proprio questa la fondamentale esperienza che permetterà all’handicappato di costruirsi, di espandersi, di sentirsi se stesso.
    Chi avrà vissuto pienamente questo senso di appartenenza e avrà acquisito la propria identità, diverrà una persona ben integrata nel contesto sociale, e potrà intuire l’armonia e la sapienza di un Dio nel cui progetto ogni uomo, ogni evento e ogni situazione, sono come le tessere di un grande mosaico, perché collocate al posto giusto.
    Ma oggi, purtroppo, sono sempre di più gli educatori che si trovano di fronte a tante persone sole, senza profondi legami e con desideri inappagati di una presa in carico; e sentono viva la responsabilità di creare per loro un luogo affettivo, accogliente, valorizzante. Pertanto sarà necessario, da una parte, relativizzare discretamente, nella mentalità dell’handicappato, le attese impossibili a tale riguardo; dall’altra sarà utile che le madrine e i padrini siano coscienti di affrontare un compito delicato, esigente e irrevocabile, in modo da evitare il danno enorme che provocherebbe nel soggetto disturbato un secondo abbandono.

    Le linee di catechesi del battesimo e le possibili attività pratiche

    Pertanto, in relazione al battesimo e ai suoi significati profondi per la vita cristiana, che tutti i battezzati sono chiamati a scoprire e a vivere, è necessario che la catechesi rinforzi le seguenti dimensioni fondamentali:
    – la dimensione della paternità di Dio. Dio si rivela come un Padre comune per tutti gli uomini, non selezionando categorie. E questo, anche quando questi figli si dimostrano incapaci di accettare questa «relazione» filiale;
    – la dimensione della fraternità degli uomini in Dio, accettati nella persona di Gesù Cristo. Tutti sono chiamati ad amarsi come fratelli e costruire una comunità di fratelli;
    – la dimensione della provvidenza di Dio; un Dio che in modo particolare ama quelli che ne hanno più bisogno, perché i più poveri, i più deboli, i più abbandonati. Nel parlare il linguaggio corporale come elemento costitutivo della pedagogia catechistica può essere utile, a questo proposito, usare il linguaggio delle mani per far comprendere anche il mistero che nel sacramento celebriamo: mani che accolgono e proteggono (le mani di Dio nostro Padre); mani che guidano, sostengono, aiutano gli uomini membri della Chiesa. La catechesi perciò vuole portare gradualmente anche gli handicappati a raggiungere le seguenti finalità relative alla:
    – presa di coscienza che anche essi hanno ricevuto da Dio il dono della vita, sono nati in una famiglia, hanno un nome e cognome, hanno un posto nel mondo. Per raggiungere tale obiettivo la catechesi mira a sviluppare queste idee: ogni soggetto in difficoltà esistenziale, come ogni bambino che si apre alla vita, è stato atteso, ha trovato qualcuno che lo ha accolto e si è preso cura di lui, gli ha fatto festa; questo porta a comprendere che ogni vita è dono di Dio. Si può arrivare a questa semplice conclusione che se ogni vita è un dono, ciò porta a conoscere il donatore e avere nei suoi confronti un certo tipo di atteggiamento. La risposta al dono è una vita di gratitudine nei confronti di Dio che ne è il donatore. Per questo il battesimo, che dona la vita di Dio, fa diventare suoi figli;
    – scoperta del valore del proprio nome come segno distintivo della persona, per intuire che essere chiamati per nome significa essere accolti. A questo proposito le idee da sviluppare sono: è molto importante conoscere per nome le persone, gli animali, le cose. Solo quando ognuno impara a conoscere il nome delle persone, degli animali e delle cose, può dire di aver iniziato a stabilire con loro un rapporto più personalizzato. Diventa perciò significativo anche per gli handicappati scoprire la propria realtà di persona umana (anche se è limitata da qualche difficoltà), con i suoi valori e i suoi limiti. Ognuno, quindi, per quanto può, deve essere aiutato a conoscere se stesso e a sapere che, sviluppando le proprie potenzialità, diventa sempre più persona capace di occupare il posto irripetibile a cui è destinato. Ma per diventare pienamente se stesso, ognuno deve accettare i propri limiti e usare positivamente le capacità e le qualità che possiede;
    – scoperta della bellezza, dell’utilità dell’acqua e della luce come doni di Dio; elementi della natura che nel sacramento acquistano pienamente il loro significato simbolico. Le idee da sviluppare a questo riguardo, sono esattamente i simboli legati alla luce e all’acqua. L’acqua, il cui uso che ne facciamo nell’alimentazione, nella pulizia, nella vita delle piante... aiuta a comprendere che è volontà di Dio di conservare nelle persone e nelle cose la vita che ha donato. La semina e la crescita della pianticella farà intendere più facilmente il mistero del battesimo, una vita in Cristo che deve essere alimentata con azioni concrete che non possono essere lontane dall’amore di Dio e dell’amore del prossimo. Il contrasto tra luce e oscurità può evidenziare che il battesimo è come una luce che permette di vedere con più chiarezza le cose della vita.
    Questa luce è l’amore che Dio manifesta ad ogni uomo e che chiama ad alimentarlo nella propria vita, invitando a donare amore alle persone con cui si vive ogni giorno.
    Le attività operative che possono aiutare a interiorizzare le verità del sacramento si possono sintetizzare nelle operazioni dei seguenti verbi all’infinito:
    * narrare il testo evangelico del battesimo di Gesù (che può aiutare a scoprire una relazione tra la vita cristiana e quella di Cristo);
    * assistere in parrocchia alla celebrazione di un battesimo (che può aiutare a richiamare alcuni elementi visivi del rito collegati con esperienze battesimali vissute precedentemente nella catechesi);
    * sintetizzare le esperienze relative all’acqua nell’uso quotidiano su un cartellone e far trarre conclusioni che l’acqua è fonte di vita, di crescita, di pulizia. Se il gruppo ne è disposto, la ricerca può essere ampliata con l’aggiunta di illustrazioni relative all’acqua fonte di energia elettrica e di ricchezza, mezzo di comunicazione e di scambio economico, così che il concetto di vita venga maggiormente evidenziato;
    * rappresentare il momento dell’acqua versata sul capo del bambino attraverso qualche foto-ricordo (per far comprendere, richiamandosi a esperienze precedenti, il valore simbolico dell’acqua come fonte di vita, di crescita, di purificazione);
    * comunicare che, per i cristiani, il battesimo è il sacramento che dà la vita nuova di figli di Dio, facendo eseguire un’azione corporea, per far intuire attraverso i simboli dell’acqua, della luce, della veste bianca, il significato del battesimo. Tale azione scenica può essere realizzata al termine di un itinerario catechistico battesimale..., procedendo in questo modo:
    – preparare un recipiente abbastanza grande che contenga dell’acqua; vi si collochi al lato una composizione di piante e una brocca per attingere;
    – mettere alla destra del recipiente un grande cero e disporre tutti in un ampio cerchio che comprenda anche la vasca dell’acqua e il cero;
    – porre davanti a ciascuno un lumino e una leggera stoffa bianca e far entrare una ragazza vestita di bianco che danza mentre viene proclamato: «Io danzo per il mio Signore che mi ha dato una veste di allegrezza» (musica);
    – la ragazza si avvicina alla vasca, immerge le mani nell’acqua facendola scorrere, poi si avvicina alla pianta e la avvolge quasi in un abbraccio, mentre viene commentato: «Il mio Signore mi ha dato l’acqua della vita»;
    – la danzatrice si avvia poi verso il cero come percorrendo una strada, vi accende una candela e ritorna al centro con la candela accesa. Durante i tre momenti dell’azione viene proclamato: «La strada del mio Signore mi porta verso la luce». «Il Signore è mia luce e mia salvezza». «Se cammino col mio Signore, di chi avrò paura?»;
    – la danzatrice proclama ad alta voce, tracciando un ampio gesto di croce, «Io... sono stata battezzata nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». E subito si avvia ad accendere i lumini posti davanti a ciascun ragazzo, mentre il commento prosegue: «... per portare la luce del mio Signore a chi è nel buio»;
    – quando tutti i lumini sono accesi, la ragazza attinge acqua con la brocca e porge da bere ai bambini dicendo: «... per portare la sua vita a chi non ha vita».
    L’azione si può concludere con una danza carica di gioia accompagnata dal movimento ritmico di tutti i componenti del cerchio che fanno ondeggiare la stoffa bianca mentre la voce commenta: «... per cantare sempre la sua gioia».

