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    Perché il bene vinca sul male



    Carlo Molari

    (NPG 1998-01-22)


    Il male nelle sue diverse forme (disordine nella creazione, morte dei viventi, sofferenza e malvagità degli uomini) ha sempre costituito un grave problema per i credenti in Dio. Soprattutto quando si pensava che la creazione fosse iniziata in uno stadio di perfezione la domanda che si poneva con insistenza era: «perché esiste il male?», «da dove proviene?» Le risposte date a queste domande erano numerose. In ambito cristiano era prevalsa la risposta che collegava il male all’azione del demonio e soprattutto al peccato originale commesso dall’uomo. In particolare la sofferenza appariva come la penosa conseguenza di errori umani o la giusta punizione dei peccati. In questa luce la riparazione dei peccati del mondo veniva proposta come finalità della sofferenza. Anche l’azione redentrice di Gesù veniva interpretata in questa prospettiva, come la riparazione dei peccati umani.
    Nell’attuale orizzonte culturale queste argomentazioni appaiono infondate e quindi improponibili. Ciò non impedisce che in altri tempi modelli di questo tipo abbiano potuto accompagnare un cammino di perfezione umana e abbiano caratterizzato scelte autentiche di santi. Anzi è certo che la spiritualità della sofferenza riparatrice ha suscitato profonde dinamiche di amore e di solidarietà. Ma questo non in virtù degli insufficienti modelli interpretativi, ma per la forza vitale o per la grazia che suscitava e alimentava le scelte d’amore.
    Nei nostri giorni, tuttavia, debbono essere utilizzati nuovi modelli, che tengano conto di quel passaggio da «una concezione statica delle cose ad una concezione dinamica ed evolutiva», che nel 1965 il Concilio Vaticano II presentava come la sfida culturale più incisiva del nostro tempo da cui sarebbero sorti problemi difficili che avrebbero richiesto «analisi e sintesi nuove» (GS 5).
    Nella prospettiva dinamica ed evolutiva la creazione e la storia umana sono l’ambito dove la forza creatrice, partendo da forme elementari, caotiche e incompiute, giunge ad esprimersi in forme sempre più complesse e perfette. Il processo, tuttavia, non avviene in modo deterministico e secondo dinamiche assolute, ma attraverso casualità, tentativi, involuzioni, ecc. dato che l’azione creatrice si trova a fare i conti con i limiti, il disordine e l’inadeguatezza delle componenti create attraverso cui si esprime. In questa luce il male acquista una nuova fisionomia e le sue ragioni appaiono pienamente comprensibili. Corrispondentemente le dinamiche della salvezza emergono con caratteri inediti e con esigenze vitali molto più rigorose.

    Il male nella creazione e nella storia

    Nella prospettiva dinamica il male nella creazione si presenta come disarmonia e disordine, dipendenti dallo stato di fase transitoria in cui le cose e l’uomo si trovano. L’origine, infatti, e l’evoluzione del cosmo appaiono come il faticoso e progressivo emergere dal nulla o dal vuoto delle singole realtà, che non possono accogliere in modo completo l’offerta dell’essere e della vita se non attraverso tappe successive e gradi incompleti.
    Si potrebbe dire con una metafora che il nulla e il vuoto, da cui le cose emergono, oppongono resistenze alla forza creatrice perché non hanno il sustrato sufficiente per accogliere il dono nella sua complessità e pienezza. L’imperfezione, perciò, è una condizione necessaria dello sviluppo e il male si presenta come lo scotto pagato dalle cose per giungere alla loro perfezione. In questa prospettiva, come scriveva Teilhard de Chardin, il problema del male, «il più angosciante che vi sia per lo spirito umano», «non presenta una particolare difficoltà; ma anzi trova la sua soluzione teorica più soddisfacente, e anche l’avvio di una soluzione pratica».[1]
    Il male, quindi, «cessa teoricamente d’essere uno scandalo, dal momento in cui, poiché l’evoluzione diventa una Genesi, l’immensa sofferenza del mondo appare come il risvolto inevitabile, o meglio ancora come la condizione, o ancora più esattamente come il prezzo di un immenso successo».[2]
    In prospettiva dinamica, quindi, si potebbe definire il male «l’effetto secondario, il sottoprodotto inevitabile del cammino di un universo in evoluzione»,[3] oppure la necessaria conseguenza dell’incapacità di accogliere in un solo istante e compiutamente il dono di essere e della condizione temporale, che richiede di passare attraverso stadi successivi di incompiutezza e di imperfezione. Di fatto questi passaggi esigono sconvolgimenti delle cose create, scomparsa di viventi e dolori di animali. Si può esprimere questa condizione come l’anelito della creazione per giungere al proprio compimento o il suo «angosciante sforzo verso la luce e la coscienza».[4]
    Occorre evitare però la tentazione di dire tutto questo da parte di Dio, e parlare quindi della fatica, della debolezza di Dio, o della sua sofferenza nella storia degli uomini. Sono metafore che proiettano su Dio la condizione delle creature e non servono a illustrare la realtà divina. I limiti e le impossibilità non stanno dalla parte di Dio, la cui azione contiene tutta la perfezione e la forza divina, ma provengono dalla creatura che non è in grado di interiorizzare in un solo istante tutta la ricchezza che le viene offerta. In questo senso si può affermare che la temporalità e quindi il male come incompiutezza e imperfezione è una caratteristica necessaria della creatura, che non può avere l’assolutezza e la perfezione di Dio.
    «Non è affatto per impotenza ma per la stessa struttura del Nulla, sul quale si dispiega, che Dio per creare non può procedere che in una sola maniera: ordinare, unificare poco a poco, sotto la sua influenza attrattrice, una immensa multitudine di fattori, utilizzando a tentoni il gioco dei grandi numeri».[5]

