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    Paola Piva

    (NPG 1998-07-66)


    Mi interessa affrontare due questioni in particolare: il lavoro dell’animatore e la presenza nel territorio.

    Il lavoro dell’animatore

    Uno degli argomenti «caldi» del seminario riguarda, a proposito dell’animatore, l’interrogativo se convenga considerarlo una professione a tutti gli effetti, che va riconosciuta e retribuita, o piuttosto una scelta, una vocazione, un impegno volontario.

    Professione o vocazione?

    Dal mio punto di vista non è necessario scegliere l’una o l’altra strada come se fossero alternative e divergenti. Stiamo entrando in un’epoca in cui il confine tra lavoro e attività diventa sempre più sfumato, non solo per l’animatore ma in molti altri campi. Veniamo da un’epoca, ancora vicina a noi e che ha influenzato la nostra mentalità, in cui le due cose erano nettamente distinte: da una parte il lavoro, concetto a cui eravamo soliti associare una retribuzione, un orario regolare, un posto stabile, qualcosa di solido e di vincolato, in cui identificarsi per un tempo lungo della propria vita, un’area soprattutto di professionalità. Sull’altro fronte si collocavano le libere attività, gratuite, scelte e perciò svincolate, che potevano essere svolte in forma saltuaria, qualcosa più vicino al tempo libero, agli spazi interstiziali della vita seria. La figura del professionista e quella del volontario sembravano, e forse erano, salvo casi eccezionali, molto distanti. Le attività non lavorative, quelle fatte per passione e dedizione volontaria, erano anche associate a un modo di fare amatoriale.
    Non è più così. È finito quello scenario. Non solo perchè oggi, nell’area del lavoro volontario, possiamo elencare molte attività che vengono svolte su un piano di altissima professionalità e al tempo stesso a titolo gratuito (pensiamo ai medici senza frontiere), ma soprattutto per un motivo generale che riguarda l’area del lavoro tradizionale. È qui che registriamo il cambiamento più straordinario che ha fatto saltare i confini tra lavoro e attività. Ciò è dovuto al modo in cui si entra nel lavoro; difficle trovare subito un posto, un impiego, un ruolo professionale. Molto più frequente è un ingresso progressivo, mediante la somma di esperienze per metà professionali e per metà volontarie. I giovani auto-propositivi (per fortuna sono molti) possono confermarlo; se chiediamo loro cosa stanno facendo, raccontano esperienze: alcune retribuite altre no, alcune stanno dentro un progetto di professionalità anche se gratuite, altre sono un diversivo rispetto al loro progetto e magari sono proprio quelle con cui si mantengono. Il percorso di ingresso al lavoro non è lineare e non lo diventa neanche dopo. La professionalità, la carriera è aperta: per dirla in breve «da cosa nasce cosa», le attività danno luogo a occasioni di lavoro, quando il lavoro piace diventa una libera attività in cui la persona investe anche al di fuori di un orario e un dovere riconosciuto dall’esterno.
    La professionalità è dunque un concetto che non dobbiamo più legare al «lavoro», bensì alla «responsabilità». È questo il nuovo asse da presidiare. Ciò di cui ci si deve preoccupare è che l’animatore (volontario o meno) sia responsabile. Verso chi? Rispondo guardando in quattro direzioni.
    Primo: responsabile verso se stesso: disponibilità all’apprendimento, verifica del proprio operato, crescita personale. L’animatore non deve sprecare l’esperienza che sta facendo, anche se è breve quanto i 10 mesi di un servizio civile.
    Secondo: responsabile verso il soggetto a cui offre il servizio (bambino, giovane, anziano, ecc.); la sua animazione deve essere di qualità, utile, pertinente ai bisogni e ai desideri dell’altro.
    Terzo: responsabile verso un metodo, che va scelto consapevolmente, appreso e verificato in situazione.
    E qui viene in gioco la quarta dimensione: la responsabilità verso l’organizzazione in cui opero. Non credo che ci siano degli animatori che vanno in giro ad animare senza avere alle spalle un contesto, un gruppo, un luogo organizzato. È l’organizzazione di solito che sceglie il metodo e lo trasmette, che ha stratificato un sapere, una tradizione, un patrimonio teorico e pratico da rinnovare continuamente ma da cui non si può prescindere. Retribuito o meno, l’animatore sta dentro un’organizzazione verso cui diventa responsabile, a patto però che anche l’organizzazione si faccia responsabile nei suoi confronti.
    Oggi che i confini tra lavoro e attività si sono allentati è ancora più importante di un tempo ricordare alle organizzazioni la loro responsabilità nei confronti di coloro che transitano. Un tempo la responsabilità era molto alta verso i dipendenti, quelli che restavano a lungo; l’anzianità aziendale veniva premiata con alcuni dispositivi protettivi, che sarebbe pur interessante esaminare. Verso le figure di passaggio la responsabilità dell’organizzazione era minima. Ma in un’epoca in cui queste diventano maggioritarie e investono impegno tanto quanto le altre, bisogna creare una nuova cultura della responsabilità. Personalmente mi indigna vedere riservato al giovane in servizio un trattamento distratto e scadente solo perché è gratuito e di passaggio. Dieci mesi della sua vita non sono poca cosa; lui può buttarli via o metterli nel suo curriculum professionale, può cancellarli appena conclude il periodo di leva o trasformali in lavoro futuro; l’esito dipende da tante cose, ma sicuramente anche dalle persone che l’hanno preso in carico nella loro organizzazione e hanno guidato il suo lavoro.
    La stessa cosa potrei dire di tanti altri sprechi di «competenze» che vedo di frequente: disoccupati addetti ai lavori socialmente utili, laureati tirocinanti, collaboratori saltuari e tante altre persone che transitano in certe organizzazioni irresponsabili, incapaci di far crescere.

