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    Una prospettiva culturale-istituzionale



    Milena Cossetto

    (NPG 1998-07-70)


    Un osservatorio privilegiato

    Non so quanto sia determinante nella riflessione sul rapporto tra istituzioni formative, nuove generazioni e il ruolo dell’animazione culturale il punto di vista che muove dal crinale delle montagne, da una terra come l’Alto Adige-Südtirol, che è stata nel corso dei secoli luogo di passaggio, di incontro, di confronto, luogo di conflitti e di sedimentazioni per inimicizie ereditarie tra popoli e culture, «ponte» per affascinanti progetti di futuro interculturale. Certamente però offre una prospettiva singolare, o meglio, propone diverse direttrici a cui affidare lo sguardo.
    La società complessa esige una pluralità di punti di vista, un approccio capace di intrecciare e riannodare diversi livelli di lettura e interpretazione dei fenomeni socio-culturali. In questo senso guardare al mondo plurilinguistico e multiculturale di questo ultimo scorcio di secolo, in cui nessun approccio culturale ai problemi sembra essere esaustivo e capace di comprendere ogni cosa o fenomeno, il punto di vista che parte dal crinale delle montagne e che con i secoli, anche per pura esigenza di sopravvivenza, ha dovuto estendere l’angolo di visuale a 360 gradi, può valere come metafora dello spaesamento che tutti viviamo e, forse, può essere l’avvio di un approccio nuovo alla complessità. La terra tra le valli dell’Inn e dell’Adige, che nel corso dei secoli è stata chiamata Tirolo, k.u.k. Land Tirol, Trentino-Alto Adige, Südtirol, Provincia di Bolzano, racchiude nel suo paesaggio umano e naturale, come in uno scrigno, la storia non ancora narrata delle forme dell’incontro tra popoli, lingue, culture diverse: quella italiana, quella tedesca e la più antica lingua ladina.
    È una storia ancora incompleta, proprio perché le molteplici forme dell’incontro che hanno prodotto nel corso dei secoli le stratificazioni sociali, culturali, storiche, hanno assunto spesso la forma del pregiudizio nazionalistico, ma anche la straordinaria scoperta della ricchezza (umana, spirituale e materiale) che deriva dalle diversità. E sono proprio le tracce di questo lungo percorso di avvicinamento-incontro-scontro-confronto-intreccio e di reciproca fecondazione che ci permettono una lettura in chiave metaforica del «piccolo mondo tra le montagne».
    Nelle più antiche tradizioni ladine, che si innestano su una cultura precristiana probabilmente di origine retica, si narra del popolo dei Fanes, abitanti dei monti pallidi, delle Dolomiti. Come marmotte vivevano tra le montagne; era un popolo pacifico, che viveva in simbiosi con la natura, operoso e mite. Si raccontava, infatti, che i suoi abitanti fossero stati, molto tempo prima, essi stessi marmotte, e il «sapere della natura e della vita» aveva permesso ai Fanes di stringere una allenza solidale con montagne, animali, acqua, terra e cielo. Il regno dei Fanes fu potente e rispettato; quelle terre furono luogo di pace duratura e di benessere, fino a quando un loro re tradì l’antico patto con le marmotte e si dedicò alla guerra, per brama di ricchezza e di tesori. Così si alternarono guerre, invasioni, sopraffazioni… ed il pacifico popolo dei Fanes fu costretto alla lotta perenne; persino Dolasilla, la figlia del re, divenne un’indomita guerriera. Dolasilla sembrava invincibile, ma ancora una volta il tradimento del re, suo padre, fu fatale: per denaro consegnò ai nemici invasori il regno con tutti i suoi abitanti. Il popolo dei Fanes ritrovò l’antico sapere delle marmotte e si rifugiò nelle viscere della terra, nei crepacci delle montagne. Il mondo dei Fanes svanì per sempre, trasformando quel paesaggio incantato in un deserto di rocce e ghiaioni.[1] Sotto il «Gran Sas dla Porta» si narra che vi sia una porta segreta che conduce nelle montagne, dove sopravvive il «perduto Regno dei Fanes». La porta si apre una volta all’anno, in una notte di luna, e una barca comincia il suo giro sul lago di Braies, ai piedi della montagna: nella barca Dolasilla osserva il mondo e cerca i segni del «tempo promesso», il tempo della pace e della redenzione, quando le spade si volgeranno in vomeri e ritornerà a vivere il Regno dei Fanes. Quel tempo, però, non è ancora giunto.
    Ed il «tempo promesso» è atteso anche dai nani del Rosengarten (Il giardino delle rose di Re Laurino trasformato in montagna e che in italiano si chiama «Catinaccio»), dalle rocce che al crepuscolo prendono i toni e i colori dell’antico, meraviglioso, roseto.
    La metafora del «tempo promesso», del tempo in cui regneranno la pace e il benessere per tutti, il tempo in cui i piccoli e miti abitanti delle montagne, nascosti per millenni nel «sottosuolo», potranno uscire alla luce del sole, può diventare – nel mondo della globalizzazione che si affaccia al 2000 – un sentiero di comune speranza.

