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    In Gesù di Nazaret, lo Spirito è tenerezza verso i più piccoli



    Luis A. Gallo

    (NPG 1998-04-08)


    Una «predilezione spirituale»

    Come abbiamo già rilevato precedentemente, sia pure di passaggio, nello svolgimento della sua attività in favore del regno di Dio, Gesù di Nazaret dimostrò di avere una particolare predilezione verso i più piccoli e deboli del suo popolo. Nel discorso inaugurale fatto alla sinagoga del suo paese, tale predilezione venne collegata espressamente da lui stesso all’unzione dello Spirito di Dio che lo permeava: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio» (Lc 4,18). Chi siano i poveri ai quali fa riferimento il testo è precisato in parte dal testo stesso, che continua dicendo: «per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi»; ma la vera precisazione viene da quanto egli stesso fece.
    Nella società del suo tempo c’erano diversi fattori che generavano grossi conflitti, dai quali derivavano umilianti emarginazioni e dolorose esclusioni. Nei confronti di tali conflitti lo Spirito lo spinse a comportarsi in un determinato modo, che si coglie in maniera molto evidente negli scritti evangelici.
    Uno di essi era di matrice prevalentemente religiosa. La thorà, ossia la Legge data da Dio attraverso Mosè come strada per la vita e la felicità del popolo e dei singoli suoi membri, era finita per convertirsi paradossalmente, con il passare del tempo, in un fattore di profonda divisione, e in definitiva di morte, tra due blocchi di persone. Infatti, quelli che la osservavano con grande zelo e devozione, soprattutto il gruppo dei farisei, si consideravano a questo titolo giusti davanti a Dio e, quasi come fatale conseguenza, finivano spesso per considerare gli altri, i non osservanti, i disprezzati, peccatori (Lc 18,9), come esclusi dall’eredità del regno e dalla benedizione divina; in una parola come maledetti da Dio (cf Gv 7,49). E questi ultimi ritenevano se stessi come tali, e quindi vivevano molte volte con quel peso sulla coscienza, un peso che li schiacciava e li faceva soffrire. Tra quelli che erano ritenuti peccatori, a prescindere dalla loro condizione personale, occupavano i primi posti gli esattori delle tasse e le prostitute; ma dopo di essi una lunga serie di altri uomini e donne venivano etichettati automaticamente come appartenenti alla categoria degli esclusi: i lebbrosi, i ciechi, gli zoppi, i pastori, i figli naturali fino alla ottava e nona generazione…
    Mosso da quello Spirito di fraternità che era amore appassionato per la vita di tutti, Gesù accolse questi peccatori con una tenerezza sconcertante, che non tardò a scandalizzare gli altri, i giusti. Le tre parabole di Lc 15,4-32, ma specialmente l’ultima, quella del figliol prodigo che torna a casa ridotto a un rudere umano e viene accolto con un amore incondizionato dal padre, provocando la reazione sdegnata del fratello maggiore, intendevano giustificare il suo operato davanti a coloro che criticavano il suo modo di comportarsi (cf Lc 15,1-3). È commovente seguire nelle narrazioni evangeliche questo modo sconvolgente di agire di Gesù, che finì per guadagnargli la fama di «amico dei pubblicani e dei peccatori» (Mt 11,19; Lc 7,34). La sua sensibilità per essi lo portò a invitarli a venire da lui per avere sollievo: «Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò», si legge nel vangelo di Matteo (Mt 11,28). Sono parole che riflettono certamente un suo modo costante di agire. È che, davanti alle folle «sperdute come pecore senza pastore», egli si sente toccato vivamente nelle sue viscere (Mc 6,34), ed esce incontro a loro pieno di tenerezza e di sollecitudine.
    Un altro fattore generatore di conflitto e di emarginazione era di tipo economico. Coloro che in Israele avevano in mano le ricchezze, e con esse anche il potere, finivano spesso per essere completamente insensibili verso gli altri, che costituivano la maggior parte del popolo. Non solo, più di una volta perfino li sfruttavano. Era il caso del re Erode e la sua corte, che viveva nell’opulenza e nello sfarzo senza nemmeno accorgersi della presenza del povero Lazzaro, il mendico che aspettava le briciole della loro mensa alle porte del palazzo (Lc 16,19-21); o il caso dei sommi sacerdoti del tempio, che trovavano nel Tempio, la «santa Dimora dell’Altissimo» (Sal 46,5; 68,6; 74,2), una consistente fonte di benessere, e la convertivano in un «covo di ladri» (Mt 21,13; Mc 11,17; Lc 19,46); o ancora il caso dei padroni delle terre coltivabili o dei grandi mercanti, che avevano abbondantemente assicurato il loro alto tenore di vita grazie al lavoro altrui o alla propria sagacia negli affari. Accanto ad essi le grandi folle vivevano spesso stentatamente, prive di sicurezza e perciò anche di vero benessere, a volte fino ai limiti della miseria.
    Anche davanti alla situazione di questi poveri Gesù s’intenerì. E perché lo muoveva uno Spirito di compassione verso di essi, diventò critico verso i ricchi egoisti ed indifferenti, sollecitandoli, come nel caso di Zaccheo, ad uscire dalla loro condizione di privilegio per andare incontro agli altri (Lc 19,1-10). Si vede che egli non sopporta una convivenza nella quale alcuni nuotano nell’abbondanza mentre gli altri patiscono privazione fino ai livelli più elementari della vita. Ha troppo a cuore la «vita in pienezza» (Gv 10,10) di tutti, e specialmente di quelli che ne sono più spogliati, per rimanere indifferente davanti a questo stridente contrasto.
    Un terzo fattore di conflitto era di natura socioculturale, e si radicava nella differenza sessuale tra uomo e donna. Una differenza che, come nella maggior parte delle società del tempo, aveva dato origine all’umiliante emarginazione delle donne. In Israele la donna era considerata alla stregua di un oggetto a servizio dell’uomo. Non godeva di diritti, ma era solo costretta a compiere dei doveri, ad assolvere dei compiti: procreare figli, di preferenza maschi, e accudire nei servizi domestici il marito e i figli. Una deteriore interpretazione dello statuto del «libello del ripudio», proveniente dai tempi antichi (Dt 24,1), aveva aggravato ancora di più la sua condizione assoggettandola alla volontà anche capricciosa e velleitaria del marito. Le discussioni intavolate tra gli avversari e Gesù circa il divorzio (Mt 19,1-9; 1-12) e circa la risurrezione dei morti (Mt 22,23-34; Mc 12,18-27; Lc 20,27-40) sono come una spia che permette di intravedere tale situazione.
    Ancora una volta Gesù si dimostrò sensibile di fronte a chi restava emarginato ed escluso. I suoi atteggiamenti verso le donne che incontrava o che lo seguivano sono di una impressionante novità se riferiti al contesto culturale: egli le accoglie nel suo seguito (Lc 8,1), le tratta con infinito rispetto (Lc 10,38-42), difende la loro dignità (cf Mt 19,8-9; Mc 10,8-9) e gliela restituisce quando l’hanno persa (Lc 7,26-50; Gv 8,1-11). Non lo si vede mai avvicinarsi ad una donna se non con un atteggiamento profondamente accogliente e rispettoso. Ne è un esempio emblematico il suo dialogo con la Samaritana (Gv 4,5-42), nel quale è precisamente l’acqua viva, simbolo dello Spirito, ciò che dà inizio all’incontro, un incontro che finisce con la piena restituzione della donna, per più di un motivo emarginata – era donna, era samaritana, era adultera – alla sua dignità. Non solo, ma col trasformarla in una entusiasta annunciatrice del Messia atteso.
    È interessante il fatto che, oltre ad agire in questo modo, Gesù abbia anche indicato tale modo come criterio definitivo per giudicare della maturità vera di una persona. Nel brano riguardante il giudizio finale, infatti, sono centrali queste sue parole: «In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose (dare da mangiare, da bere, visitare gli ammalati, i carcerati…) a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me», e, in forma negativa che toglie ogni dubbio: «In verità vi dico: ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l’avete fatto a me» (Mt 23,40.45).

