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    L’uomo in festa



    Festa, religione e cristianesimo in una società secolarizzata

    Juan Martín Velasco

    (NPG 1998-03-28)


    Uno sguardo alla storia ci mostra come le religioni, nel corso dei secoli, abbiano costituito la matrice del fenomeno festivo, la sorgente alla quale si sono alimentate e da cui sono scaturite, nella loro enorme varietà, le feste. Oggi, invece, la religione sembra a non poche persone la guastafeste per eccellenza della gioia umana. La vita religiosa, in effetti, appare frequentemente come un terreno governato da norme, la cui attività sembra basarsi su un volontarismo ascetico, ambito per eccellenza della serietà.

    Il cristianesimo: festa o guastafeste?

    Questa apparente opposizione tra religione e festa tocca, nei paesi di tradizione cristiana, un cristianesimo che sembra aver perduto la propria dimensione festiva e si mostra per molti contrapposto all’allegria, all’entusiasmo e persino all’emozione. È vero che la religione e il cristianesimo continuano ad offrire la promessa di una salvezza definitiva. Però la loro apparente opposizione alla pratica festiva sembra far pensare che questa salvezza non abbia niente a che fare con lo sviluppo effettivo della vita, suscita la sensazione che essa rimanga al margine della vita stessa, che la salvezza abbia inizio oltre la sua fine mondana, con la morte.
    Forse per questa ragione Nietzsche, uno dei critici più radicali del cristiani, ci ha rimproverato soprattutto di non mostrare questa salvezza. E questo conflitto tra cristianesimo e festa è una delle più pericolose manifestazioni del presunto conflitto tra cristianesimo e realizzazione dell’uomo. Per questo motivo il superamento di tale conflitto è una necessità, se vogliamo la riconciliazione del cristianesimo con l’uomo dei giorni nostri. Una riconciliazione che diventerà effettiva soltanto quando i fatti dimostreranno che il cristianesimo può essere vissuto nel centro della vita, nell’intimo della storia, senza togliere a vita e storia niente del loro valore, anzi rigenerando in esse anche le fonti della gioia e dell’allegria che si esprimono in grande quantità nei comportamenti di festa.
    L’obiettivo delle riflessioni che seguono è mostrare le relazioni del fenomeno festivo con la religione e il cristianesimo, e indicare delle strade per il recupero della dimensione festiva nella vita dei cristiani in una situazione di secolarizzazione come quella dei giorni nostri. Sono consapevole del fatto che questo recupero non possa essere realizzato a colpi di decreti, e neppure di ragioni e conoscenze. Però canalizzare le caratteristiche e le funzioni del fenomeno festivo e mostrare le sue connessioni strutturali con la religione e il cristianesimo, può aiutare ad eliminare ostacoli molto radicati nella coscienza dei cristiani e allargare l’orizzonte culturale e religioso, permettendo in tal modo il rifiorire dello stile festivo tanto familiare all’esercizio autentico della vita cristiana.

