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    Valeria Di Francesco

    (NPG 1998-05-53)


    Ci sono miracoli che basta nominare per ottenere il plauso e la meraviglia di una folla stupita ed estatica, contro altri, i cui effetti incutono timore e paura presso gente incapace di coglierne il senso più vero. L’indemoniato liberato da un’intera legione di spiriti maligni indusse i mandriani – spaventati com’erano dalla subitanea perdita di un intero branco di porci – a pregare Gesù, scongiurarlo persino, di abbandonare il loro territorio.
    Alla folla che lo vide risalire sulla barca fece eco un’altra folla, più numerosa, inneggiante, curiosa – morbosamente curiosa – di vedere e toccare «l’uomo dei miracoli», colui che compiva straordinari prodigi con la sola forza della parola e del suo tocco leggero.
    Mentre si trovava sulla riva, impossibilitato a muoversi da quella moltitudine incalzante, giunse a lui uno dei capi della Sinagoga, un uomo giusto e retto, conosciuto e stimato da tutti in quella regione. La folla, che attendeva qualcosa di sublime, gli fece largo in silenziosa attesa. Giàiro non tradì le aspettative della gente, accorsa con la speranza di assistere ad un avvenimento straordinario: si gettò subito ai piedi del Cristo – lui, uno dei capi della Sinagoga! – pregandolo con commovente insistenza di recarsi presso la sua casa e imporre le mani alla sua figlioletta che stava per morire.
    Seguito immediatamente da una folla sospesa in un’attesa concitata, Gesù si mise a camminare con lui, con lui conversando, con parole semplici e profonde, di vita e di speranza; della vita che supera se stessa aprendosi ad una speranza più grande e della speranza che aiuta e sostiene la vita nei momenti più tragici in cui sembra negarsi.
    Gli parlò degli uccelli del cielo, che con dolce fermezza costringono i loro piccoli, divenuti ormai abbastanza forti da badare a se stessi, a lasciare il primo nido, in cui sono cresciuti dietro affettuose attenzioni. Gli parlò dei fiori del campo, che affidano al cielo e al sole la stupita bellezza dei loro germogli.
    Gli parlò dei figli dell’uomo, su cui nessuno può vantare un’autorità così grande al punto da costringerli a tradire il progetto di vita che Dio sogna su ciascuno di loro. Gli parlò del chicco di grano che solo se muore a se stesso può rinascere a vita nuova come giovane pianta capace di portare frutto.
    Giàiro, figlio di Efraim, figlio di Manasse, capo della Sinagoga, lo ascoltava con attenzione, ora turbato ed impaziente, ora irritato, poi stupito, ed infine commosso. Mille volte era stato sul punto di interromperlo per urlargli la sua disperazione. Avrebbe voluto ribattere, spiegandogli che sì, va bene, gli uccelli del cielo, i fiori del campo, i chicchi di grano, ma i figli dell’uomo, no, non poteva usarli come termini di confronto, paragonandoli al resto della creazione, su cui il Dio dal nome impronunciabile li aveva posti come signori e padroni.
    Stava per dirglielo, approfittando di una pausa del Maestro, quando questi, con un tono alquanto turbato, voltandosi con impazienza come per cercare qualcuno tra la folla, chiese ad alta voce: «Chi mi ha toccato?».
    Venne da ridere ad alcuni dei discepoli e a quanti erano a lui più vicini; il Maestro usava parole sublimi per descrivere il Regno dei Cieli, incantava le folle con le sue parabole così umane, così quotidiane, eppure tanto velate di un mistero ancora difficile da cogliere; nondimeno, a volte, anche lui si perdeva in considerazioni così poco dignitose. «Chi ti ha toccato? Maestro, con tutta questa folla che ti si accalca attorno, che ti spinge e che ti incanta, tu chiedi chi ti ha toccato?». A parlare fu Tommaso. Già, era lui il discepolo dalle constatazioni pratiche. Lui e Giuda, che teneva ben stretta la cassa comune, rappresentavano gli altri ben radicati con i piedi per terra quando questi, esaltati dalle parole del Maestro ed entusiasmati dai suoi gesti a volte impenetrabili, partivano per vette eccelse.
