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    Mio figlio Abdoul



    Gioia Quattrini

    (NPG 1998-09-02)


    Il primo incontro con mio figlio è stato incontrare una fotografia.
    Nessun sorriso, forse un po’ di imbarazzo a stare in posa davanti all’obiettivo. Lo capisco, deve essersi sentito come un animale allo zoo.
    Mio figlio si chiama Abdoul, ha sette anni, è nato in Niger ed è di religione mussulmana.
    Quando chiamai l’associazione per l’adozione a distanza, la voce gentile che rispose alle mie domande precisò subito che se avessi voluto un figlio lo avrei avuto, ma di lui non avrei potuto scegliere nulla, non il sesso, non l’età, non la religione, niente perché l’unico criterio tenuto in considerazione era l’urgenza del bisogno. Pensai che si trattava di amare e che quel discorso filava a me e sarebbe filato anche al mio Dio. Mi spiegò che con trentamila lire al mese, poco più di una pizza con birra e due supplì, avrei garantito a mio figlio lo studio, la salute, cibo, vestiti, e perfino qualche gioco. La cifra mi sembrò così irrisoria che subito mi venne da chiedere se fosse possibile inviare più denaro. Dall’altra parte del telefono mi parve di percepire un sorriso e la stessa voce ancora più gentile mi spiegò che se la cifra stanziata da me era maggiore, piuttosto che far ricco un bambino potevo adottarne due. Infatti proprio per evitare che alcuni bimbi di un villaggio fossero più fortunati di altri, i soldi inviati in più venivano messi in un fondo comune ed equamente divisi. Mi vergognai della mia idea così sciocca e così occidentale di voler crescere sempre e comunque un privilegiato.
    Mi disse che avrebbero inviato una fotografia e che da quel momento potevo considerare allacciato questo filo d’amore che univa il Niger con l’Italia.
    Allora cominciò il periodo dell’attesa, invero durato meno di nove mesi ma comunque interminabile.
    Quando arrivò la fotografia ridevo e piangevo insieme. Mio figlio era alto centododici centimetri e pesava diciannove chilogrammi. Ve lo immaginate? Indossava una tuta, pantaloni e felpa, leggermente piccola per lui che è lungo lungo. La cosa che mi fece sorridere amaro fu il disegno della maglia: tanti pneumatici in fila e dei giovanotti con caschetti, ginocchiere e rollerblate ai piedi che li saltavano. Ho sperato che qualcuno, dandogli la maglia, avesse spiegato a mio figlio cosa sono dei pattini a rotelle.
    Sono passati più di tre anni. Conservo con tenerezza le sue lettere. Prima solo disegni – la più vasta gamma di capanne nigeriane mai conosciuta – e qualche riga scritta dal missionario, poi veri pensierini scritti proprio da lui con grafia sempre più sicura. Mi manda baci e mi rassicura sul suo profitto scolastico e sulla sua salute e soprattutto dalle foto ora sorride – sopporta volentieri il disagio perché sa che le invieranno a me – sempre lungo ma con più ciccia.
    Alla fine di ogni anno scolastico, l’associazione fa in modo che mi venga inviata la sua pagella, e se qualcosa non va come dovrebbe ho le ansie di tutte le mamme che hanno a cuore gli studi del figlio.
    Nell’ultima lettera gli ho comunicato con emozione che la famiglia è cresciuta ancora: è arrivata una sorellina dallo Zambia, di quattro anni, si chiama Lunda, faccetta tenera e treccine nere. Spero sia felice per questo e che qualcuno mi aiuti a spiegargli che l’amore non si divide ma si moltiplica.
    Adottare un bambino a distanza ha un prezzo. La gioia che vi riempirà il cuore ad ogni lettera e ad ogni foto non ce l’ha.


    T e r z a
    p a g i n A


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