    UNA DESCRIZIONE INTRODUTTIVA DELLA FESTA

    «Perché alcuni giorni sono più importanti di altri, se tutto l’anno la luce viene dal sole?» si chiede il Siracide. «È perché sono stati distinti nel pensiero del Signore, che ha differenziato le stagioni e le feste. Egli ha esaltato e consacrato alcuni di essi e ha reso gli altri giorni ordinari».
    Lasciamo da parte per adesso la risposta teologica dell’autore. Il fatto è che ci sono dei giorni «più importanti di altri», che alcuni giorni sono ordinari, mentre altri non lo sono. E questo, con una varietà meravigliosa di forme, sia nella vita personale come in quella collettiva; nel terreno religioso come nella vita profana; con le più diverse motivazioni: inizio dell’esercizio di una funzione, anniversario, conclusione di una tappa o di un’opera importante; e con i più svariati contenuti: una tradizione o un costume, lo scorrere dei cicli stagionali della natura, avvenimenti personali o familiari quali la nascita, l’inizio della pubertà, il matrimonio o la morte.
    Ci sono elementi comuni all’enorme varietà di feste? La fenomenologia della religione ne propone i seguenti.
    In primo luogo in tutte le feste si produce una rottura o interruzione del tempo «ordinario». I giorni festivi si indicano con il colore rosso, servono come pietre miliari che dividono lo scorrere del tempo e segnalano il suo orientamento; sono le «porte che aprono e chiudono i cicli settimanali, stagionali o annuali». L’interruzione, che la festa determina nel fluire del tempo, ha la sua manifestazione più importante nel fatto che alcune attività, quelle strumentali, quelle produttive, quelle volte al conseguimento di determinati effetti pratici, quelle orientate ad un fine vengono sostituite da attività espressive. Ciò che oppone le prime alle seconde non è il fatto di comportare o no uno sforzo, di presupporre o no un riposo, visto che ci sono feste che richiedono uno sforzo maggiore di quello che serve per i lavori quotidiani, e non poche volte dopo la festa abbiamo bisogno di riposo. Ciò che caratterizza il comportamento espressivo è che esso ha la sua ragione di essere in se stesso, si giustifica di per sé e si realizza attraverso la soddisfazione che produce. Le attività espressive, più che orientate ad un fine, sembrano come dotate di un senso.
    Un secondo tratto comune alle differenti feste è il loro carattere comunitario e frequentemente pubblico. I giochi – una attività associata molte volte a quella festiva per quanto ha di gratuito, libero, allegro, liberatorio – possono essere in alcuni casi solitari; la festa ha come unico soggetto possibile una comunità in cui l’espressività delle azioni si contagia, aggregando in tal modo coloro che la celebrano.
    Ogni festa è vox populi, voce del popolo, della comunità che si riunisce festivamente per parlare a se stessa di se stessa, per bocca della sua propria trasfigurazione festiva. La festa presuppone e realizza l’eccitazione, l’intensità comunicativa ed espressiva della comunità (Durkheim). La festa opera in tal modo una specie di trasfigurazione della realtà quotidiana, ordinaria, con tre riferimenti principali: la società o la comunità come soggetto, una forma peculiare di vivere il tempo e un cambiamento di attività.
    Per lungo tempo le feste sono state manifestazioni religiose. Testimonianze di ciò sono il testo citato del Siracide e, in un altro contesto, il tanto conosciuto e citato testo di Platone: «Nella loro pietà verso la nostra razza, naturalmente destinata alla sofferenza, gli dei hanno istituito, come pause in mezzo ai nostri lavori, l’alternanza delle feste che si celebrano in loro onore» (Le Leggi II, 653d). Le feste sarebbero dunque un regalo degli dei e si celebrerebbero in loro onore; vale a dire sarebbero manifestazioni della vita religiosa. È possibile che già prima della diffusione del processo di secolarizzazione le feste, con la loro capacità di sconvolgere l’ordine sociale, allora sacralizzato, e di capovolgere i ruoli sociali, costituissero, almeno temporaneamente, un fattore in certa misura desacralizzante.
    In ogni caso, l’estensione del processo secolarizzatore ha fatto comparire feste secolari. Sia perché si secolarizzavano feste che prima potevano essere vissute soltanto sacralmente, vista la presenza inglobante del sacro e la sua funzione di sanzione ultima, sia perché si istituivano rituali e celebrazioni pienamente secolari nel loro contenuto, motivazione e funzioni.
    Oggi coesistono feste religiose e profane senza che sia facile stabilire frontiere precise tra di loro. Così non poche feste identificate come religiose a volte contengono soprattutto elementi culturali, di tradizione popolare al servizio della identificazione della comunità.
    Altre, invece, identificate come profane, possono conservare non pochi elementi del contesto religioso da cui derivano.
    Qui di seguito ci riferiremo alla festa dell’uomo religioso. Offriremo una descrizione della festa religiosa, anche se alcune delle sue caratteristiche possono essere applicate anche alle feste profane.