    PAROLE PER VENDERE, PAROLE PER COMPRARE, PAROLE PER PARLARE

    Abbiamo parole per vendere / Parole per comprare / Parole per fare parole / Andiamo a cercare insieme / Le parole per pensare… / Andiamo a cercare insieme / Le parole per amare… / Andiamo a cercare insieme / Le parole per parlare.
    (Gianni Rodari)

    Alle soglie del terzo millennio la tentazione di abbozzare un bilancio negativo sulla condizione delle istituzioni educativo-formative del mondo occidentale è grande: ma proprio perché molti interrogativi si affacciano al mondo degli adulti, e in particolar modo al mondo degli adulti educatori, è necessario compiere uno sforzo di «fantasia creativa» per riaccendere nelle nuove generazioni la passione per il sapere, per l’avventura della conoscenza, per il desiderio di scoprire, di porre domande e cercare risposte capaci di aggregare e di diventare comune progetto, insomma per riannodare i fili della comunicazione intergenerazionale.
    La crisi dell’efficacia formativa delle istituzioni culturali ed educative nell’Europa occidentale (per non riflettere sugli esiti dei processi formativi negli Stati Uniti) è un dato di cui bisogna cogliere alcuni aspetti di complessità: dal punto di vista istituzionale si tratta da un lato di trovare risposte alla necessità di tenere presente un orizzonte multiculturale nel minuzioso lavoro di riflessione epistemologica sui saperi e sulle discipline; dall’altro la necessità di ripensare in modo più ampio alla formazione iniziale e in servizio degli insegnanti. La Conferenza Internazionale sull’Istruzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura aveva indicato alcune priorità rispetto alle scelte formative internazionali e le aveva formulate (dal 1966 ad oggi) nella forma delle «Raccomandazioni». In particolare nell’autunno del ‘96, la Conferenza Internazionale sull’Istruzione aveva puntato l’accento proprio sulla formazione dei docenti e delle figure educative, individuando alcune priorità:
    1. Reclutamento di nuovi insegnanti: attirare all’insegnamento i giovani più competenti.
    2. Formazione iniziale: un miglior collegamento tra la formazione iniziale e le esigenze di un’attività professionale innovativa.
    3. Formazione continua: un diritto-dovere per tutto il personale educativo.
    4. Il coinvolgimento degli insegnanti e di altri agenti nel processo di trasformazione della pubblica istruzione: autonomia e responsabilità.
    5. Gli insegnanti e le altre figure impegnate nel processo educativo: l’istruzione vista come una responsabilità collettiva.
    6. Nuove tecnologie nel campo informatico e delle comunicazioni: come utilizzarle per migliorare la qualità dell’istruzione per tutti.
    7. La professionalizzazione come strategia per migliorare la condizione generale degli insegnanti e le loro condizioni lavorative.
    8. Solidarietà nei confronti degli insegnanti che operano in situazioni difficili.
    9. Cooperazione regionale ed internazionale: uno strumento per promuovere la mobilità e la competenza degli insegnanti.
    Dal punto di vista esterno, invece, si tratta di «connettere i fili della rete educativa nel territorio».
    Non può la scuola, da sola, rispondere a tutti i bisogni educativo-formativi, di sapere e saper fare, di saper essere in contesti sociali sempre più ampi, complessi, in continuo movimento. Se è vero che la scuola ha perso il ruolo egemone nella formazione sociale, culturale ed esistenziale dei giovani, è altrettanto vero che è ancora l’unica «parvenza di luogo» in cui si realizzano le potenziali condizioni per l’apprendimento in età giovanile: la possibilità di «imparare a fare gruppo», di «gestire il gruppo», di «costruire relazioni intergenerazionali basate su compiti», «sperimentare l’apprendimento come ricerca di percorsi culturali» nei quali intrecciare i propri orizzonti esistenziali con quelli dei coetanei e degli adulti, nel percorso di costruzione dell’ «io» e del «noi.
    Dal punto di vista della progettualità educativo-formativa la scuola e gli insegnanti hanno opportunità e potenzialità straordinarie, maturate in anni di lavoro, di concreta esperienza, nei luoghi più diversi dei 5 continenti, dove il volontariato e la pedagogia popolare (da Freinet, a don Milani, a Freire) hanno costruito sentieri e strade pedagogiche per «cercare insieme le parole per parlare».
    È da questo stretto intreccio tra istituzione scolastica e territorio, tra risorse educativo-formative istituzionali (i maestri, gli insegnanti) e le attività, ad esempio, degli educatori «di strada» che si possono trovare i fili da annodare (patti, convenzioni, co-responsabilizzazioni, co-progettualità) per costruire insieme (scuola, famiglia, territorio) la trama della rete che sostiene, promuove, accoglie e accompagna i giovani e le giovani nel cammino verso l’autonomia personale, la loro realizzazione umana, sociale, spirituale e culturale e le loro scelte di responsabilità sociale.
    È quindi prioritario imparare a lavorare insieme tra «adulti»: insegnanti, educatori, genitori, responsabili delle politiche culturali del territorio per costruire insieme nuovi reticoli di significati condivisi, nei quali poter sperimentare con le nuove generazioni percorsi educativo-formativi, di relazioni interpersonali e sociali, rispettosi della storia-esperienza-vita di ogni persona. Ci si deve muovere, però, da una comune domanda di fondo: come ricostruire i reticoli di comunicazione tra generazioni diverse, tra esperienze e luoghi diversi, tra esperienze di relazioni diverse, tra lingue/culture/sistemi sociali oltremodo diversi?
    Insomma, come ritrovare il dono dello Spirito nella Babele dei linguaggi e delle culture?