    Dietro a Gesù, coloro che hanno assimilato il suo Spirito

    Le comunità nate attorno alla proposta di Gesù vissero, nella misura in cui si lasciarono muovere da quello stesso suo Spirito, secondo il criterio da lui enunciato con la condotta e con le parole. E, quando si lasciarono prendere da altri spiriti, lo abbandonarono.
    Solo a modo di esempio prendiamo il caso – purtroppo negativo, ma che può aiutare a capire le cose per contrasto – della comunità dei Corinzi, alla quale Paolo sentì il bisogno di rinfacciare l’inautenticità della celebrazione eucaristica. Con estrema determinazione l’Apostolo scrive loro: «Voi non celebrate la cena del Signore», anzi, ciò «che fate vi fa più male che bene» (1 Cor 11,20.17). Ed enuncia anche la motivazione del suo tagliente giudizio: «Quando vi radunate in assemblea vi sono tra di voi divisioni […], e ciascuno, quando partecipa alla cena, prende prima il proprio pasto, e così uno ha fame, l’altro è ubriaco» (1 Cor 11,19-21). Vi è, quindi, nella comunità, chi mangia e beve fino all’ubriachezza, e chi invece soffre la fame. Non è così che Gesù pensò i rapporti tra le persone, ma esattamente al contrario, ossia ponendo al centro dell’attenzione i bisogni dei più deboli ed emarginati.
    In un inno che la chiesa canta allo Spirito, gli viene dato, tra diversi altri titoli, quello di «padre dei poveri» (cf Sequenza della Pentecoste). Forse rispecchia un’esperienza più volte ripetuta nella storia bimillenaria della chiesa: ogni volta che si è verificato in essa un risveglio dell’attenzione privilegiata verso i più poveri, questo risveglio veniva associato al rifiorire della presenza viva dello Spirito. Basta pensare alla linfa «spirituale» infusa nella comunità ecclesiale da Francesco di Assisi e dai suoi seguaci. Pauperismo, nel buon senso della parola, e presenza viva dello Spirito sono andati sempre di pari passo nella vita della chiesa. È la logica del vangelo di Gesù, nel quale lo Spirito vivificante spinge ad occuparsi con particolare premura e tenerezza dei più deboli.
    Oggi, in un momento storico in cui la globalizzazione progressiva si accompagna a una povertà veramente planetaria, lo Spirito di Gesù sembra tornare alla ribalta. I numerosi movimenti e gruppi che si iscrivono nell’alveo del «rinnovamento nello Spirito» troveranno nell’atteggiamento sollecito di Gesù verso i più poveri, verso gli esclusi ed emarginati creati da una struttura economica impostata sul criterio del profitto ad oltranza, un criterio decisivo della loro autenticità.


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