    Festa e religione

    La festa è senza dubbio una manifestazione che caratterizza la condizione umana di coloro che la vivono. Esiste un homo faber che si distingue per la sua abilità nella utilizzazione intenzionale di strumenti; esiste un homo ludens (Huizinga) che si caratterizza per l’introduzione della gratuità nei propri comportamenti; esiste inoltre un homo celebranshomo festus lo chiamano altri – che introduce nei comportamenti animali la dimensione simbolica che appartiene ai comportamenti celebrativi e segna il superamento della soglia caratteristica dell’umanità. Per questa ragione è stato possibile definire con ragione l’uomo come animale simbolico (Cassirer) o animale festivo. L’animale è capace di intelligenza e di abilità strumentali; l’animale è capace di giocare; soltanto l’uomo celebra, solo lui è festivo.
    Però questo tratto caratteristico dell’umano è comparso nella storia strettamente legato a quell’altro fenomeno, più ampio, caratteristico dell’uomo, che è il fenomeno religioso. Di fatto le feste sono presenti in tutte le religioni. Lo diceva lo stesso Proudhomme: «Senza culto e senza festa non c’è religione» (J. Vidal). E allora qual è il luogo dove la festa si incontra con il fenomeno religioso? È risaputo che quel che meglio caratterizza il fenomeno religioso è la varietà delle proprie forme e la complessità di ognuna di esse. Partendo da questa varietà e dai molti elementi che si ritrovano in ogni religione, la fenomenologia costruisce la struttura ideale che mette in risalto le caratteristiche comuni a tutti i fenomeni, ordinandole per cercare di individuarne il significato. Senza entrare nei dettagli, il nucleo centrale della struttura della religione è il rapporto dell’uomo, in termini di riconoscimento, adorazione, abbandono, fede, obbedienza, sottomissione, con una realtà superiore e anteriore all’uomo stesso, trascendente e immanente alla sua vita, che le diverse religioni configurano come il divino, il sacro, gli dei, o un dio con un nome proprio, come succede nei differenti monoteismi. Il carattere trascendente di questa realtà superiore e la condizione mondana, fisica e oggettiva dell’uomo, originano un nuovo elemento nella struttura della religione: le mediazioni attraverso cui si rivela all’uomo la realtà trascendente e nelle quali il soggetto vive ed esprime la presenza costituente a cui risponde con la propria vita religiosa. Le mediazioni, nel loro versante soggettivo, sono il risultato della «diffrazione» nella condizione poliedrica dell’uomo, del raggio di luce che produce la presenza di Dio nella sua vita e a cui risponde la vita religiosa. Così il soggetto religioso esprimerà la presenza del Mistero nella sua condizione spaziale, originando gli spazi sacri; nella sua condizione razionale, costituendo in tal modo le dottrine sacre in tutte le loro versioni e livelli; nella sua condizione attiva, producendo culti, riti e preghiere presenti in tutte le tradizioni religiose; nella sua condizione emotiva, creando i sentimenti religiosi. Dunque le feste sono il risultato dell’espressione della presenza del divino nella dimensione temporale del soggetto, soprattutto quando questi è un soggetto plurale, una comunità o una società religiosa.
    In effetti l’uomo esiste soltanto temporalmente distendendosi – Sant’Agostino definisce il tempo quaedam distensio animae, una distensione di se stessi – nel divenire della durata. Il tempo è il luogo per eccellenza della coscienza della fragilità, della fugacità, della caducità, vale a dire dell’essere finito. Nella coscienza di sé nel tempo, l’uomo fa esperienza della sua entropia temporale; vale a dire vive l’esperienza di poter continuare ad essere soltanto a condizione di smettere di essere. A questa esperienza della propria radicale caducità l’uomo religioso risponde con la necessità di gettare l’àncora in ciò che è stabile, di porre rimedio alla fugacità del suo essere entrando in contatto con l’eternità. La festa è proprio il momento della comunicazione tra il tempo esemplare, il «tempo» di Dio, dell’eternità, e il tempo precario proprio della condizione umana, per permettere a questa il dominio della sua precarietà. Con la festa l’uomo conferisce stabilità e consistenza alla fugacità della propria vita, impedendo che questa si trasformi in pura perdita dell’essere.
    Come diceva G. Dumézil, la «festa può essere descritta come il momento e il procedimento per cui ‘il gran tempo’ e il tempo ordinario comunicano, poiché il primo si svuota di una parte del proprio contenuto nel secondo, così che gli uomini, grazie a questa osmosi, possono agire su esseri, forze e avvenimenti che riempiono il primo».
    Così dunque la festa si integra nel vasto e completo fenomeno religioso come una delle mediazioni in cui si vive e si esprime la presenza del mistero e la risposta dell’uomo a questa presenza attraverso la dimensione temporale dell’uomo e della sua esperienza della durata. Partendo da questa «ubicazione» della festa nel mondo religioso diventa più facile procedere nella descrizione della sua struttura.