    L’ammissione alla confermazione: preparazione e doni dello Spirito

    Per la celebrazione della confermazione, gli handicappati battezzati non dovrebbero incontrare particolari difficoltà. «È capace di ricevere la confermazione ogni battezzato e il solo battezzato che non l’ha ancora ricevuta» (CJC 889, 1). «Fuori del pericolo di morte per ricevere lecitamente la confermazione si richiede, se il fedele ha l’uso di ragione, che sia adeguatamente preparato, ben disposto e sia in grado di rinnovare le promesse battesimali» (CJC 889, 2).
    Anche il nuovo «Rito della Confermazione», per ragioni pastorali, e per inculcare con maggiore efficacia nella vita dei fedeli una prima adesione a Cristo Signore e una solida testimonianza, consiglia l’amministrazione del sacramento in un’età idonea e che sia preceduta da una congrua preparazione.
    È chiaro che gli handicappati hanno il diritto a ricevere la confermazione quando lo si ritiene opportuno, e che devono essere sostenuti dalla comunità di fede. Possono diventare così annunciatori della bontà di Dio, anche nei limiti corporali o mentali, perché ogni uomo è «immagine del figlio di Dio fatto uomo». L’handicap è un forte richiamo alla persona sana per riflettere sui propri limiti, la propria povertà, la propria insicurezza; è la spinta a cercare Dio, per trovare in lui una risposta al bisogno fondamentale di vita. La morte di Gesù è segno dell’handicap totale che è il peccato dell’uomo «senza Dio» e la sua risurrezione è la piena liberazione da ogni limite. La testimonianza dell’handicappato si realizza nell’essere più che nell’agire. Con tutta la persona, con la presenza all’interno della famiglia e della comunità, egli testimonia morte e risurrezione di Gesù ed è segno attualmente presente del futuro di Dio, dove morte e dolore verranno vinti. Nello stesso tempo quindi il suo bisogno visibile sollecita la comunità alla sua dimensione di servizio sottolineata dal sacramento, e cioè «l’essere per gli altri».
    La celebrazione della confermazione diventa allora un momento di verifica della fede: i genitori insieme ai figli si impegnano a fare un cammino di crescita comune. L’ammissione dell’handicappato alla confermazione non è tanto legata all’età prefissata o al problema senza risposta se ne è capace; è la famiglia con la comunità, che si rende garante del cammino di fede del disabile e insieme si preparano all’incontro comunitario della celebrazione.
    Nel predisporre il piano del loro inserimento nella preparazione alla confermazione, la comunità è invitata a riflettere sul fatto che essi col loro modo di essere e di fare interpellano continuamente il mondo dei credenti, perché possono mettere davanti alla propria coscienza una realtà umana che si colloca nel piano della salvezza. Per i credenti la persona dell’handicappato è:
    – «segno» che suscita interrogativi sul valore della vita, facendone scoprire la pochezza. Infatti, è indice di fede immatura giudicare le situazioni con criteri punitivi, strumentalizzando Dio con una giustizia umana immediata;
    – «segno» che trova risposta in Gesù: la sofferenza, la malattia, la morte non sono frutto di peccato personale. Gesù stesso, l’innocente che soffre e muore, è la risposta più efficace: egli non sfugge al dolore. L’interrogativo è più nascosto e profondo; all’origine della vita umana c’è stato un rifiuto di Dio. La menomazione fisica o mentale non è un caso;
    – «segno» da interpretare: in una società fondata sul benessere, sull’utilitarismo, sulla produttività, sul piacere, non è facile cogliere il messaggio della persona handicappata. In lui è presente la Parola visibile di Dio anche se proposta in modo silenzioso. Egli è un dono che può richiamare l’impotenza, l’incapacità, i limiti dell’uomo. È un dono che rivela la dipendenza, la fragilità della condizione umana; è un dono che apre alla solidarietà, alla generosità, alla condivisione;
    – «segno» che invita le persone ad una maturazione vera della personalità umana, cioè aperta al divino;
    – «segno» che rivela il diritto assoluto di essere persona, di comunicarsi a Dio sempre, di essere segno del richiamo alla divina presenza che si identifica con l’ammalato, il povero, l’emarginato, l’incompreso.
    C’è ancora una mentalità diffusa che fa ritenere la confermazione come il sacramento della raggiunta «maturità cristiana».
    Si deve partire invece dalla convinzione che il dono dello Spirito, ricevuto nel sacramento, fa sì che il battezzato può camminare più speditamente verso la maturazione della fede proporzionata alle sue possibilità di vita.