    FARE CULTURA A SCUOLACON UNO STILE DI ANIMAZIONE CULTURALE

    Tu che mi leggi, ricorda il tempo / prima che si indurisse la cera, / quando ognuno era come un sigillo. / Di noi ciascuno reca l’impronta / Dell’amico incontrato per via: / in ognuno la traccia di ognuno. / Per il bene e per il male, / in saggezza o in follia, / ognuno stampato da ognuno.
    (Primo Levi) [2]

    Si tratta, allora, di ridefinire i ruoli delle istituzioni culturali, proprio perché la scuola oggi, da sola, in un quadro sociale complesso non può assolvere l’intera funzione educativo-formativa prescindendo dagli altri attori sociali del territorio (dalle altre figure di adulto, ai mezzi di comunicazione di massa – Tv, software didattici, giochi elettronici ed internet soprattutto – dalle diverse agenzie educative al gruppo dei pari).
    Alla scuola sono state delegate molteplici funzioni: da quella di agenzia primaria di socializzazione (dopo la trasformazione interna alle famiglie), a quella istruttivo-formativa, a quella ricreativo-culturale, a luogo di sviluppo delle potenzialità creative dei giovani, senza che questi ambiti riuscissero ad essere integrati in progetti culturali, in cui l’apprendimento diventasse formativo (un sapere che è al tempo stesso saper fare e saper essere) e le discipline «plurali linguaggi del sapere», modi per «rappresentare» la realtà, i suoi fenomeni, i suoi processi.
    Negli ultimi vent’anni, invece, la scuola – per paura di essere «fuori» dal mondo reale – ha iniziato ad introiettare modalità/contenuti del mondo effimero dei mezzi di comunicazione di massa, del consumismo culturale, della realtà virtuale: è divenuta così contenitore «sotto vuoto spinto» di problemi, rispetto ai quali non ha trovato al suo interno mezzi capaci di affrontarli, né sul piano culturale, né su quello organizzativo, ma soprattutto si è trovata impreparata sul piano del «dialogo intergenerazionale». Spesso ha utilizzato delle scorciatorie, inserendo nei curricoli formativi «nuove e più moderne discipline»: dall’educazione stradale, all’educazione all’immagine, ai corsi di musica rock, di cinema, teatro, ecc. ecc.
    Le «pagine dell’enciclopedia» sono state ampliate, ma la «passione per il sapere» è naufragata nell’oceano dei frammenti, abbandonando alle correnti imprevedibili del tempo «il leggere e lo scrivere», «il libro, la penna e la carta assorbente».
    Il dibattito intorno alla professionalità dei docenti e al ruolo delle competenze relazionali nel processo di insegnamento-apprendimento-formazione ha oscillato, in questo ultimo decennio, tra una totale adesione alle esigenze di «socializzazione dei giovani» (l’insegnante più bravo è il più «simpatico», il più vicino anagraficamente ai giovani) e la pura e semplice «trasmissione idraulica dei contenuti», indipendentemente dall’interlocutore («Insegno matematica, non sono uno psicologo!»), dimenticando in questo modo che la «trasmissione di sapere» è la capacità di dialogare tra mondi diversi, tra generazioni diverse, traducendo problemi e possibili soluzioni da una generazione all’altra, affidando all’ultima le possibilità di cambiamento, attraversando i linguaggi, nel progetto comune di costruzione di «mondi migliori» e «lingue sapienti del cuore».
    L’animazione culturale, o meglio lo stile educativo dell’animazione culturale, può – in questo quadro – rappresentare una vera e propria risorsa di rinnovamento didattico-culturale della scuola, a tutti i livelli e in tutte le sue articolazioni, dando nuovo vigore alla stessa «funzione istituzionale» della scuola: promuovere il sapere, la conoscenza, la ricerca umana, scientifica, culturale ed affinare gli strumenti per la costruzione di nuove ed efficaci forme di cittadinanza per le diverse generazioni, affidando ai ragazzi e alle ragazze, alla loro creatività e fantasia, il ruolo di protagonisti dei processi di risoluzione dei problemi e quindi di «costruzione di tradizioni culturali capaci di interrogare il passato, vivere consapevolmente nell’oggi ed elaborare progetti per il futuro».
    Vanno rispettate però alcune regole fondamentali, affinché «l’animazione culturale» non diventi un «gioco psicopedagogico», al termine del quale «si fa lezione».