    ALCUNI TRATTI FONDAMENTALI DEL FENOMENO FESTIVO

    La festa costituisce, dunque, prima di qualunque altra cosa, una forma peculiare di vivere la temporalità umana nella quale si cristallizza quella componente del fenomeno religioso, ben conosciuto dalla fenomenologia della religione, che viene denominato tempo sacro. Come in altri aspetti della descrizione del sacro, anche in questo la maniera più semplice di mostrare la propria peculiarità irrinunciabile da parte del tempo sacro, è la sua comparazione con l’esperienza del tempo vigente nel mondo e nella vita di ogni giorno, che viene denominato tempo profano. Questo è un tempo omogeneo e per questa ragione misurabile quantitativamente partendo dall’unità di movimento che si prende come parametro. Il tempo sacro è, invece, un tempo qualificato, in cui rientrano giorni favorevoli e sfavorevoli, fasti e nefasti, momenti indifferenti e momenti di grazia (kairoi). Il tempo sacro è il tempo come luogo della salvazione e della possibile perdizione. Il tempo profano è irreversibile, irrecuperabile. Pieno di azioni utili che gli conferiscono il proprio valore: acquisizione di beni, affari, esercizio di funzioni. È il tempo utile, il tempo di ciò che è strumentale. Il tempo sacro, invece, sottratto a questo tipo di azioni, è un tempo originario – rappresentato attraverso i miti che narrano gli avvenimenti edificanti accaduti oltre la storia, in illo tempore, o attraverso i racconti della storia sacra (M. Eliade, M. Mauss) – che ha la possibilità di attualizzarsi, farsi presente nel trascorrere della vita, per conferirle vigore ed efficacia.
    Il tempo sacro ritma, distribuisce, ordina e orienta il tempo profano. È così che si spiega l’origine religiosa dei calendari. È pieno di date critiche. Apre il tempo profano a qualcosa che sta oltre il mondano e la sua durata. Il tempo sacro è pieno di «adesso» decisivi che segnalano l’irruzione nella vita mondana di ciò che sta oltre, e in tal modo conferiscono a questa spessore e significazione metamondana: «Adesso i miei occhi ti hanno visto» (Gb 42,5).
    La festa costituisce inoltre, come tutte le mediazioni religiose importanti, un fatto umano integrale, in cui cioè intervengono tutti gli aspetti e dimensioni dell’essere umano, messi in moto dall’al di là che essi tutti cercano di esprimere, con cui però nessuno riesce a coincidere. Nelle feste interviene la comunità, si attualizza la memoria collettiva della tradizione, si rendono presenti gli antenati. Nelle feste si attiva l’immaginazione creatrice; si esprime vitalmente il sentimento e la capacità di emozione; si coinvolge in mille modi la dimensione fisica nell’incredibile varietà dei gesti festivi. Nella festa interviene anche la ragione con i miti e i racconti che vengono ricordati e attualizzati. In tutti i rituali festivi ci sono occasioni di attualizzazione di quella estensione della fisicità umana che è la relazione immediata, «carnale», con il cosmo e i suoi cicli, ritmi, cambiamenti. Nella festa si mettono in moto le quattro dimensioni della corporeità umana, che sono il corpo della tradizione e della storia, quella della relazione sociale, quella del riferimento al cosmo e quella della fisicità soggettiva, in cui tutte le altre dimensioni convergono. La festa è davvero l’evento umano totale. In essa si manifesta tutto l’uomo e quel qualcosa in più che abita dentro di lui, che l’uomo religioso identifica come il numinoso, il divino, e che è ciò che in definitiva trasforma in festivi i gesti espressivi, ludici che popolano la festa stessa. Questa in definitiva è la chiave per la comprensione della festa, il tratto caratteristico che ne permette l’identificazione.
