Domenico Sigalini risponde a Valeria
(NPG 1998-01-7)
Sono una giovane animatrice di Pesaro, responsabile di un gruppo di venti scatenati ragazzi alle prese con il secondo anno di scuola superiore.
Purtroppo, per cause di forza maggiore (con i problemi di lavoro in primo piano) non mi è stato possibile quest’anno partecipare alla GMG, anche se ne ho seguito ogni momento attraverso le documentazioni dei media prima, ed i racconti entusiasti, poi, dei ragazzi che vi hanno preso parte. Ed è proprio durante una delle serate trascorse a ‘raccontare Parigi’, nelle notti serene di un’estate ormai in declino, che noi tra i più ‘grandicelli’ ci siamo soffermati – confrontandoci, riflettendo e ... insabbiandoci – sul problema-quesito (‘essere o non essere?’) del dopo Parigi.
Senza porre in discussione la validità e l’importanza della GMG (ascoltare per credere), non possiamo tuttavia non chiederci quanto di questo evento si tramuti in esperienza quotidiana per i ragazzi che lo hanno vissuto in prima persona. La straordinarietà del fatto (l’essere in tanti in una città straniera, in un clima di festa come pure in vacanza) non rischia forse di essere vissuto, se non da tutti almeno dai più ‘piccoli’, ad un livello più superficiale ed emotivo? Il ‘farsi prossimo’ a chi incontri solo per pochi giorni (in quei giorni di festa, in cui è più facile dare il meglio di sé) quali difficoltà incontra poi nel tradursi in un ‘essere prossimo’ al compagno di tutti i giorni, all’animatore che non condivide le sue stesse proposte, al catechista che tira fuori sempre i soliti problemi senza il minimo sforzo per risolverli, all’adulto sempre pronto a vedere il lato negativo di quello che tu con il tuo gruppo riesci a realizzare, alla realtà, non sempre serena, dell’essere parte di un’associazione dentro il territorio – concreto e limitato – di una precisa comunità parrocchiale...?
L’entusiasmo dell’essere in tanti si incontra e si scontra con la sfida di tutti i giorni, quando spesso ti ritrovi solo con le tue scommesse, a volte perse, a volte ancora tutte da giocare.
Ben vengano l’entusiasmo, le emozioni, le esperienze di vita incontrate a Parigi; ma che questo entusiasmo, queste esperienze possano tradursi in un autentico senso di responsabilità, nel coraggio delle piccole scelte, nella sfida, ogni giorno diversa, dell’essere comunità qui, ‘nella valle’, perché anche noi possiamo dire, come Lui, «Venite e vedrete».
Valeria
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Carissima Valeria,
la tua preoccupazione educativa va di pari passo con il rincrescimento di non aver potuto partecipare alla GMG di Parigi. Hai perso un momento bello di condivisione coi tuoi ragazzi e vorresti averne tutta la distribuzione in quanto a entusiasmo, passione per la vita di fede, generosità, impegno, tensione orante dentro la vita spesso defatigante di tutti i giorni. I problemi che poni non sono piccoli, né te li poni solo tu. È la domanda che sale da tutte le parrocchie invase dall’entusiasmo di questi giovani, di molti parroci che si ritrovano inaspettatamente in parrocchia, dopo tanti anni, ragazzi che vogliono fare, ma non sanno che cosa proporre, di tanti genitori che vorrebbero trasformare la vita di famiglia in un bell’incontro di catechesi. Dice un giornalino diocesano che racconta il dopo Parigi: «Dopo Parigi.
Una volta a casa sentiamo come un caldo che resiste: è al ritorno che il viaggio sorprende di più. E come sempre è solo alla fine che si comprende il senso delle cose. Non vorremmo un po’ tutti ripartire e rifare tutto daccapo adesso che sappiamo com’è? Ma l’esperienza non serve per ripetere le cose, semmai per cominciarne di nuove. La sfida del ritorno è il presente da vivere. Soprattutto dopo Parigi».
Ti voglio offrire alcune mie convinzioni, che forse potrebbero diventare risposte alle tue domande, ma non ne hanno sicuramente la pretesa. Sono sicuro però che il problema non si risolve pensando a una contrapposizione tra quotidianità e straordinarietà, ma nel vedere quale novità portano al quotidiano le entusiasmanti esperienze delle GMG.