    Ma lui non sembrò neppure accorgersi di una domanda in sé così provocatoria. Continuava a guardarsi intorno, a cercare e ripetere: «Chi mi ha toccato?». Fu allora che dalla folla attonita, stupita e irritata, uscì una donna, piccola di statura, di una bellezza prostrata da lunga malattia, e pallida, molto pallida, in volto. Molti la riconobbero; tante cose si dicevano di lei, molte storie circolavano sul suo conto, sulla sua figura di donna che da tanti anni – molti, tanti almeno quante le tribù di Israele – soffriva, condannata per chissà quali colpe a causa di un male che lentamente prosciugava la sua vita, un’emorragia incontrollabile, che la rendeva debole e impura.
    Per anni questa donna aveva cercato conforto e aiuto nella fugace scienza dei medici che, attraverso un crudele gioco di rimproveri e illusioni, l’avevano costretta, sospesa e delusa, ad un’attesa lenta e pesante molto simile ad un’agonia.
    Tutto aveva dato di sé nella sua lotta disperata contro il male fisico e contro un atteggiamento culturale che l’escludeva, la evitava e la derideva; aveva sacrificato il suo tempo, gli anni di una giovinezza troppo breve, le sue ricchezze consumate nelle avide casse di medici infastiditi e frettolosi, le sue speranze sempre deluse; tutto, proprio tutto, aveva sacrificato sopra l’altare freddo dei suoi timori e delle sue paure.
    Giàiro fremeva, impaziente e adirato, incapace di comprendere come il Cristo, uomo dal giusto discernimento, potesse perdere tempo con una donna come quella, peccatrice senza dubbio, insulsa e inutile, mentre la sua figlioletta – la sua bella, brava, buona figliola – lottava disperata contro la negazione della vita.
    Con uno scatto improvviso, gli prese la veste, cominciando a tirarlo dalla sua parte; ma lui, che pure si era accorto del tocco leggero e impaurito della donna in mezzo alla folla incalzante, sembrò non avvertire nemmeno quegli strappi nervosi.
    Guardava la donna che, insieme al flusso di sangue, perdeva la sua vita, morta com’era ormai alla speranza di poter recuperare un’esistenza dignitosa ancora e ancora felice; morta nel rispetto caduto di chi l’avvicinava; morta a se stessa, infine, incapace di rappresentarsi un futuro diverso dal presente a cui, con tristezza e cattiveria, si costringeva, schiava delle sue false certezze e delle sue deludenti aspettative.
    La guardava; guardava lei, e non la folla che l’aveva sempre derisa e scacciata; guardava lei, e non la gente in mezzo alla quale aveva cercato di nascondersi, in un anonimato facile e comodo; guardava lei e il suo corpo umiliato, il corpo della vergogna e dell’infamia, un corpo condannato fin dalla nascita a una vita nascosta e umiliante, perché corpo di donna.
    Sai tu, Gesù venuto da Nazaret, cosa significhi levarsi il mattino, ogni mattino, ed ascoltare sin da fanciulla, la terribile benedizione – innalzata nella gioia di un’anima maschile che ritrova se stessa dopo l’annebbiamento del sonno – la preghiera crudele che consacra sotto il sigillo di Dio l’ordine imposto al mondo dall’uomo: «Che tu sia esaltato, Dio nostro, Dio d’Israele, Re dell’universo, Signore della Terra e di quanto essa racchiude; che tu sia lodato, Dio nostro, per non avermi fatto donna». Puoi forse capire tu, Messia venuto da lontano eppure nato sulle nostre terre, puoi forse comprendere quello che si prova quando, dopo una giornata piena di fatiche, si chiedono ancora mille altre cose alla tua persona stanca e sfinita, divisa fra una molteplicità di doveri e di appartenenze; tu figlia, tu sposa e moglie, tu madre, tu donna di fatiche dentro una casa sempre meno tua, e fuori, ancora, mille altre cose, mille altre personalità, senza mai appartenere a te stessa, con il diritto negato di una decisione che spetta sempre ad altri.
    E all’improvviso scopri come la stanchezza, ogni giorno più pesante e immotivata, abbia cambiato volto, sviluppando attraverso una malattia dolorosa e liberatoria insieme, punizione severa per quel corpo che non accetti, e insieme voce e grido al tuo rifiuto, al tuo no, alla tua ribellione incompresa e combattuta. Malattia di donna, è vero; ma di una donna stanca di rivestire, come un sacco maleodorante e lacero, un ruolo pesante nella sua indefinitezza, dai confini eppur continuamente sfumati. Una malattia vergognosa, umiliante e impura, che martorizza un corpo non scelto né desiderato, e pone fra te e gli altri quella barriera mai pronunciata ma sempre presente.