    Lo stesso Huizinga, che riduce il culto – sintesi dei gesti festivi – al gioco, riconosce che nel culto è presente «un elemento spirituale molto difficile da definire». Basandosi su questo elemento preciso, altri teorici della festa, del culto e della liturgia – Kerenyi, Jensen, Guardini, H. Rahner – distinguono il gioco dalla festa. «Perché si abbia attività di culto, dirà per esempio Kerenyi, è necessario che a tutti gli elementi a cui si alludeva in precedenza si aggiunga qualcosa di divino grazie al quale l’impossibile diventa possibile; e l’uomo si vede elevato a un livello in cui tutto è come il primo giorno: luminoso, nuovo, originario; in cui si sta con gli dei e uno diventa divino, in cui soffia un alito vivificatore e si prende parte alla creazione. Questo è ciò che costituisce l’essenza della festa» (Kerenyi, J. Pieper, Kox).
    Questo elemento dell’evento festivo spiega un altro dei suoi tratti caratteristici. La festa è l’ambito della gratuità. Gli uomini religiosi vivono i momenti festivi come doni. Li riferiscono a Dio, come faceva l’autore del Siracide o, come faceva Platone, agli dei, che ne sono considerati la fonte. Per questa ragione i rituali festivi non sono il risultato di una decisione umana, né il frutto di una convenzione sociale. Le feste sono istituite: partono da una istanza superiore e anteriore a coloro che vi partecipano. E questa istituzione le sancisce e conferisce loro il proprio valore ed efficacia. Come riflesso di questa gratuità, si osserva nel comportamento festivo religoso un tratto caratteristico che compare anche nelle feste profane: la spontaneità, propria del comportamento espressivo, il loro nascere in modo libero e creativo, cosa che non esclude affatto la preparazione minuziosa che renderà poi possibile la libera ispirazione, così come succede nella danza, nella interpretazione musicale, ecc. (Pieper, Guardini).
    Quest’ultima caratteristica ci suggerisce un’altra peculiarità dell’evento religioso: la pletora di significati, l’intensità di sentimenti che la festa implica. Come tutte le mediazioni religiose, la festa riflette l’armonia di contrasti caratteristica del sacro: entusiasmo ed eccesso insieme a serenità e armonia; allegria traboccante e una certa gravità; spontaneità e ordine rigoroso.
    Passiamo adesso da questi tratti generali ad alcuni aspetti concreti dello sviluppo dell’evento festivo. Tutte le feste comportano, come uno dei loro elementi indispensabili, un rito di ingresso, che facilita la rottura di livello indispensabile per l’esperienza del sacro. Questo rito permette alla comunità che lo celebra di passare dal tempo della produzione e del consumo, dell’utilità e della dispersione, a quello dell’aggregazione, dell’elevazione, del sommamente importante e del gratuito. Nasce da ciò la necessità di chiudere con il vecchio: spegnimento di fuochi, eliminazione di prodotti lievitati; e di preparare le feste con vigilie e penitenze, purificazioni e pulizie generalizzate di persone e luoghi.
    Nella feste si opera inoltre un mutamento dell’essere di coloro che intervengono, che si esprime attraverso abiti nuovi, uso di ornamenti, maschere e costumi. Allo stesso tempo esse determinano il cambiamento di attività, l’interruzione del lavoro produttivo, l’inversione dei ruoli dei soggetti rispetto alla vita di tutti i giorni.
