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    Elisabetta



    Gioia Quattrini

    (NPG 1999-04-61)


    Elisabetta accompagnò Maria sulla strada, la salutò e la seguì con lo sguardo finché non divenne un minuscolo punto all’orizzonte, le mani aperte sul ventre ancora gonfio. Vide sua cugina così lontana come lontana le appariva la vita condotta fino a pochi mesi prima. Mesi che sembravano secoli.
    Era la sua un’esistenza tranquilla, accanto a un uomo buono e devoto, trascorsa nel rispetto più attento per le leggi del Signore. Fino al giorno in cui Zaccaria, suo marito, era tornato dal tempio stravolto. La sua voce era diventata suono strozzato, gli occhi sembravano uscire dalle orbite, la bocca muta si apriva e chiudeva scomposta, i gesti erano quelli di un folle. Con molta fatica era riuscita a calmarlo e lo aveva invitato a scrivere su una tavoletta ciò che era accaduto. Era stato un angelo a renderlo muto. Elisabetta trasecolò. Un angelo del Signore gli era apparso nel tempio e gli aveva annunciato la nascita di un figlio che avrebbe avuto nome Giovanni, grande davanti a Dio, pieno di Spirito Santo sin dal seno di sua madre, che avrebbe camminato innanzi al Signore con la forza e lo spirito di Elia, per preparargli un popolo ben disposto. Zaccaria aveva avuto un moto d’incredulità e per questo l’angelo lo aveva reso muto fino al giorno dell’adempimento.
    Suo marito aveva insistito con l’angelo sulla loro tarda età, ma per Elisabetta un’età giovane o avanzata non faceva differenza: lei era sterile.
    All’inizio, quando i primi anni del suo matrimonio erano scivolati via senza che un vagito riempisse la sua casa, aveva sofferto una profonda vergogna. La gente guardava a lei come a un meccanismo inceppato nello straordinario disegno di Dio che aveva benedetto la prima coppia umana proprio perché fosse feconda. Ci si domandava in cosa avesse mancato per aver meritato la condanna a un destino di donna inutile e superflua, incapace di continuare la generazione di Zaccaria, femminilità mutilata e senza onore, progetto abbandonato, imperfetto.
    Le vecchie del villaggio si erano subito date da fare intorno a lei, proponendole unguenti miracolosi, cibi particolari da consumarsi con la luna piena, sacrifici propiziatori e riti dalle formule astruse. E lei, con garbata fermezza, sempre a rifiutare.
    Non capiva. Non capiva perché lei avrebbe dovuto forzare la mano, se questi erano i dettami della sua natura Non capiva questo modo ansioso e ossessivo di vivere il desiderio di maternità. Elisabetta avrebbe voluto un figlio. Al solo pensiero di stringerlo tra le braccia il cuore si squagliava nel suo petto. Pensava agli occhi di Zaccaria brillare come stelle e le sue labbra tremare di orgoglio. Ma era convinta che se questo non fosse accaduto, prima di perdere il sonno e il respiro dietro un’insoddisfazione invadente e malefica, avrebbe dovuto scrutare nelle pieghe della vita di ogni giorno e di certo avrebbe trovato manine tese per essere aiutate, bocche spalancate da sfamare, piccole sbucciature da curare senza far troppo male. Era forse assolutamente necessario che il proprio ventre si sciogliesse per sentirsi madri?
    Il Signore, generoso a regalare talenti a ogni creatura, in cuor suo, diveniva lo scrigno di una vocazione preziosa, non sempre scontata.
    Anzi, con il passar del tempo, Elisabetta aveva acquistato una nuova sensazione di sé: il lungo trascorrere della sua sterilità non le appariva vuoto e insensato ma piuttosto un tempo di attesa e di pazienza. Il Signore non avrebbe tardato perché nella sua fertile mente una cosa poteva accadere e poteva non accadere, ma era escluso che la possibilità fosse affidata al caso.
    Così mentre Zaccaria si affannava, Elisabetta capiva che il momento era arrivato anche se tutto restava ancora confuso e indefinito. L’Altissimo aveva infranto per lei le leggi che egli stesso aveva dato all’Universo e alle creature che lo abitano e questo era senza dubbio un segnale molto forte, da decifrare. Nei mesi successivi aveva spiato il gonfiarsi del suo ventre e con quel bimbo, che di certo veniva dal cielo, intrecciava lunghi dialoghi muti, in realtà solo domande, nella sciocca attesa che quella creatura in qualche modo riuscisse a insinuare nei suoi pensieri di madre trepida le risposte a quegli interrogativi. Ecco che anche lei, parte nel disegno divino in apparenza priva dell’incastro, cominciava a trovare la propria collocazione e con lei il bambino. Di certo soltanto il tempo avrebbe chiarito ogni cosa e lei aveva imparato ad attendere. Spesso la sua mente restava imprigionata dalle ragnatele di certi ragionamenti: come poteva gioire? Non era quella l’età per essere madre. I figli hanno bisogno della forza e della resistenza di una giovane donna. I bimbi succhiano energie e corrono qua e là, mai fermi, sempre abili a mettersi in mille pericoli per curiosare nel mondo.