    Tessere l’ordito e la trama del «fare cultura» a scuola, con uno stile di animazione culturale, significa dunque tenere ben presenti tre piani di lavoro contemporanei:
    – il piano del dialogo intergenerazionale (che è anche interculturale);
    – il piano del senso dell’imparare (che è anche ricerca di senso e di consapevolezza nel mondo);
    – il piano del rapporto tra passato, presente e futuro (che è anche innestare il proprio progetto di vita nel cammino del mondo, la dimensione nell’io nel «noi», la costruzione dell’identità personale, coltivando gli spazi di autonomia).
    Negli ultimi dieci anni, ad esempio, in Provincia di Bolzano, soprattutto grazie all’impegno finanziario ed umano e alla intuizione di alcuni esperti, le iniziative formative e di aggiornamento per docenti e genitori, nel quadro dei progetti di «Educazione alla salute» si sono mosse non solo sul piano della «prevenzione» del disagio e della dipendenza, ma hanno percorso un itinerario che dalla riflessione sulla complessità e sul ruolo dell’istituzione scolastica nel territorio, hanno sviluppato ipotesi di stili di lavoro nella scuola orientate all’animazione culturale, proprio per favorire il dialogo intergenerazionale (coinvolgendo insegnanti, genitori, operatori socio-sanitari) e affidando, anche nella fase progettuale, un ruolo da protagonisti ai giovani. Certo, questo è avvenuto prevalentemente nelle scuole di lingua italiana; i progetti hanno coinvolto più del 75% delle scuole (con grande prevalenza delle scuole materne, elementari e medie), favorendo quel processo di «sostegno a rete» soprattutto nei contesti socio-culturali più deprivati.[3] Sono esperienze in corso ed ancora aperte, che sono state capaci di rendere praticabile anche il dialogo interculturale e far intravvedere alle ragazze e ai ragazzi che vivono in un territorio pluriculturale e plurilinguistico la ricchezza e la bellezza che deriva dalle diversità, senza che queste si trasformino necessariamente in disuguaglianze o in mondi chiusi ed impenetrabili.
    L’accoglienza deve poter diventare «amichevole convivenza interculturale».
    Nella scuola dobbiamo quindi investire (energie, risorse umane e finanziarie) per sviluppare la ricerca educativa e culturale in relazione alla complessità del mondo contemporaneo, dando anche senso ai progetti di autonomia scolastica che – privati della dimensione educativo-formativa – rischiano di avviare una sorta di infinito processo centrifugo. Si tratta di sviluppare, allora, le competenze culturali, disciplinari e relazionali dei docenti, promuovendo quella riscoperta della ricchezza formativa che emerge dal dialogo tra generazioni che sa sedimentarsi, «trovare radici» e generare «nuovi mondi possibili». Ed è proprio in questa cornice che può avere vita la ridefinizione dei nuovi orizzonti culturali dei saperi, per trovare risposte alle domande tipiche di ogni svolta epocale:
    – Che cosa è formativo oggi?
    – Come si favorisce l’apprendimento per tutti, consapevoli che, oggi, un bambino su tre ha problemi di apprendimento, spesso indipendentemente dalle condizioni «materiali» in cui vive?
    – Come favorire un sapere, capace di diventare «saper fare e saper essere»?
    – Con quali i linguaggi (discipline, contenuti, modelli)?
    – Come potenziare le competenze sociali e relazionali, per diventare (tutti, adulti e giovani) consapevoli cittadini del mondo?
    La scuola può ritrovare la sua identità di «luogo della cultura e del sapere», luogo autentico di produzione, di acquisizione, di sperimentazione di saperi, di senso, ricerca di valori (e le mille ed una esperienza maturate in questi anni, nelle scuole in ogni continente della terra, spesso lontano dai centri delle decisioni e delle risorse, con mezzi poveri, ma ricchi della convinzione che «è solo la lingua che fa uguali», come scriveva trent’anni fa don Milani), solamente prestando «cura e attenzione» al pensare, al comunicare, all’operare, al riflettere, al riconoscere, all’accogliere, all’aiutare in libertà, al valorizzare, diventando la costellazione che, nello spaesamento, orienta verso il terzo millennio il cammino delle nuove generazioni alle prese con la fatica e l’avventura di crescere.