    In quasi tutte le feste si produce un fatto strano, sul quale hanno richiamato l’attenzione le migliori descrizioni delle festa: la trasgressione delle proibizioni e dei tabù e il consumo sproporzionato, lo sperpero che le accompagna. Per quanto riguarda il primo, esso presuppone una forma ulteriore di negazione della vita ordinaria. In effetti si tratta di un eccesso permesso, regolato, della «violazione solenne di una proibizione» (R. Caillois). La spiegazione più soddisfacente della trasgressione festiva potrebbe essere la seguente: il sacro stabilisce le norme che regolano la vita della società per mezzo di una serie di proibizioni che hanno la funzione di impedire l’irruzione del sacro nella vita di tutti i giorni. Ebbene, la festa recupera la presenza del sacro togliendo quei recinti di protezione e rendendo possibile ai suoi partecipanti di vivere una situazione di esaltazione e di eccitazione nella quale si condividono intensi sentimenti comuni. Tali sentimenti sono alimentati con mezzi e azioni differenti quali il rumore intenso e continuato: suono di tamburi, abbondante uso di fuochi d’artificio; intensi movimenti del corpo, danze, lotte, spostamenti; eccessi di cibi e bevande. Però si tratta di una «violazione regolata» e non di una semplice forma di disinibizione o di liberazione degli istinti. Infatti l’eccesso è sottomesso a regole precise ed è limitato nel tempo.
    In quanto al secondo elemento, lo sperpero o il consumo eccessivo, esso svolge una delle funzioni più importanti della festa: quella del consumo di tutte le riserve fisiche, psichiche ed economiche. Esiste infatti una accumulazione psichica di prodotti dell’immaginazione, di fantasmi, di desideri «contenuti», a causa della «convenienza» sociale, delle esigenze della realtà, e la festa offre l’occasione per il consumo di tali riserve attraverso l’eccesso e la trasgressione, liberando le persone da una pressione eccessiva e permettendo loro di eliminare la tensione che la vita sociale origina. Oltre che per l’ordine sociale, la festa è servita, soprattutto in società che non conoscevano il reinvestimento, per il consumo dei beni accumulati: un consumo che mette gli eccessi di beni a disposizione di tutti, attraverso lo scambio di doni e regali, stringendo così i legami sociali e rinforzando il prestigio delle persone grazie all’ostentazione dei doni offerti. Con questa distribuzione di beni la società in festa e il soggetto che celebra cercano soprattutto la rigenerazione delle proprie energie che il passare del tempo sottomette a un deperimento costante. La festa diventa in tal modo un rimedio contro l’entropia temporale. Da ciò deriva la necessità di ripetere i modelli originari. Con la festa l’uomo interrompe l’inevitabile declino della vita. È un mezzo collettivo di recupero dell’essere, che è sottomesso dal tempo a un deterioramento inesorabile. Da ciò deriva la funzione ontologica della festa che con assoluta chiarezza manifestano i rituali dell’anno nuovo, grande esperienza del ricominciare, di un generale «punto e a capo» per il gruppo che lo celebra. Tutto ciò è espresso esaurientemente con il detto: «anno nuovo, vita nuova» che utilizziamo convenzionalmente per ogni festa dell’anno nuovo (M. Eliade).
    Per finire, ritorniamo su un tratto caratteristico della festa a cui si è già fatto riferimento. La festa è azione della comunità religiosa. Per questo nella celebrazione festiva tutti partecipano attivamente. Nella festa non ci sono semplici spettatori, come succede per gli spettacoli.
    Tutti si sentono protagonisti, anche se con funzioni diverse. Per questo motivo la festa produce nella sua forma più efficace la coesione della collettività che la celebra (Durkheim).