    Lo Spirito Santo perciò sarà presentato come l’amico che aiuta il credente a diventare migliore, ad amare meglio Dio-Padre e le persone-figli e figlie. Si faccia attenzione, però, a sottolineare la necessità della collaborazione da parte del soggetto, e a non dare l’idea di una trasformazione spettacolare. La ricchezza simbolica del sacramento si presenta troppo varia per pretendere di farla comprendere tutta. Basterà soffermarsi sui riti essenziali: come il gesto solenne di preghiera, l’imposizione delle mani, il segno di croce sulla fronte.
    L’essenziale del sacramento (Gesù chiede al Padre per gli uomini lo Spirito di amore) sarà facilmente accessibile se la preparazione è stata fatta nell’insieme di tutta la catechesi. La dimensione di presenza dello Spirito richiama l’iniziazione alla preghiera.
    Sembra perciò che l’handicappato abbia una preferenza per la preghiera intima; egli ha pudore dei propri sentimenti, e gusta meglio il silenzio nei momenti di stabilità. È preferibile quindi iniziarlo prima alla preghiera personale, silenziosa, raccolta; poi a quella comunitaria. Ma si eviti di far diventare la preghiera una «impresa pesante e contratta».
    L’educazione alla preghiera comporta piuttosto l’abitudine a riposare davanti a Dio e in Dio. È una meta difficile per soggetti particolarmente instabili; può essere di aiuto un esercizio preliminare di distensione, favorito da un clima e un ambiente particolare: partecipazione attiva, illuminazione non abbagliante, ambiente tranquillo, accompagnamento musicale ben scelto e discreto.
    La preghiera comunitaria è più difficile per gli handicappati ma non bisogna escluderla. Per evitare che una celebrazione liturgica degeneri, bisogna prepararla accuratamente, per pochi soggetti, mettendo particolare cura nella composizione dei gruppi. Infatti certi soggetti di questo genere si eccitano a vicenda, mentre altri si calmano gli uni gli altri. Una volta creato il clima adatto, si sarà sorpresi dalla serietà e dalla intensità con cui essi sanno stare, sanno esprimersi dinanzi a Dio, quasi rapiti dal senso del sacro. Tra le forme di preghiera comunitaria, i salmi di fiducia, tradotti in modo da non spogliarli della loro armonia e del loro sapore, costituiscono un mezzo privilegiato e possono favorire anche l’accoglienza dei doni dello Spirito Santo.
    La riscoperta dei suoi doni può portare a sperare che ciò che l’uomo desidera più profondamente verrà realizzato. Ne emergono applicazioni per l’educazione alla vita di fede: ogni persona redenta da Cristo è chiamata ad essere «figlio di Dio». Lo Spirito lo attesta e se ne fa garante, per una crescita che non si può calcolare. I suoi doni, infatti, coincidono con i bisogni della crescita cristiana e la illuminano.
    I sette doni costituiscono, perciò, un programma educativo e catechistico (contenuti, itinerari, metodo): mettersi accanto all’handicappato, aiutandolo ad acquisire una visione delle cose e della vita (anche se minima) nella direzione della maturazione di fede; incoraggiarlo ad affrontare con fortezza la propria esistenza conforme ai desideri del Padre.
    Il dono della sapienza fa percepire la bontà delle persone e la bellezza del mondo, rendendo capaci di gustarle e, attraverso di esse, facendo risalire al donatore (Dio Creatore e Padre). È la bellezza della verità, dei gesti, dei comportamenti, delle imprese umane.
    Acquistare sapienza significa far arrivare con lo sguardo là dove le realtà sprigionano il bene, aiutare a radicarsi in esso, fosse anche umile e quotidiano, incoraggiare a distinguere il bene dal male, mettere davanti al senso della vita per trovare la chiave della felicità. Così la sapienza diventa la bussola della vita.
    La catechesi svela e fa apprezzare i gesti che danno felicità; scopre la bellezza delle cose, anche ordinarie e nascoste (la bellezza attira, entusiasma; non suscita tanto il sentimento dell’obbligo, quanto quello dell’amore); percorre la strada che va dall’esperienza al senso della vita e dal senso della vita alla sua fonte; impara a distinguere le azioni buone da quelle cattive, aiutando la formazione della coscienza morale.
    Il dono dell’intelletto, intus legere, cioè leggere in profondità; è il dono che cerca, con la ragione e con la parola di Dio, una conoscenza profonda e cosciente della realtà e dei fatti. Lo Spirito conosce ogni cosa, anche i pensieri segreti di Dio. Ma viviamo in un mondo di valutazioni rapide e superficiali, dove si cerca di apparire più che di essere. L’intus non è oggi l’aspetto forte delle aspirazioni personali. La catechesi aiuta ad entrare nella verità di se stessi e delle cose («quando verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera»); fa superare la superficialità per un approccio serio alla vita e al mondo (che aiuta ad evitare il «mordi e fuggi»); non si accontenta né di quello che si dice, né dei risultati dei sondaggi, né della notizia, né del primo commento, né delle immagini offerte... ma tutto va confrontato con la Parola che è la persona di Gesù (che invita ad essere suoi seguaci).