    IMPARARE A TESSERE LA TRAMA DELLA VITA CON I FILI DELLA MEMORIA

    In un antico racconto ebraico si legge di un bambino che voleva mettere in imbarazzo il suo maestro. Stringeva in mano, nascondendolo, un passerotto caduto dal nido e pensava:
    «Dirò al maestro: – Ho in mano un passerotto. Dimmi, è morto o vivo? –
    Se dirà che è morto, aprirò la mano e l’uccellino volerà.
    Se dirà che è vivo, stringerò la mano e gli mostrerò il passerottino morto».
    Andò dal maestro e gli fece la domanda:
    – È vivo o è morto? –
    Ma il maestro, che era un sapiente, rispose:
    – Sarà come tu vorrai.

    Un aspetto sul quale è importante riflettere è il rapporto tra progetto formativo-educativo e ruolo di protagonisti affidato alle giovani generazioni.
    Nel racconto ebraico il maestro, che era un sapiente, affida al giovane la responsabilità delle azioni (nel bene e nel male); così la scuola e in genere tutte le istituzioni formative devono trovare modi, spazi e tempi per «ridare senso alla responsabilià individuale», garantendo però reali possibilità di progetto e di cambiamento.
    Questo protagonismo dei ragazzi e delle ragazze, per gli adulti-educatori significa:
    – valorizzare le «domande» dei giovani (evitando il rischio di banalizzarle o di «deriderle» per l’ingenuità);
    – riconoscere le diversità come ricchezza (evitando di collaborare all’omologazione culturale diffusa);
    – responsabilizzare ognuno, facendo intravvedere però le concrete possibilità di trasformazione della realtà (anche e soprattutto nella vita quotidiana, rivalutando la dimensione della quotidianità come dimensione del cambiamento visibile e misurabile);
    – fare insieme esperienza di ricerca di senso come «ricerca culturale» (per una cultura che si «incarna» nella vita);
    – trovare parole, lingua, concetti, relazioni per definire, affrontare e, forse, risolvere i problemi, le difficoltà, le sfide.
    Gli adulti educatori, in questo quadro di riferimento, devono prestare particolare attenzione ad alcuni aspetti prioritari, capaci di orientare i percorsi educativi.