    La stima sociale

    Ho sentito anche un accenno al problema della stima sociale. L’educatore, è vero, è un lavoro poco conosciuto e per questo anche poco valorizzato. Qualcuno ha detto: certe mamme sono capaci di affidare il figlio ad un animatore qualunque, mentre si preoccupano di scegliere con cura il suo dentista. È vero. Ma è un problema vissuto da tutte le professioni sociali. Veniamo da una cultura che conosceva poche professioni: grosso modo il maestro, il medico e il farmacista. E a queste, insieme al parroco, la gente era incline ad attribuire il massimo rispetto. Poi il lavoro educativo, terapeutico e sociale si è sviluppato in molti modi dando vita ad un vasto arco di metodologie e di professionisti. Questa ricchezza non è ancora riconosciuta nel sentire comune e permane una forte disparità tra il valore – anzi il supervalore – attribuito alle professioni sanitarie, rispetto alle professioni sociali, che sono tutte mediamente sottostimate.
    C’è di mezzo, credo, un pregiudizio inconsapevole nei confronti del «prendersi cura», della funzione materna, che accompagna la crescita, appoggia, segue l’evoluzione, sostiene l’altro, funzione che nella cultura profonda di noi tutti (in senso antropologico) è dovuta gratuitamente ed è accessoria all’intervento ben più autorevole di chi manipola il corpo, fornisce delle norme, impone una dottrina. Fino a quando la nostra cultura non saprà dare valore e autorevolezza anche alle funzioni materne («prendersi cura») e dedicherà tutta la stima solo alle funzioni paterne («curare») ci sarà sempre una strisciante e implicita sottovalutazione degli educatori, come pure degli assistenti sociali, degli assistenti domiciliare, degli animatori, degli assistenti all’infanzia e così via.
    Per inciso, noto come anche negli interventi durante questo seminario sono state utilizzate immagini maschili ed immgini femminili per parlare dell’animatore, ciascuno attingendo al proprio codice di genere. Nanni ha richiamato la metafora «ufficiale e gentiluomo» per significare il professionista che è anche un uomo completo; Cossetto ha parlato invece di fragilità e ha scelto la metafora «cera e impronta», per indicare un animatore che accoglie la conformazione dell’altro e la tiene dentro di sé. Come si vede, abbiamo bisogno di un linguaggio simbolico articolato, che utilizzi senza preclusioni sia il codice maschile che quello femminile. Se dovesse prevalere uno solo, si perderebbe la grande ricchezza di questo lavoro. Se le due culture devono convivere nella stessa professione, altrettanto si può dire delle diverse professioni che devono integrarsi nel lavoro sociale. Oggi c’è una disparità di poteri e riconoscimenti che nuoce alla integrazione dei servizi e impedisce un dialogo autentico tra professionisti.