    Il dono del consiglio dice quel progetto di vita conforme alla ricchezza di possibilità che Dio ha messo nel cuore e nella mente di ognuno. È capacità di scelta, di giusta decisione e disponibilità a seguire quello che si è scelto. Consiglio nella Sacra Scrittura significa «disegno, progetto, piano giusto e misericordioso». Viene riferito sovente a Dio che prevede, previene, decide e opera.
    La catechesi reagisce all’immediatismo e all’indecisione permanente che non permette di sviluppare la vita; impara a conoscere ciò che Dio vuole da ciascuno, per misurare le proprie possibilità, per infilare la strada giusta, per seguire il cammino che ci si addice!
    Il dono della fortezza significa coraggio, costanza, tenacia, forza interiore, capacità di tenuta, resistenza allo sforzo, alla sofferenza, persistenza nei propositi. Per il cristiano questa «forza» è il dono che aiuta a comprendere il significato della fedeltà alla vita di fede. Da ogni parte si lamenta la fragilità, l’incostanza, la concezione che tutto va acquisito in forma facile o altrimenti si abbandona, che la persona si sente padrona della libertà fino a non sostenere gli impegni presi. D’altra parte, abbiamo esempi mirabili che, per fedeltà, hanno portato all’offerta della vita nel quotidiano o nel martirio serenamente accettato.
    La catechesi rinforza la capacità a non essere né dubbiosi, né ambigui, ma chiari nelle valutazioni e nelle proposte, anche con amorevolezza; invita a non cedere al conformismo che dilaga, attraverso una giusta resistenza; aiuta a comprendere che i risultati richiedono uno sforzo lungo, che il «cambiamento» non è sempre la soluzione ai dubbi e alle prove, che la fedeltà a lungo termine contiene in sé gioie sempre nuove e maggiori.
    Il dono della scienza viene detta anche conoscenza. Nella Bibbia conoscere significa comprendere attraverso l’esperienza dell’amore. La scienza è il dono che porta a conoscere per amore, o l’amore che fa comprendere, a volte senza poter definire con concetti articolati. È insieme esperienza e intuizione.
    La catechesi aiuta ad acquisire il rapporto di affettività inteso in senso totale con le persone e con le cose (il cuore che comprende); insegna che comprendere una persona o una azione è prima di tutto opera di amore; invita a comprendere che lo Spirito guida soprattutto a conoscere Dio attraverso l’amore, come la via più diretta e più perfetta; invita ad andare oltre la conoscenza fredda, che si esaurisce nella sola funzionalità; fa superare quell’approccio alla vita ispirato dal desiderio del proprio successo o vantaggio, piuttosto che aprirsi a Dio.
    Il dono della pietà è il rapporto, il sentimento e l’attaccamento dei figli ai loro genitori. È così sottolineato nella Bibbia che lo Spirito dà la coscienza di figli, mette sulle labbra le parole proprie del figlio e fa sentire, come figli, la paternità di Dio.
    La catechesi porta a credere che tutto ciò che succede ubbidisce a una volontà di Dio, piena di amore per l’uomo; fa riconoscere Dio come il vero «Padre nostro» (che vuole che i figli si costruiscano come persone e affrontino la vita); rinnova, nell’educazione cristiana, la vibrazione per Dio, facendolo sentire interiore e vicino, legato all’uomo da un amore paterno; insegna a rispondere con amore filiale.
    Il dono del timor di Dio è il senso della grandezza e della santità di Dio che è un padre buono. Ma è anche potente, sovrano, creatore e Signore. È trascendente. Elargisce i suoi doni, ma chiede responsabilità. Perdona sempre, ma «non va preso in giro».
    È un Padre, non un «jolly» per i momenti opportuni. Non può diventare uno strumento né per i singoli, né per i potenti, né per le organizzazioni di qualsiasi tipo. È all’origine di ogni essere, di ogni dono, di ogni grazia. Quando si perdono le dimensioni di Dio, si perdono le dimensioni della vita e della dignità umana.
    La catechesi inculca il rispetto di ciò che Dio è (perché il «temerlo» ricorda che l’uomo non è padrone del bene e del male; e dunque in Lui va cercato il fondamento della Vita e dei Valori); porta a parlare bene di Dio (con amore, con rispetto, con conoscenza, con proprietà); non sfigura la sua immagine, non la rende distante o peggio ancora poco amabile (come caricature o macchiette come quella di un qualsiasi «amicone», di un controllore, di un tiranno, di un giudice severo). Un padre che si ama... si ha il dispiacere di offenderlo.
    I sette santi doni dello Spirito danno una visione «a fuoco» della realtà e della storia di ogni battezzato, una consapevolezza della propria dignità e del proprio destino a dimensione personalizzata, una conoscenza e un gusto di Dio che si identifica in quella educazione integrale, chiaramente orientata, fiduciosa della verità e della persona.