    Valorizzare il limite.

    «Bellissimo
    l’aquilone si leva
    dalla capanna del mendicante»
    Issa Kobayashi (Giappone).

    La valorizzazione del «limite» diventa il riconoscimento della dimensione «creaturale dell’essere umano», la caducità e la fragilità appaiono allora come sigilli del cammino dell’umanità.
    Le nuove generazioni stanno vivendo un vero e proprio esproprio dell’esperienza della caducità e «della possibilità di godere della bellezza del mondo, della vita, nonostante e proprio grazie alla sua fragilità, caducità, morte».
    I temi cari a Freud, Rilke, alla letteratura di inizio secolo possono dare senso alla fatica di confrontarsi con i limiti della vita umana e far riflettere, giovani e adulti insieme, sul dolore che è parte della vita e che solo «accogliendo» questo dolore, questa sofferenza, questa fragilità è possibile fare della «condivisione» un modo sapiente di testimoniare la possibilità del cambiamento, della pienezza della vita nonostante la morte.
    Nella scuola questo può ridimensionare il «dramma dell’errore»: l’errore può diventare un momento creativo, un tentativo di sperimentare l’autonomia, l’avventura della ricerca e della scoperta, l’approssimazione come possibilità.

    Rielaborare e riaffermare la cultura del lavoro.

    Come espressione creativa dell’umanità, come espressione del bisogno di relazionalità e socialità, come «patto sociale», protagonismo, solidarietà, esperienza concreta di legami costruttivi.
    Nella scuola tutto ciò può favorire un sapere che si trasforma in «saper fare», in azione concreta e responsabile.

    Costruire insieme reti di «traduzione culturale».

    Potenziando l’idea della lingua come scrigno segreto delle tradizioni culturali, per favorire quel transitare da una dimensione culturale all’altra che aiuta a decentrare il proprio punto di vista, ma soprattutto favorisce la scoperta di «soluzioni originali, nuove, creative».
    Nella scuola questo si può tradurre in concrete esperienze di amicizia e vicinanza interculturale. Si tratta però di passare dalla teoria alla prassi, affinché non avvenga come in una scuola toscana, in cui per anni hanno lavorato sulla educazione interculturale e quando poi sono arrivati i bambini stranieri e tutto sembrava facile, un ragazzino somalo (terrorizzato dalle esperienze di guerra, dalla solitudine, la lingua diversa, il clima e la gente) è salito su un albero del cortile della scuola e di lì non voleva scendere per nessun motivo. All’insegnante che cercava di convincerlo a rientrare in classe, continuava a gridare: «Tu sei donna… non comandi».[4]
    Lo sconforto rischiava di prendere il sopravvento, ma la scuola che si è fatta luogo di ricerca, laboratorio, snodo per il rapporto sistematico e interattivo con le risorse formative del territorio ha reso possibile la «profezia» di Padre Ernesto Balducci sulla necessità di «entrare nella dimensione dell’uomo planetario», appassionando giovani ed adulti al «bisogno di una nuova paideia per il terzo millennio, al fascino del dialogo con l’altro».[5]

    Storicizzare la memoria, integrare la memoria e la storia.

    Si può ancora, dopo Auschwitz, insegnare e imparare a tessere il tempo?
    «La mia generazione è l’ultima che ricorda. Già per i miei figli sono cose che si leggono nei libri e che si raccontano a casa, ma non è la loro memoria. Penso che questo vada accettato come inevitabile, ma il problema che mi interessa è un problema storico. È ciò che esprimo in modo un po’ paradossale, dicendo che il problema per la mia generazione e per quella che seguirà (parlo sempre da storico) è di integrare Proust al lavoro dello storico, fare cioè della piccola «madeleine» un oggetto storico. Altrimenti, si ha l’abitudine di dire che da un lato c’è la memoria e dall’altro la storia: ma non è affatto così. La memoria pura può generare degli errori; d’altra parte la storia positivista ha sempre opposto la storia alla memoria. Penso che si debba fare una storicizzazione della memoria, un’integrazione della memoria alla storia. Così si otterrà qualcosa di diverso».[6]
    È quel qualcosa di diverso che il filosofo Walter Benjamin, nel pieno della tempesta nazista, in fuga attraverso i Pirenei con una enorme valigia pieni di libri, le parole da salvare e far sopravvivere alla furia di chi i libri li bruciava, aveva definito L’angelo della storia.