    Che strano... Gesù il Nazareno sembrava davvero capirla, sembrava davvero comprendere più di quanto le sue parole – poche e sconnesse, in verità – riuscissero ad esprimere. E continuava a guardarla, a guardare lei, donna, e il suo corpo umiliato, senza provarne vergogna, senza respingerla, ma anzi ascoltandola. Già prima l’aveva invitata ad uscire allo scoperto, a mostrarsi agli altri per quello che era, con la sua miseria che rappresentava tuttavia la sua sola ricchezza.
    Capiva, ora, la piccola donna; capiva perché egli le avesse chiesto di farsi avanti e di raccontare a quanti le erano vicini cos’era stata e chi era adesso. Adesso, ora, che sentiva, con l’arrestarsi del flusso di sangue, rinascere in lei una vita nuova. Non era una colpa la sua esistenza di prima. La colpa, se c’era, andava semmai ricercata nel suo arrendersi ad un’immagine che non le apparteneva, nel suo rifiuto, costante e nascosto, di una femminilità positiva e solare. Il Dio che ha creato la vita, formandola maschio e femmina, non poteva certo desiderare l’abbruttimento delle sue creature, come invece proclamavano radicate convinzioni, nate da un cuore indurito e giunte persino a codificarsi in legge.
    «Il Dio dell’Amore, il Dio della Vita, desidera per ciascuno, per tutti un’esistenza felice e dignitosa. E tu, piccola donna, che hai avuto il coraggio di rinnegare una legge che ti condannava alla vergogna, che hai avuto nella Vita una fiducia più forte delle tue personali paure e dei tuoi nascosti timori; tu, con il tuo semplice gesto, ricco di una speranza inconfessata, non hai fatto altro che chiedere ciò che da sempre ti è dovuto. Va’ dunque, la tua fede ti ha salvata».
    Giàiro osservava, stupito e confuso, abbandonandosi al gesto del Maestro come un bimbo fra le braccia della madre; correva intorno alle sue parole con gioia e avidità, dissetandosi come presso una sorgente fresca e abbondante; accoglieva questo nuovo modo di esistere come l’unico vero, autentico, in grado di offrire un senso pieno e un significato nuovo alla sua vita. Il Cristo era capace, capace davvero di chiamare ad un’esistenza giovane e fiorente, di donare una vita...
    All’improvviso, però, di nuovo il caos. Dopo l’ordine ritrovato, dopo la conquista faticosa di un centro intorno al quale riorganizzare con fiducia i tasselli, confusi, della propria vita, ecco irrompere, frenetico e impietoso, il disordine che confonde, il dubbio che attanaglia, la negazione che atterra e prostra. Dalla casa di Giairo – dalla sua stessa casa! – dalla quale, ormai, non erano più così lontani – ecco uscire un gruppo, chiassoso, di persone, conosciute e amate, che lo assalgono, con lacrime amare e lamenti impietosi, dicendogli, gridandogli quasi, come in un rimprovero lontano, che è inutile ormai disturbare il Maestro – ma loro, non l’avevano forse detto fin dall’inizio? – perché ciò che non doveva essere era accaduto: la ragazza era infine morta e al padre non rimaneva altro che un dolore disperato.
    Di nuovo, improvviso e furtivo come un ladro, ecco irrompere il buio. Il buio totale, il buio completo, quello che mette davvero paura. La prima reazione fu quella di pensare: – Non è possibile... Non è possibile che una vita bella, serena e luminosa come quella della sua figliola potesse conoscere una fine tanto crudele, un’interruzione così fulminea. E poi, piano piano, ma inesorabilmente, la pesante consapevolezza che, al contrario, questa possibilità c’era, ed era lì, muta e presente, a parlare di una vita così crudele, a tal punto assurda e violenta da arrivare a negare se stessa.
    Perché, perché, Dio?... E perché, perché proprio a lui? A lui, che ti aveva cercato, invocato, pregato con insistenza e passione; a lui, che mai era venuto meno al suo dovere di uomo e di guida morale per il tuo popolo; a lui, cui ti eri mostrato amico e vicino.
    La rabbia era grande. Come un torrente in piena finisce con il sopraffare gli argini, a fatica e con pazienza costruiti intorno a lui, così nasceva in Giàiro la ribellione violentemente istintiva contro una Ragione incapace di nominarsi, contro un Destino oscuro e maligno, contro un Dio impositivo e tiranno, un Essere creato e creatore capace unicamente di compiacersi del male.