    L’ammissione degli handicappati all’Eucaristia e le caratteristiche della preparazione

    L’Eucaristia è il dono più grande fatto dal Signore ai discepoli per il sostegno della loro fede; perciò nessuno ne deve essere privato. È un sacramento che va preparato, celebrato e vissuto nei modi specifici, e tenuto conto delle esigenze caratteristiche di ogni soggetto. Nell’ammettere un handicappato alla «comunione», si devono evitare due estremi:
    – presumere che egli non sia in grado di «imparare»; eliminando quindi ogni sforzo di preparazione. Gli si nega in pratica la capacità di conoscere e amare Dio, se aiutato;
    – considerare l’handicappato uguale a ogni altro battezzato. Chiedendogli ciò che va al di là delle sue capacità, gli può causare ulteriori frustrazioni esistenziali.
    Più che dell’età mentale calcolata in relazione all’età reale e al quoziente intellettuale, occorre tener conto della situazione specifica del suo stato personale nel clima delle comunità di riferimento. In ogni caso, si deve tentare una preparazione, certamente molto delicata e laboriosa, ma che merita che vi si consacrino delle energie umane e pastorali.
    Si ricorda che tutte le prescrizioni della Chiesa per ciò che riguarda la partecipazione all’Eucaristia (uso della ragione, istruzione catechistica, atteggiamento devozionale) non inficiano la validità del sacramento. Queste prescrizioni possono essere proposte alle persone anche con handicap mentale se vengono applicate «secondo la loro capacità».
    Non si può mai dire con sicurezza quanto, anche nella vita psichica più compromessa, ci sia di solo personale (dell’handicappato) o in rapporto al solo contenitore (cioè la comunità cristiana). Si hanno motivi per dire che non esiste nessuna sensibilità da parte del soggetto? Ma cosa si sa delle modalità con cui la grazia di Dio può agire dentro il cuore di una persona, anche normale?
    Dal punto di vista pratico, perciò, si può arrivare ad una risposta: nel caso degli handicappati, il sacramento verrà dato tenendo presente la realtà del contenitore, aperta il più possibile alla valorizzazione delle possibilità personali. Allora, il problema dell’ammissione degli handicappati psichici ai sacramenti si risolve applicando ad ogni caso particolare la legge fondamentale della comunità cristiana.
    D’altro canto, i pericoli di «profanazione» (paventati da alcuni pastori) sono molto meno considerevoli di quanto s’immagini. Negli istituti di accoglienza degli handicappati non si è mai avuto a deplorare un fatto di questo genere. Non si deve quindi privare facilmente del sacramento.
    Per giudicare sul momento giusto, si dovrebbero considerare alcuni fattori: la maturità spirituale «personale» del soggetto, la sua capacità di prendere le cose sul serio, il sostegno che egli riceve dalla famiglia, il suo desiderio di ricevere la comunione. Forse non è capace di comunicare questo desiderio con le parole, ma chi gli sta vicino comprenderà la luce negli occhi, il vigoroso cenno con la testa, la riverenza di tutto il suo corpo.
    Si deve anche tener conto dello sviluppo più lento degli handicappati (soprattutto mentali). È importante non spingerli troppo in fretta, perché hanno passato l’età in cui gli altri normalmente fanno la prima comunione. Si fa presto a insegnare a ricevere fisicamente la comunione; ma ci vorrà molto tempo perché egli sia interiormente capace di partecipare al sacramento secondo le sue possibilità. Alla comunità rimane il dovere di preparare alla distanza, con pazienza e con serietà anche gli handicappati all’Eucaristia. L’iniziazione cristiana, cominciata con il Battesimo, si compie nell’Eucaristia, come segno supremo dell’amore con cui Gesù unisce in «comunione» a sé i suoi fratelli, e come suprema espressione dell’inserimento nella Chiesa suo Corpo.
    Se, in realtà, da una parte non è possibile ottenere da essi le normali disposizioni di consapevolezza nella partecipazione all’Eucaristia, nel saper distinguere il pane eucaristico dal pane comune e nel riceverlo con venerazione, dall’altra parte sembra doveroso portare a compimento il cammino di grazia che la Chiesa ha iniziato con loro garantendo nel Battesimo la vita di figli di Dio, salvo il pericolo di irriverenza nella ricezione del sacramento.
    Il primo principio è che il Battesimo, per natura sua, è finalizzato alla pienezza della vita sacramentale: che si raggiunge partecipando all’Eucaristia.
    Il secondo principio è il desiderio che la partecipazione all’Eucaristia coinvolga le sue capacità psichiche. Mentre il Battesimo di norma è conferito prima dello sviluppo psichico, l’Eucaristia richiede l’uso della ragione, la consapevolezza almeno degli impegni battesimali, la capacità di accogliere liberamente il nuovo stile di vita cristiana a cui l’Eucaristia impegna.
    Il terzo principio interviene in quei casi in cui i primi due sembrano entrare in conflitto. Sono i casi in cui la vita psichica è gravemente compromessa o praticamente inerte.
    In questi casi il principio dell’oggettiva finalizzazione del Battesimo all’Eucaristia si scontra col principio delle soggettive disposizioni spirituali richieste perché il battezzato possa accedere all’Eucaristia.
    L’ammissione alla comunione comunque è un diritto conferito a ogni battezzato. Perciò non dobbiamo chiederci: è possibile per... essere ammesso alla comunione; ma chiedersi: «in quale modo può essere preparato». È importante ricordare che ci sono vie diverse verso il sacramento.
    La Chiesa ha dato certe linee direttive circa il momento più opportuno, cioè quando un bambino sa distinguere il pane eucaristico dal pane normale, e mostra una certa devozione verso il sacramento, appropriata alla sua età. Prima, si associava questo momento con l’età della ragione, ma la comprensione di come la mente psicologicamente si sviluppa ha suggerito che per la distinzione citata non è necessaria la capacità di ragionare.
    Quando gli handicappati mentali sono presenti nella Messa, accolti dall’assemblea, è normale che nasca in loro il desiderio di prendere la comunione. Le loro famiglie e i catechisti potrebbero far crescere questo desiderio, nutrirlo, e così prepararli alla Prima Comunione. L’elemento chiave è quello della devozione; se questo atteggiamento è presente, indica che l’handicappato è capace di distinguere fra pane eucaristico e pane normale. Un altro modo per esprimere la devozione è il «rispetto», la «venerazione». Perciò i genitori, gli educatori, i pastori d’anime devono particolarmente impegnarsi dinanzi a questi casi, tenendo presenti alcune indicazioni:
    – in primo luogo, che è difficile valutare con certezza assoluta l’inerzia delle energie psichiche: non sappiamo quali possibilità di comunicazione sono realmente nascoste nella mente di una persona apparentemente inerte;
    – in secondo luogo, che è ancor più difficile, se non impossibile, prevedere e misurare le interiori possibilità di dialogo che Gesù con la sua grazia sa attuare con questi fratelli, che sembrano incapaci di dialogo tra gli uomini;
    – in terzo luogo, che nel caso degli handicappati psichici si attua in modo più vistoso una legge che vale per ogni persona, cioè la legge dell’osmosi tra vita psichica personale e influsso ricevuto dall’ambiente. In questo caso l’ambiente, costituito da genitori, da educatori, da amici, ecc., diventa come un contenitore globale che accoglie la loro vita e media i rapporti con il mondo. Con essi gli handicappati fanno unità con l’ambiente; perciò ammetterli ai sacramenti vuol dire preparare, incoraggiare, sostenere, confortare, arricchire spiritualmente il loro ambiente di vita.
    La catechesi in vista del sacramento esige il rapporto tra l’esperienza umana e la verità di fede in esso celebrata; esige anche il prerequisito della fede, senza la quale non c’è azione sacramentale, ma ritualità. Ci si domanda allora: nel caso di handicappati, anche mentali gravi, quale deve essere questa fede? Quali ne sono i segni?
    Come primo atteggiamento fondamentale da assumere è quello di riporre prima di tutto la fiducia nel Signore che «solo» conosce veramente la fede di coloro che lo ricevono; ci si appoggia alla certezza che «comunicarsi» è prima di tutto ricevere un dono divino accordato ai poveri, come lo sono tutti e in modo particolare i «poveri». L’Eucaristia è infatti proprio il nutrimento dei poveri...
    Successivamente è la fede del «contenitore» in cui è collocato l’handicappato: cioè la comunità cristiana. L’Eucaristia è infatti momento di unità tra tutti coloro che sono battezzati e «sono qui presenti...». Ora molti soggetti, anche gravemente ritardati, sono in grado di operare una tale distinzione e di rendersi conto di aver bisogno di questo pane e di sentirsi uniti ad una comunità; in altre parole sanno rendersi conto che il «Pane» eucaristico non è la stessa cosa che il «pane» comune.
    È importante per i parenti, gli educatori e i pastori ricordare che la distinzione tra il Corpo di Cristo e il pane normale non dipende solo da funzione cognitiva che permette il ragionamento astratto. La psicologia evolutiva rivela che i bambini con normale sviluppo, cominciando dai tre anni, possono prendere parte alla esperienza religiosa e possono intuire la dimensione religiosa senza essere abili nella concettualizzazione. Così molti degli handicappati anche mentali, come i bambini piccoli, possono apprendere il sacro e il simbolico a livello pre-concettuale.
    Essi appaiono abili nel prendere parte agli eventi religiosi ma non riescono a spiegare e riflettere quello che sentono. Possono apprezzare la differenza tra il Pane eucaristico e il pane normale, specialmente nel contesto della celebrazione della messa, anche se non riescono a esprimerlo con i concetti cognitivi e astratti.
    Questa distinzione, ben inteso, non deve limitarsi alle sole caratteristiche esteriori, ma arrivare al riconoscimento di un carattere sacro al Pane eucaristico, in rapporto al pane comune.
    E, al livello dell’espressione simbolica, gli handicappati possono spesso apprendere la natura dell’Eucaristia nel contesto relazionale dell’amore della vita di famiglia e della comunità adorante.
    Si tenga presente, inoltre, il legame diretto del sacramento con la messa. «Comunione eucaristica» e «celebrazione del sacrificio» non devono mai essere separati, tanto più che il soggetto turbato è incline a sfaccettare la realtà e ad aggrapparsi ad un solo aspetto di essa.
    Non sarà il caso di insistere troppo su particolari che potrebbero turbare, come ad esempio il sacrificio sulla croce; si tratta di trovare parole adatte per esprimere lo stesso concetto o rimandare qualche aspetto a momenti più opportuni. La «comunione» va presentata come il modo per eccellenza di partecipazione alla messa; e la messa stessa come riunione di famiglia dei cristiani nella casa del Padre, per partecipare tutti al convito di festa in cui Gesù Cristo dona tutto al Padre, dona al credente il suo pane, gli trasmette la sua vita per farlo vivere meglio.
    Nell’Eucaristia è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo pasquale e pane vivo che, mediante la sua carne vivificata dallo Spirito Santo, è vivificante, dà la vita agli uomini, i quali sono in tal modo invitati e indotti a offrire, insieme a lui stesso, il proprio lavoro e tutte le cose create.
    Per questo l’Eucaristia si presenta come fonte e culmine di tutta l’evangelizzazione, cosicché i catecumeni sono introdotti a poco a poco alla partecipazione all’Eucaristia, e i fedeli, già segnati dal sacro Battesimo e dalla Confermazione, sono pienamente inseriti nel Corpo di Cristo per mezzo dell’Eucaristia.
    Nella comunità cristiana gli handicappati psichici partecipano a pieno diritto a questa Eucaristia e sono nel numero di coloro che sono «invitati alla Cena», essendo per la grazia del Battesimo anche essi «stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui» (1 Pt 2,9).
    Bisogna ricordare che parole molto improprie possono essere la manifestazione povera e inadeguata di una profonda coscienza dell’atto desiderato e di una disposizione reale a compierlo bene.
    Non dimentichiamo che gli handicappati non hanno lo stesso nostro modo di esprimersi e che spesso siamo noi i più «disadattati» a iniziare il dialogo. La cosa essenziale è sempre la stessa: conoscere bene il soggetto e i suoi mezzi propri di espressione.
    Inoltre sarebbe del tutto inopportuno, in occasione della prima comunione, esaltare o calcare l’idea della gravità di quello che si sta per fare, della responsabilità che ci si assume, della eventuale colpa se si verrà meno all’impegno. Un simile atteggiamento potrà essere del tutto disastroso.
    C’è da ricordarsi anche che persino il troppo fasto alimenta l’ansietà del soggetto turbato.
    L’atmosfera serena e gioiosa, semplice, tranquilla, un po’ di calda intimità, si addicono molto meglio alla loro psicologia e al significato della funzione liturgica.