* È giusto riportarsi al quotidiano, ma non prima di aver deciso di tornare ad ascoltare i giovani
Le meraviglie espresse dalla stampa, non così dai molti educatori che vivono con i giovani, dal grande pubblico, dalla stessa chiesa di Francia, per la partecipazione massiva e bella dei giovani, vuol dire che non li conosciamo, non riusciamo ad avvertire la voglia di spiritualità, il desiderio di andare oltre, di farsi domande, di stare assieme, di sentirsi in comunione, di intessere rapporti, che i giovani hanno. Abbiamo piuttosto smesso di ascoltarli. Li diamo per scontati, ci lasciamo influenzare dalle delinquenze di pochi e non ascoltiamo il silenzio dei molti, scambiamo per indifferenza un silenzio che è di ansia e di attenzione a chi osa rompere l’accerchiamento della loro solitudine. Detto in soldoni, ciò significa che dopo Parigi non possiamo tornare a fare pastorale giovanile esclusivamente nelle stanze della parrocchia, ma che dobbiamo aprirci alla complessa vita dei giovani, ai loro percorsi del tempo dell’impegno e del tempo libero, ai loro crocicchi, nelle loro piazze, dentro le loro aspirazioni. Tutto questo ha l’obiettivo di «sdoganare il giovane» dalla sua solitudine. Se noi non riusciamo a tirare fuori il ragazzo dal suo mondo chiuso, cercando di interpretarlo nella sua ricerca e realtà, i nostri discorsi, la nostra testimonianza e esperienza non riescono a contare come significativi nella loro vita, e per questo non c’è quotidianità che tenga.
* Convocare deve diventare un nuovo verbo della quotidianità
A Roma in maggio i giovani dell’Azione Cattolica, in Abruzzo ai primi di agosto l’Agesci, a Parigi, a Bologna tutti i giovani italiani: quest’anno non sono mancate convocazioni, appuntamenti; i giovani ci sono sempre andati oltre ogni previsione. Questo dice che la pastorale ordinaria deve prevedere progettualmente momenti di convocazione per aiutare i giovani a incontrarsi, a tessere relazioni ampie, a professare coralmente la fede. Proprio perché nei giovani è forte la ricerca, occorre esercitare la capacità di chiamare. Gesù l’ha sempre fatto. Diceva un educatore: «Dobbiamo qualche volta di più far sperimentare il calore di sentirsi maggioranza per aiutarli a vivere la fede nella quotidianità della minoranza». Ma al di là della maggioranza o minoranza, che può essere fraintesa con atteggiamenti di proselitismo, quello che conta per i giovani è il potersi incontrare, vivere una comunione che va oltre le appartenenze sociologiche o territoriali, celebrare la fede con gli altri in una coralità che si sperimenta o in luoghi particolari o nella voglia comune di andare pellegrini di esperienza in esperienza, di amicizia in amicizia.
* Per vivere nella quotidianità, ma con felicità, occorre essere aiutati a riscoprire il fascino della vita cristiana e la centralità di Gesù
«Se la Chiesa, se l’essere cattolici è così come lo abbiamo provato a Parigi, ci sto volentieri, è bello essere cristiani.» È una frase detta non solo da molti giovani entusiasti dell’esperienza parigina, ma da molti parigini che hanno visto questi giovani passare con naturalezza dalla serietà di una celebrazione alla festa dell’incontro, alla naturalezza dell’adattamento a mangiare per terra, a camminare, a sopportare il caldo delle lunghe attese. Molti di essi al loro ritorno fanno fatica ad adattarsi a una routine, pure necessaria, ma data per scontata, privata di ogni riferimento al centro della vita cristiana, incapace di esprimere significatività e senso. Fa impressione sentire sia a Parigi che a Bologna l’attenzione e la percezione dei passi nodali dei discorsi del Papa che portano sempre alla centralità di Gesù. Non è più possibile per loro rimanere senza centro: Lui, il Maestro. L’hanno inseguito, l’hanno scovato nei molteplici luoghi in cui il Papa ha loro indicato che si fa trovare, l’hanno celebrato, hanno risposto alla domanda «venite e vedrete», lo hanno seguito, qualcosa hanno visto, qualcosa di Lui è rimasto stampato negli occhi. Non possono tornare ad accontentarsi di stare assieme per morire di gruppo o di organizzazione o di buon senso.
* Il quotidiano riceve in dono il gusto della contemplazione e il coraggio della missione
A Parigi si è respirato un binomio interessante: la contemplazione e la missione. I giovani non facevano fatica a passare da momenti intensi di preghiera, a scambi intensi di esperienze (i tempi dei dialoghi durante le catechesi erano sempre per loro troppo brevi!), da silenzi ritenuti spesso impossibili alle celebrazioni negli stadi al dialogo serrato con gli amici. È una costante di tutti gli incontri giovanili. Ne ho vissuti tanti, in discoteche, nei teatri, nei palazzetti dello sport, nelle curve degli stadi: quando si tratta di pregare i giovani sanno fare silenzio e entrare in se stessi, cercare quel volto cui il papa in termini accorati faceva riferimento a Longchamp durante la messa. E la voglia di raccontare, di dire domani agli amici della piazzetta, rimasti a casa, perché non hanno tentato come loro. Diceva una ragazza: «Ci sono delle gioie che provi, per le quali non potrai mai trovare parole per comunicarle. Sarò sempre sfalsata di qualche passo rispetto ai miei amici che ho a casa. Come potrò portarli sul mio passo?».