    Guardò colui che si faceva chiamare il Cristo, messaggero di un’ipocrisia falsa e bugiarda; guardò questo figlio dell’uomo, nato sotto una stella spenta e malvagia; lo guardò, ma ciò che ricevette in cambio lo spaventò e lo turbò, più della morte, più della paura. Anche il Cristo guardava lui, con la preoccupazione di chi vede un amico tentennare nei suoi passi incerti; il suo sguardo e le sue parole gli testimoniavano una vita diversa, una Vita autentica, una Vita che si chiama Amore e un Amore che non rinnega mai se stesso.
    «Non temere, Giàiro. Hai visto cosa ha saputo fare la fede di una donna afflitta e sola? Ricordi? Ha avuto nella vita una fede più forte delle sue paure. Coraggio, Giàiro. Anche tu abbi nella Vita e nell’Amore una fiducia altrettanto grande. Come gli uccelli del cielo, come i gigli del campo».
    Sgridò poi la folla, responsabile di tanto chiasso inutile, di un clamore così vuoto, di parole rintronanti e sterili. Gente capace soltanto di imporre consigli falsi e anonimi, di alzare la voce quando si ha la certezza di essere in tanti, di soffocare con chiacchiere inutili giovani vite che cercano solo poche parole ma chiare e distinte. Gente vanitosa, prepotente, permalosa; gente che, come c’era da aspettarselo, voltò le spalle alla vita, quando questa iniziò a compiere i primi passi da sola; si prese gioco della vita, allorché questa pronunciò le sue prime parole a difesa di se stessa; derise la vita non appena si accorse che stava lottando contro la sua negazione.
    Cacciati tutti fuori, volle con sé soltanto il padre e la madre della fanciulla, e quegli amici con i quali maggiormente condivideva i suoi incontri di vita; tutti segno tangibile – come Giàiro ora comprendeva – di quella comunità domestica, che cercando, invitando e accogliendo nella sua casa la presenza dell’Amore che salva, diviene prima pietra e fondamento, in sé accolta e accogliente, della Comunità più grande che quella Presenza vive e testimonia, in sé nominando interi popoli e intere nazioni.
    Entrarono in silenzio nella stanza dove giaceva la fanciulla; era lì, la bambina amata, vezzeggiata, adorata, nella quale aveva riposto tutte le sue speranze, ogni suo desiderio; era là, silenziosamente distesa, la ragazza sul cui volto – come aveva potuto non accorgersene prima? – incominciavano a delinearsi, ancora incerti e indecisi, i tratti inconfondibili della giovane donna. Si ricordò allora Giàiro degli uccelli del cielo e del loro volto solitario; ricordò i gigli del campo e la loro orgogliosa bellezza, superba su ciascuno stelo; ricordò il tenero chicco di grano e la sua tacita sofferenza nello schiudersi a nuova vita. Ed ebbe compassione di se stesso e della sua provata inabilità a cogliere i cambiamenti lenti e necessari, se pur dolorosi, in ogni giovane esistenza; compatì la sua orgogliosa vanità che gli aveva impedito di accettare nella sua disorientante diversità la persona nuova che gli stava davanti.
    La sua bambina era lì, sempre la stessa eppure diversa – figlia, bambina e in futuro sposa e madre –, era lì e chiedeva nella sua silenziosa solitudine che fosse riconosciuta, accettata e sostenuta la sua faticosa ricerca e lenta conquista di una personalità diversa, finalmente unica, finalmente sua; non più ombra del padre, figura evanescente di un dovere orgoglioso e tiranno, ma persona nuova – donna ormai – cresciuta e nutrita da un Amore finalmente libero e responsabile.
    Non più la mano di un padre possessivo e geloso, posta sul capo del figliolo per proteggere e ordinare; ma la mano sicura di un amico che accoglie e riscalda la tua, in un garbato e confortante gesto che non impone, ma invita, conquista e spinge all’azione.
    E dopo lo stupore di un cuore che ha finalmente imparato ad accogliere l’altro nella sua disarmante libertà, la matura consapevolezza che il miracolo di un’esistenza che si risveglia a se stessa e alla sua unicità meravigliosa possa essere compreso e apprezzato solo da cuori adulti e aperti all’esperienza dell’Amore che dona. Un Amore che invita, con un fascino nuovo, a camminare con le proprie gambe chi alla vita si apre, con il coraggio di riscoprirsi seguendo il proprio cuore, senza nascondere il volto a problemi e interrogativi, che pure esistono, ma superando gli stessi alla luce di una speranza che, se pur non ancora certezza, orienta fiduciosa un cammino già tracciato, eppure ancora tutto da progettare.
    «Fanciulla, io ti dico: alzati!».


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