    Il peccato

    Il peccato è il male che si esprime quando perviene a livello umano e coinvolge la libertà. Per questo il peccato è, come ha precisato il Concilio, «autolimitazione dell’uomo» [6] (GS 13).
    Per capire questa formula occorre ricordare che il dono di vita ci viene offerto progressivamente, per cui pian piano l’uomo cresce e diventa se stesso attraverso i vari rapporti che fanno fluire vita. Ad un certo momento l’offerta è così ricca e densa da concedere la possibilità di rifiutare il dono successivo. Comincia così la libertà, che ci è offerta dagli altri. Nessuno di noi, infatti, nasce libero né lo diventa da solo, ma in virtù dell’amore che lo investe. Diventiamo liberi man mano che le offerte di vita ci alimentano e ci fanno crescere. La nostra libertà non comincia come capacità di fare il bene, ma come possibilità di rifiutare il bene che ci è offerto. Quando incominciamo ad amare, il Bene, che entra in noi, comincia ad esprimersi in gesti d’amore. Noi possiamo però rifiutare le offerte di vita che ci vengono fatte. Questa è la prima esperienza di libertà. Quando un adolescente comincia a crescere e ad avvertire la ricchezza del dono che ha ricevuto e della vita che si sviluppa, può iniziare a contrapporsi agli altri e a rifiutare ciò che gli viene offerto. Poi pian piano giunge al controllo dei meccanismi interiori e procede nella via della autonomia personale. La libertà comincia a svilupparsi attraverso il controllo dei processi interiori. Ma noi possiamo, proprio in virtù del dono accolto, respingere l’offerta successiva. Quando rifiutiamo ciò che ci è necessario per crescere e diventare vivi, si crea in noi un vuoto e insorge una insufficienza che si aggiunge ai limiti della nostra condizione di creature e la aggrava notevolmente. Il rifiuto di acquisire la propria identità non è sempre conscio, perché spesso ci si illude che la scelta autonoma del confronto dei genitori, o della società o degli educatori, sia il modo per affermare la propria distinzione dagli altri. Invece molte volte è l’espressione di una dipendenza maggiore dalle mode correnti. In ogni caso le scelte libere raramente si presentano come male, e solo successivamente ne scopriamo le conseguenze indesiderate. Dai rifiuti che poniamo alla nostra crescita deriva una svariata congerie di mali, che possono diventare molto estesi ed acquisire una dimensione tale da annullare il dono di vita che ci è stato fatto e che continuamente ci viene rinnovato.
    Un’altra dimensione del peccato, ancora più incidente, è quella che si struttura in abitudini sociali, in tradizioni, in leggi, in mode. Esse progressivamente si consolidano in ideali che si diffondono e possono diventare l’orizzonte di una società intera. In questi anni le cronache hanno riportato casi di giovani che uccidono i genitori per denaro, di bambini che si organizzano in bande di ladri, ecc. Sarebbe sbagliato pensare che tutto si sia risolto all’interno di una coscienza e di una decisione individuale.
    È l’espressione di una condizione molto più estesa, perché implica l’influsso di una società intera che introduce ideali, propone traguardi di benessere e spinge ad immolare vittime agli idoli comuni. Quando il male diventa struttura di una società e si diffonde come abitudine, produce stragi nelle coscienze e devasta tutte le forme di vita. Nella società attuale stanno insinuandosi falsi ideali che determinano scelte deleterie di gruppi, delle famiglie, degli individui. Questo peccato molto più incidente degli altri, perché penetra insensibilmente, diventa orizzonte comune e non si ha neppure consapevolezza del male che si diffonde. Il male è un parassita perché poggia la sua azione sul bene che si espande e utilizza sempre le sue strutture. Per questo accompagna sempre il faticoso cammino della gloria di Dio nella storia umana.