    Una battaglia culturale

    Questo problema va affrontato tutti insieme, mediante una battaglia culturale che mobiliti le diverse professioni sociali; fino ad oggi la tendenza è stata quella di difendere la dignità della professione ognuno per sé, creando ove possibile palizzate e confini divisori. A mio parere, il percorso verticale che ha portato a creare ordini ed albi professionali in guerra tra loro, ordinamenti didattici incomunicanti, difese concorrenziali nella definizione delle piante organiche dei servizi, ha fatto il suo tempo e ora va sostituito con un percorso del tutto diverso. Si tratta in primo luogo di individuare quali sono le competenze comuni che devono essere coltivate da tutte le professioni sociali, quasi un DNA distintivo, un codice, una matrice di forte impatto sul senso comune e quindi riconoscibile al grande pubblico. Quindi è necessario sviluppare un sistema di formazione delle qualifiche di base, delle specializzazioni e degli aggiornamenti che spezzi le rigidità a canne d’organo del sistema attuale e vada nel senso delle unità didattiche flessibili e sommabili, per facilitare i percorsi trasversali. Se è vero che la professionalità non è un titolo di studio, bensì una qualità che aderisce alla persona, serve un sistema di formazione continua al servizio dell’animatore-educatore che evolve con l’esperienza, accumula crediti formativi, entra ed esce dalla formazione portandosi appresso tutto il bagaglio di ciò che ha imparato ed è diventato nel suo percorso di vita.
    A questo proposito ci tengo ad informare che il Ministro per la Solidarità sociale sta elaborando un piano di sviluppo delle professioni sociali, che assume proprio quest’ottica generale e si propone di aprire una campagna culturale di valorizzazione delle professioni sociali, per evitare inutili concorrenze e creare qualcosa di nuovo. Si pensa a un forum delle professioni da tenere nel febbraio 1999, che dovrà avere un grande impatto sul pubblico. A questo appuntamento siamo tutti invitati fin d’ora, per costruire un punto di vista organico sul lavoro nel sociale.

    La rete nel territorio

    La metafora della rete è potente, ha conquistato l’immaginario degli operatori, non si parla d’altro. Ma è difficile da realizzare. Uno degli ostacoli l’ho già citato a proposito della disparità di poteri tra professioni sociali. Un altro ostacolo, dobbiamo dirlo, è nella diffidenza reciproca coltivata dalle diverse agenzie educative. Proviamo a nominarle: il parroco tiene in palmo di mano i «ragazzi del parroco» e tiene negli scantinati gli scout; gli scout amano la natura ma non fraternizzano con quelli del Wwf; l’Arci e Gioventù aclista si incontrano nei convegni sul terzo settore ma non fanno un’iniziativa insieme neanche a pagarli; i centri sociali sono un mondo a sé stante; il Coni collabora a fatica con la scuola; i club turistici sono da tutti guardati con sufficienza perché fanno animazione ai giovani ricchi. E gli operatori pastorali e animatori? Con quali agenzie formative del territorio collaborano più facilmente? È bello immaginare un tavolo di concertazione in cui tutti concordi programmano, sviluppano e magari valutano insieme il lavoro, ma questo è un traguardo futuro, non una realtà presente. La scena si offre divisa, cominciando dalle associazioni e dalle iniziative in campo cattolico. Per arrivare ad una progettazione congiunta è necessario che ciascuno conosca i metodi degli altri, non per sentito dire, non filtrato dai pregiudizi che si formano nella distanza, bensì mediante una pratica ravvicinata, scambi tra animatori, formazione congiunta. Su questa base si crea quella fiducia reciproca che consente di leggere la parzialità e le potenzialità di ciascuno e quindi di procedere ad una divisione del lavoro che metta in valore l’essere tanti e diversi.
    Altrimenti perché mettersi in rete? Oggi i tavoli di concertazione servono ancora quasi esclusivamente a «dividere la torta» dei contributi pubblici. Il salto di qualità può venire solo nel momento in cui tutti gli attori in gioco sentono realmente l’esigenza di dividere il lavoro e la responsabilità nei confronti del territorio e dunque di integrare le diverse «specializzazioni», riconoscendo la parzialità del proprio intervento.
    Il fattore di successo è dunque la stima comune dentro la comunità ecclesiale prima, e poi nella società civile. Sul modo di produrre e gestire una rete integrata ci sarebbe molto altro da dire, ma questo è un altro problema.


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