    CONCLUSIONE

    A chi ha letto fino in fondo il dossier non deve essere sfuggito il tessuto connettivo che unifica tutto il materiale della riflessione: fondamentalmente è quello della «solidarietà» tra comunità cristiana e mondo dell’handicap.
    Questa matrice interpretativa costituisce come il collante che avvicina e fa inter-agire nella vita della comunità i «normali» e gli «handicappati».
    Si tratta di costruire una «solidarietà pastorale» che deve diventare evidente nel rapporto tra comunità e handicappati prima di tutto nella dimensione pastorale «normale» (che cioè deve valere per tutti); successivamente si deve accentuare in scelte complementari che si fanno proposte diversificate per una specifica esperienza di fede (catechesi); per un inserimento a pieno titolo nella celebrazione liturgica della comunità; nonché per un concreto impegno socio-culturale di integrazione nelle strutture della società civile.

    Il «pastorale»

    Il problema pastorale del rapporto comunità cristiana e handicap è la dimensione fondamentale che collega le singole parti della riflessione; sia come presa di coscienza generale, che come spunti di collegamenti nelle singole parti.
    Il dossier ha inteso:
    – affrontare, prima di tutto, il problema «umano» degli handicapapti, un mondo difficile da non ignorare, anzi da puntualizzare ed accogliere in maniera impellente, perché è quello oggi più urgente dal punto di vista della povertà come segno della carità cristiana; gli handicappati non sono né da commiserare, né da considerare con rimorsi di coscienza... alla luce del vangelo della carità.
    Sono persone da favorire perché più svantaggiate;
    – offrire una proposta di integrazione, dando suggerimenti e indicazioni operative che possono aiutare la comunità (gli adulti responsabili) a farsi carico del problema, valorizzando tutte le risorse e le occasioni per sensibilizzare, aiutare, promuovere il mondo dell’handicap all’interno della comunità e nel rapporto con le loro famiglie;
    – promuovere una sensibilzzazione generalizzata verso il mondo dell’handicap che si faccia più carico dei loro problemi umani, sociali, culturali, sanitari... richiamando di volta in volta chi ne deve essere responsabile in ordine alla salvaguardia dei loro diritti.