    Salvezza e redenzione: come portare il male

    Il cambiamento culturale ha inciso notevolmente anche sul modo di concepire la liberazione dal male, che diventa il problema centrale. L’interrogativo fondamentale, infatti, non è più donde venga il male, ma come venirne fuori, che è appunto il problema della salvezza. In ambito cristiano la riflessione sulla salvezza considera due problemi distinti: il primo è «in che modo Gesù ci ha salvato», il secondo è «in che cosa consiste la salvezza per l’uomo»; riguarda cioè il contenuto o la dimensione antropologica della salvezza. Nell’ambito di questa riflessione il problema per noi più importante è: come accogliere ed offrire salvezza.
    Occorre ricordare, prima di tutto, che in prospettiva dinamica, essere salvati non è tornare a una condizione primitiva perfetta, ma è accogliere un compimento e una ricchezza vitale, che continuamente e a piccoli frammenti ci viene offerta nelle diverse situazioni della storia. La maturità umana è la capacità di portare il male, e quindi di annullare le spinte deleterie del male, è imparare a vivere in modo salvifico le situazioni negative.
    In secondo luogo, la redenzione operata da Cristo non ha eliminato il male dal mondo ma ha offerto la capacità di portarlo, cioè di vivere anche le situazioni negative in modo da crescere come persone o come figli di Dio. In senso oggettivo, quindi, salvare significa inserire forza di vita dove circolano dinamiche di morte, trasmettere energia positiva dove predominano spinte negative.
    Credere in Cristo quindi significa «tenere fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede» (Eb 1,3), avere cioè come riferimento la croce. Essa fa capire come sia possibile mettere in moto spinte opposte a quelle del male e accogliere quindi la salvezza che viene da Dio.
    Credere in Dio significa appunto ritenere che il Bene è già e può entrare nella storia umana quando trova ambiti di accoglienza. Il male si vince portandolo, mettendo in moto dinamiche di vita, opposte alle sue. L’uomo non ha in se stesso la forza per portare il male, ma l’energia creatrice o la forza della vita contiene già la perfezione che deve irrompere. L’unica cosa necessaria perciò è che esistano comunità e persone capaci di aprirsi all’azione di Dio per diventare ambiti di accoglienza della salvezza per il mondo. Questa è la missione affidata da Gesù alla sua Chiesa. Questo deve essere l’impegno di ogni comunità ecclesiale.
    Il male costituisce una sfida cui le comunità ecclesiali possono rispondere solo con la fedeltà radicale al Vangelo della salvezza. Esse debbono mostrare che il male sta alle spalle, e il cammino dell’umanità rappresenta il faticoso e spesso doloroso sforzo del Bene di irrompere nel disordine, residuo del caos primordiale, e nel male amplificato dal peccato degli uomini.
    Non è nell’ambito morale e giuridico ma nell’ambito vitale che il male, residuo del caos originario, potrà essere sconfitto. Solo comunità evangeliche possono creare quegli spazi di solidarietà e di misericordia che consentono l’irruzione di forme inedite di umanità. I santi, che esse in tale modo susciteranno, mostreranno concretamente i nuovi orizzonti della storia umana.


    NOTE

    [1] Teilhard de Chardin P., Esquisse d’un univers personel, in L’énergie humaine, (Ouvres 6), Seuil, Paris 1962, p. 105.
    [2] Teilhard de Chardin P., in Comment je vois, §30, ora in Les directions de l’avenir, in Oeuvres 11, Seuil, Paris 1973, p. 212.
    [3] Teilhard de Chardin P., Un seuil mental sous non pas. Du cosmos à la cosmogénèse, 15 marzo 1951, ora in L’activation de l’énergie, Ouvres 7, Seuil, Paris 1963, p. 268.
    [4] Teilhard de Chardin P., Lettera del 6 agosto 1915 a Margherita Teilhard Chambon, in Genèse d’une pensée. Lettres 1914-1919, Grasset, Paris 1961, p. 76.
    [5] Teilhard de Chardin P., Comment je vois, §30 in Les directions de l’avenir (Oeuvres 11), Seuil, Paris 1973, p. 212.
    [6] Concilio Vaticano II, Costituzione pastorale sulla chiesa nel mondo contemporaneo, Gaudium et spes, n. 13.


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