    LA FESTA CRISTIANA

    I tratti caratteristici descritti come tipici della festa religiosa compaiono con chiarezza in numerose feste dei cristiani. Però possono tali elementi essere considerati cristiani, sono almeno compatibili con ciò che è cristiano? O sono, al contrario, elementi precristiani che hanno contaminato il cristianesimo nel corso della sua storia?
    I testi cristiani mostrano palpabilmente la tensione che dà origine nel cristianesimo all’evento festivo. Da una parte, esempio di una specie di incompatibilità con l’evento festivo, almeno nel modo in cui si manifestava nel paganesimo, leggiamo in una lettera di San Paolo: «Voi infatti osservate giorni, mesi, stagioni e anni... Temo per voi che io mi sia affaticato invano a vostro riguardo» (Gal 4,10; Col 2,16). Dall’altra parte lo stesso San Paolo, riferendosi al mistero centrale del cristianesimo, lo formula in termini di culto e festivi quando scrive: «Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato... celebriamo la festa con azzimi di purezza e verità» (1 Cor 5,8).
    Testi come questi ci offrono gli elementi fondamentali per situare la festa, elemento della vita religiosa, nell’intimo del cristianesimo. Anche il cristiano ha bisogno di vivere la propria relazione con Dio servendosi di mediazioni e, tra queste, la festa. La novità religiosa del cristianesimo origina la conseguente novità delle mediazioni religiose accolte dal cristianesimo e, come manifestazione della stessa, la novità della festa cristiana.
    Come sempre quando cerchiamo il centro dell’originalità religiosa del cristianesimo, dobbiamo rifarci a ciò che costituisce la sua ierofania centrale: Gesù di Nazaret, Cristo e Signore, in cui Dio si è rivelato in maniera definitiva, e grazie al quale noi uomini abbiamo ottenuto la riconciliazione con Dio per mezzo del dono del suo Spirito. Da ciò derivano tutti i tratti che tracciano il profilo religiosamente originale del cristianesimo, da ciò nascono gli elementi che tratteggiano l’originalità della fede cristiana.
    Le feste delle religioni, nelle quali le mediazioni sono prese dal cosmo come luogo da cui sorge la vita, appaiono legate quasi nella loro totalità alla natura e ai fatti che marcano il suo divenire ciclico: inverno, primavera, semina e raccolto, terra e vegetazione. Nelle feste si commemora e attualizza il rinnovarsi della natura mediante il rinnovamento di alcuni avvenimenti originari, che successero ai margini della storia nel tempo primordiale – in illo tempore – dei miti.
    Con Israele e la sua fede nel Dio creatore che stabilisce un’alleanza con il suo popolo finalizzata ad una scadenza precisa, il giorno di Jahvè, in cui si consumerà la vita, il tempo si storicizza, si orienta dalla creazione all’escatologia, organizzandosi partendo dai successivi interventi di Dio che marcano il tempo degli uomini. In questo contesto le feste subiscono una trasformazione importante. Da celebrazione del corso ciclico della natura si trasformano in ricordi e attualizzazioni degli interventi di Dio, in elogio dei magnalia Dei, delle sue opere meravigliose in favore del popolo.
    La storicizzazione dell’azione di Dio si accentua e approfondisce nel cristianesimo con la fede nell’intervento definitivo di Dio nella storia di Gesù Cristo. Da questa fede, le feste acquistano accenti nuovi. Rimandano al «centro del tempo», attualizzano la presenza di Dio in Gesù Cristo, la sua vittoria definitiva sulla morte. La tensione escatologica, presente in una certa misura in tutte le religioni e celebrata in tutte le feste, comincia ad avere un sostegno: la realizzazione della consumazione già accaduta, già iniziata in Gesù Cristo. Anche per questa ragione ogni festività e tutta la ritualità cristiana hanno la propria fonte e il proprio culmine nella celebrazione dell’Eucaristia: anamnesi e anticipazione della morte e resurrezione di Cristo, in cui la Chiesa fa memoria attualizzatrice della Pasqua del Signore – «nella notte in cui fu tradito»... e «nell’attesa della sua venuta» – nell’oggi di coloro che la celebrano.