    Il «catechistico»

    La proposta di fede comunicata con la catechesi deve costituire una dimensione importante del problema pastorale dell’handicap.
    Ma questo vale anche per ogni pastorale.
    In questa direzione il dossier ha aiutato a riflettere sul fatto che:
    – gli handicappati, come tutti i battezzatti, ciascuno secondo le specificihe possibilità, hanno diritto alla Parola di Dio e non ne nebbono essere assolutamente privati, tranquillizzandosi la coscienza con speciose giustificazioni. In tale contesto il rapporto pastorale-catechesi mette in evidenza che la catechesi è una dimensione vitale della pastorale. Senza questa centralità la pastorale stessa potrà ridursi a falsa pietà o semplici gesti di filantropia;
    – lo specifico dell’integrazione degli handicappati nella comunità cristiana comporta anche per essi un «cammino d’iniziazione cristiana», che costituisce oggi la scelta prioritaria della Chiesa per tutti i battezzati. In questa prospettiva sono stati presentate le riflessioni sui sacramenti della iniziazione con una ipotesi di preparazione catechistica e liturgica.

    Il «sociale»

    Anche il sociale ha uno stretto rapporto con la pastorale, perché la vita di fede del credente non è divisibile ma unitaria ed impegnata a realizzarsi nella storia.
    L’istanza sociale è presente nel dossier:
    – costituisce uno stimolo nuovo per i credenti a farsi voce degli handicappati nelle strutture della società civile, per assicurare il rispetto e la soddisfazione dei loro diritti fondamentali;
    – offre riferimenti perché nella nostra società siano assicurati a tutti gli handicappati i servizi sociali fondamentali, la possibilità di inserimento nel mondo del lavoro, la soluzione ai loro problemi sanitari, l’aiuto alle loro famiglie, l’integrazione scolastica, l’abbattimento di barriere archiettoniche... ecc.
    Risulta evidente che i tre aspetti sono trattati nei limti di uno spazio sintetico, dato l’ambito di queste pagine riservate al dossier.
    Si suppone che gli animatori pastorali se ne assumano un ulteriore un compito: quello di tener sempre presente il problema dell’integrazione comunitaria degli handicappati, per il semplice motivo che la riflessione aiuta a migliorare la prassi della vita comunitaria e la prassi viene sempre più illuminata dalla riflessione che è simultaneamente orientata al «pastorale», al «catechistico», al «liturgico» e al «sociale».


    NOTE

    [1] A’ toi de voir! Le cri d’un exclu, Les Éditions di Signe, Strasbourg.
    [2] Cicconi L., Anziani e handicappati. Due sfide alla società e alla comunità cristiana, Leumann (TO), Elledici, 1987, p. 137.
    [3] Conferenza Episcopale dell’Emilia-Romagna, L’accoglienza degli handicappati, Leumann (TO), Elledici, 1981.
    [4] Morante G., I catechisti parrocchiali in Italia nei primi anni ‘90, Leumann (TO), Elledici, 1996.
    [5] «Dare a ciascuno una voce» (8/12/1980), dal discorso in vista dell’anno internazionale dell’handicappato.


    NOTA BIBLIOGRAFICA

    – Bissonnier Henri, Pedagogia catechistica dei bambini subnormali, Leumann (To), Elledici, 1966.
    – Bissonnier Henri, Ragazzi difficili a scuola di catechismo, Leumann (To), Elledici, 1967.
    – Bissonnier Henry, Educazione religiosa e turbe della personalità, Leumann (To), Elledici, 1970.
    – Rouqués Denise, Catechesi e iniziazione cristiana degli insufficienti mentali, Leumann (To), Elledici, 1971.
    – Di Gianleonardo Maria, L’educazione religiosa degli handicappati. Nelle opere di H. Bissonnier, Brescia, La Scuola Editrice, 1980.
    – La Nostra Famiglia (a cura di), Spunti per la catechesi degli handicappati, stampato in proprio, 1981.
    – Rondini Renato, Handicap e comunità cristiana. Un’esperienza: spunti di pastorale per gli handicappati psichici gravi, Leumann (To), Elledici, 1986.
    – Chiaromonte Carmen (e altri), E la vita esploderà. Itinerari didattico-educativi per l’insegnamento della religione cattolica nella scuola dell’obbligo anche con alunni portatori di handicap, Leumann (To), Elledici, 1988.
    – C.E.I.-Ufficio Catechistico Nazionale, La catechesi nella pastorale del non udente, Roma, Convegno Nazionale, 1980.
    – Opera Don Guanella-Bice (a cura di), Integrità dell’educazione e diritto allo spirituale.
    Persone handicappate mentali. Quale catechesi?, Roma, Editrice Nuove Frontiere, 1991.
    – Ruga Giuliano, Lasciateli venire a me. Serie di appunti con informazioni pedagogiche per una catechesi adatta a ragazzi con difficoltà mentale o di comportamento. 1. Perché e come catechizzarli? 2. Noi siamo fatti così, Salerno, Edizioni Dottrinari, 1992.
    – Ufficio Catechistico Nazionale, La catechesi dei disabili nella comunità, Bologna, EDB, 1993.
    – Daucourt Gérard, Non posso dire: «Gesù», ma lo amo. La vita spirituale in una comunità dell’arca, Bologna, EDB, 1996.
    – Ufficio Catechistico Nazionale, Non voglio risorgere senza di te. Linee di educazione alla vita cristiana dei disabili, Bologna, EDB, 1996.
    – Vanier Jean, Ogni uomo è una storia sacra, Bologna, EDB, 1996.
    – Vanier Jean, La storia dell’Arca. Comunità da scoprire, Bologna, EDB, 1997.


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