    Giocano e chiacchierano senza bisogno di grande riposo e l’ora di andare a dormire non arriva mai. Basta voltarsi un attimo e loro riescono a far diventare pericolosi anche i giochi più innocenti. Non conoscono la paura e non colgono il pericolo. Soprattutto nei primi anni, la vita è per loro una divertentissima caccia al tesoro. Quando cadono malati e la febbre li fa tremare e i brividi scuotono le piccole membra, essi hanno bisogno di veglie continue che metterebbero a dura prova le forze e il sonno di madri anche più giovani. E poi le ansie e le preoccupazioni di vederli crescere in un mondo dove le tentazioni si annidano ovunque, pronte a balzare fuori al primo momento di debolezza. Elisabetta, ad esser sinceri, si sentiva oramai nell’età in cui, se è bello giocare un pomeriggio con un nipotino vivace e allegro, di certo è meraviglioso, giunta l’ora, restituirlo ai genitori.
    Qualche volta sorrideva di se stessa, della curiosità che animava quanti la circondavano e delle sue preoccupazioni così pratiche e concrete in una situazione che di concreto aveva ben poco. Sospirando pensava che nel progetto che il Signore a poco poco rivelava di avere per lei di certo sarebbero state comprese anche le soluzioni dei suoi dubbi e così trovava consolazione.
    Un mattino – erano trascorsi sei mesi  era giunta senza preavviso nella sua casa una giovane cugina di Nazareth, Maria, per farle visita. Era stato un attimo. Alla voce di Maria che la salutava, di colpo ciò che fino ad allora era stato confusione, incertezza, nebbia era finalmente divenuto geometria di forme. Elisabetta vide e capì. Chiuse gli occhi davanti a una girandola di immagini dove due giovani uomini si bagnavano in un fiume, una giovane donna danzava, una testa cadeva, una croce svettava piantata sulla cima di un colle. In un attimo il bimbo si era sciolto nel suo seno e la matassa delle attese nutrite per anni si era sciolta nella sua mente. Senza che la sua giovane cugina le raccontasse nulla, Elisabetta seppe dell’angelo e dell’annuncio e le parole sgorgarono dalla sua gola come a lungo riposte e ora finalmente pronte a salutare la madre del Signore.
    Un angelo per Maria. Un angelo per Zaccaria. Erano il segno che per comprendere la vita non basta la ragione. E’ necessario che anche Dio intervenga a istruirci. Ed Elisabetta capì. Esse non erano altro che gli strumenti di un incontro che non era il loro.
    Un incontro che come un bocciolo meraviglioso sarebbe sbocciato nella giusta stagione, pieno di profumo. Un incontro che per ora restava solo un accenno, una sfumatura, un progetto. Giovanni riconosceva il Cristo sin dal grembo di sua madre. Elisabetta riconosceva la madre del Signore, riconosceva suo figlio, il Profeta e il cuore le disse che quella creatura accolta come un privilegio nel suo ventre, lei l’avrebbe vista morire.
    Erano state insieme tre mesi, scivolati via veloci, avevano parlato a lungo e a lungo taciuto, riflettuto e tremato insieme. Allo scadere del tempo, Elisabetta aveva partorito il bimbo tanto atteso e Zaccaria aveva ritrovato la voce per dire che avrebbe dovuto chiamarsi Giovanni. Giovanni gridava nella culla a pieni polmoni e Maria, che non aveva mai abbandonato sua cugina, per calmarlo lo abbracciava poggiandolo sul suo ventre, che andava arrotondandosi.
    Esse soltanto sapevano o meglio sentivano che le attendeva dolore, tanto dolore, perché dal sangue innocente potesse nascere la nuova umanità. Lo accettavano con il cuore aperto ed erano sicure di aver detto sì. Ma dirsi felici forse era troppo. Per loro, seppur pronte e devote, restava difficile l’idea di crescere due bimbi che non sarebbero divenuti uomini sotto i loro occhi, così semplicemente, dei quali non avrebbero mai abbracciato le mogli, cullato i figli e dalle cui forti braccia non sarebbero state sepolte. Per loro, soltanto due madri, restava difficile pensare che avrebbero invece partorito l’una il Figlio dell’altissimo e l’altra il suo Profeta.
    Il pianto di Giovanni allontanò Elisabetta dai propri pensieri. Maria era ormai un piccolo punto all’orizzonte. La tentazione di prendere quel tenero fardello di carne e di fuggire lontano, dove neanche la volontà del Signore avrebbe mai potuto raggiungerli, la assaliva a tratti, con un po’ di vergogna.
    Perché si pensa sempre che la salvezza sia nella fuga? Forse perché i nostri occhi, poveri strumenti di poveri uomini, cedono alle dolci lusinghe dell’apparenza e non vedono oltre il miraggio. Forse perché soltanto il dolore e le lacrime sciolgono il velo e l’occhio diventa veggente, diviene occhio che vede. Si riempie del futuro e del mondo.La brezza soffiava più fresca. Elisabetta si volse al bimbo che oramai dormiva sereno per portarlo nel caldo della casa. Zaccaria le veniva incontro premuroso. Due vecchi stanchi e un bimbo con una missione assurda.
    Possibile che Dio affidasse la perfetta sincronia del suo disegno a strumenti tanto precari?


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