    Mein Flügel ist zum Schwung bereit,
    ich kehre gern zurück,
    denn blieb ich auch lebendige Zeit,
    ich hätte wenig Glück.[7]

    «C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato.
    Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può chiuderle.
    Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta».[8]
    Possiamo muoverci «nella tempesta del progresso», senza l’illusione di ricomporre l’infranto, senza nostalgia per il passato, ma come «i pescatori di perle»:
    «Come un pescatore di perle che si cala sul fondo del mare, non per disseppellirlo e riportarlo alla luce, ma per liberare ciò che in esso c’è di ricco e di inconsueto, le perle e il corallo degli abissi, e ricondurlo in superficie, questo pensiero scava nei recessi del passato, ma non allo scopo di resuscitarlo a ciò che era e di contribuire al rinnovamento di epoche estinte.
    Ciò che guida questo pensiero è la convinzione che, benché i viventi siano soggetti alla rovina del tempo, il processo di decadimento è contemporaneamente un processo di cristallizzazione, che sul fondo degli abissi, ove affonda e si dissolve ciò che un tempo era vivo, certe cose subiscono un ‘sortilegio del mare’ e sopravvivono in nuove forme cristallizzate, immuni agli elementi, come se aspettassero solo il pescatore di perle, che un giorno scenderà da loro per ricondurle al mondo dei vivi quali ‘frammenti di pensiero’, cose ‘ricche e strane’ e forse, addirittura, eterni Uhrphänomene».[9]
    In questo senso alla scuola, e agli insegnanti soprattutto, è affidato ancora una volta un compito impegnativo: aiutare i giovani a costruire gli strumenti più idonei per orientarsi nel labirinto della società complessa, per superare le facili chiusure dei diversi nazionalismi e particolarismi, le letture semplificatorie della complessità delle relazioni umane su tutti i piani, da quello interpersonale a quello generazionale, a quello istituzionale. Accompagnare le nuove generazioni lungo il cammino di formazione per diventare cittadini del mondo, con la consapevolezza sapiente della transitorietà delle opere degli esseri umani, con la fiducia nella possibile cooperazione tra popoli, culture, lingue, realtà diverse, ricchezza infinita del mondo in cui viviamo, non è certo impresa facile.
    L’istituzione scolastica non sempre ha avuto strumenti e risorse per operare in questa direzione, talvolta schiacciata dai limiti imposti «dalla miseria e dalla ristrettezza culturale», altri dalla ricchezza che appaga i bisogni immediati e che appanna le fatiche e le responsabilità della costruzione per il futuro. Forse possiamo «affidarci» ancora ad un’immagine cara al nostro passato.
    In una immaginaria lettera a San Cristoforo, il santo protettore dei viaggiatori, colui che con umiltà aiutava a traghettare i viandanti sull’altra riva del fiume sempre in piena, Alexander Langer, il profeta scomodo del Sudtirolo, ricordava la difficoltà di quel compito:
    «So bene che era in quella tua funzione, vissuta con modestia, che ti capitò di essere richiesto di un servizio a prima vista assai ‘al di sotto’ delle tue forze: prendere sulle spalle un bambino e portarlo dall’altra parte, un compito per il quale non occorreva certo essere un gigante come te e avere quelle gambone muscolose con cui ti hanno dipinto. Solo dopo aver iniziato la traversata ti accorgesti che avevi accettato il compito più gravoso della tua vita, e che dovevi mettercela tutta, con un estremo sforzo, per riuscire ad arrivare là.
    Dopo di che comprendesti con chi avevi avuto a che fare, e avevi trovato il Signore che valeva la pena servire...».[10]
    Si tratta di fare, allora, un percorso comune e lungo di conversione, come «apprendisti traghettatori», «per una nuova ecologia della mente», per passare «dalla ricerca del superamento dei limiti ad un nuovo rispetto di essi... alla riscoperta di semplicità e frugalità». Come per San Cristoforo ci vorrà una spinta positiva: la «rinuncia alla forza» e la decisione di mettersi «al servizio del bambino ci offre una bella parabola della conversione ecologica oggi necessaria».[11]
    Così potremo ritrovare il gusto del «Giochiamo che eravamo…» tanti, diversi e colorati, e costruire un immaginario capace di aiutare tutti (e soprattutto gli adulti educatori):
    – ad essere in pace con la propria storia e la propria memoria e a prendere consapevole distanza dal passato;
    – ad affidare alle nuove generazioni un mondo ancora da cambiare senza scrollarsi di dosso la responsabilità del presente;
    – ad accettare la dimensione del limite come segno visibile dell’essere creatura, sigillo dell’umanità in cammino.

    NOTE

    [1] Cf a proposito delle Leggende delle Dolomiti:
    COSSETTO M., La letteratura come fonte per la ricerca storica. Due itinerari attraverso l’immaginario del Tirolo-Sudtirolo-Alto Adige-Trentino, in AA.VV., Fare storia a scuola, Istituto Pedagogico in lingua italiana di Bolzano, Ed. La Grafica, Mori 1997, pp. 345-393. Su Carl Felix Wolff, antropologo, letterato e scrittore, studioso delle tradizioni locali e scopritore del «Regno dei Fanes»:
    WOLFF C.F., Il Regno dei Fanes, Licinio Cappelli Editore, Bologna 1948.
    WOLFF C.F., Ultimi fiori delle Dolomiti, Licinio Cappelli Editore, Bologna 1953.
    WOLFF C.F., I monti pallidi, Cappelli, Bologna 1968.
    WOLFF C.F., Le leggende delle Dolomiti, Cappelli, Bologna 1970.
    WOLFF C.F., Rododendri bianchi delle Dolomiti, Cappelli, Bologna 1989.
    [2] LEVI P., Agli amici, in Ad ora incerta, Garzanti, Milano 1984.
    [3] Le scuole di ogni ordine e grado (tranne l’Università che è in fase di istituzione a partire dal 1998) sono articolate in scuola di lingua italiana (lingua di insegnamento è l’italiano), scuole in lingua tedesca, scuola delle località ladine (in cui alcune discipline sono insegnate in italiano e altre in tedesco). Le strutture edilizie, amministrative e formative sono separate.
    Anche in Provincia di Bolzano, in cui il benessere è diffuso, la forbice ricchi/poveri si sta allargando sempre di più.
    Rilevanti sono alcuni dati, emersi nel corso degli ultimi dieci anni: a fronte di un tasso di disoccupazione più basso d’Europa, vi è un tasso di suicidi superiore tre volte alla percentuale nazionale, un livello medio-basso di formazione scolastica della popolazione (pochi i laureati e i diplomati), ma è praticamente inesistente l’analfabetismo.
    [4] BORTOLONE R., Una scuola luogo del cuore, in «Animazione Sociale», n. 12/1997, p.73.
    [5] Ivi, p. 77.
    [6] Pierre Vidal Naquet, intervistato da Rocco Ronchi, «Una città», n.10, Forlì, 1993.
    [7] «La mia ala è pronta al volo/ ritorno volentieri indietro/ perché restassi pur tempo vitale/avrei poca fortuna». Gerhard SCHOLEM, Gruß vom Angelus.
    [8] BENJAMIN W., Tesi di filosofia della storia, Einaudi, Torino 1962.
    [9] Uhrphänomene – Fenomeni originari; ARENDT H., Il pescatore di perle. Walter Benjamin, Mondadori, 1993, pp. 91-92.
    [10] A. LANGER Lettera 2000, Editrice Eulama, marzo 1990; e in Il traghettatore Alexander Langer, ASPE, nr. 14, luglio 1995; ora anche in LANGER A., La scelta della convivenza, Edizioni E/O, Piccola Biblioteca Morale, Roma, 1995.
    [11] A. LANGER, Lettera 2000, Editrice Eulama, marzo 1990.


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