    La personalizzazione della religione, che porta con sé il fatto che la ierofania centrale del cristianesimo è la vita di Gesù, si ripercuote sulla personalizzazione dell’insieme delle mediazioni. La persona e la propria vita diventano la mediazione principale e il criterio di tutte le altre: il sabato è per l’uomo; dal tempio esteriore si passerà al tempio di Dio, che è l’uomo; da adorare Dio su un monte o sull’altro ad adorarlo in spirito e verità. Importante non saranno i sacrifici rituali bensì la propria vita come sacrificio gradito a Dio. Questo movimento di interiorizzazione e di concentrazione sulla persona delle mediazioni culturali non significa, tuttavia, l’abolizione del cultuale e del festivo, bensì la loro purificazione, per adeguarli alla specificità cristiana. Questa nuova comprensione del culturale presuppone un nuovo modo di vivere alcuni dei tratti caratteristici dell’evento festivo. La festa non significa, per esempio, l’uscita dal tempo profano e l’instaurazione di un mondo parallelo a quello in cui si svolge la vita reale delle persone. È, piuttosto, l’attualizzazione nel tempo ordinario della Presenza che dà senso alla storia e che salva la comunità. Nella festa diventa reale ed effettiva la trasformazione del mondo e della società che l’irruzione del Regno di Dio comporta. Da ciò deriva il potere liberatorio della festa cristiana che alcune descrizioni attuali della stessa sottolineano (J. Moltmann, R. Schutz).
    Però quando si sottolineano, come abbiamo appena fatto, i tratti originali delle feste cristiane, sorge inevitabilmente la domanda sul perché allora tra molte di loro e le feste «profane» ci siano somiglianze tanto significative da far pensare quasi ad una sorta di assimilazione. La risposta è, senza dubbio, nella inculturazione del cristianesimo in molte popolazioni con una vita religiosa precristiana che ha portato all’assimilazione, da parte del cristianesimo, di questo substrato festivo, senza che in molti casi si determinassero le necessarie trasformazioni.
    D’altra parte in non poche occasioni determinate manifestazioni della festività popolare potrebbero essere state il risultato della reazione del popolo contro una ritualità e una festività ufficiali, lontane dalla propria sensibilità e incapaci di rispondere alle proprie «necessità» religiose.
    Però la riflessione sulla festa, compresa quella cristiana, produce spesso una sensazione di arcaismo, di nostalgia di qualcosa magari bello però definitivamente superato. Si ricava l’impressione che si tratti di un oggetto per ricordare, di una specie di museo di azioni tradizionali che perdurano in determinati luoghi e che i turisti e gli studiosi visitano, come succede con altre manifestazioni del folclore di una regione ricca di storia. Ne deriva che una riflessione attuale sulla festa non può fare a meno di contenere domande sulle condizioni della festa dell’uomo moderno.

    La festa cristiana nelle società moderne

    Senza soffermarci qui a spiegare il significato che diamo alle categorie della modernità e della postmodernità, ci limiteremo a segnalarne l’influenza sull’esperienza del fenomeno festivo.
    La modernità ha introdotto, in primo luogo, una forma mentis, una maniera di pensare, caratterizzata dal ricorso al pensiero scientifico come strumento principale di analisi e di spiegazione degli eventi, e dall’estensione del pensiero autonomo, che elimina la soggezione alle tradizioni. È un fatto che il pensiero scientifico opera una specie di disincantamento della visione e della spiegazione della realtà, e sostituisce la relazione soggettiva, calorosa, «carnale» con il mondo, tipico della mentalità dell’homo celebrans, con una visione quantificatrice, oggettiva e «astratta» del mondo che rende molto difficili nella pratica i comportamenti festivi.
    La modernità ha introdotto, inoltre, una relazione con la realtà centrata sulla preoccupazione tecnica, vale a dire sul dominio della natura, con l’intento di ricavarne il maggior vantaggio possibile mediante lo sviluppo del lavoro industriale, figlio della stessa tecnica. Tale attività comporta l’eliminazione della capacità contemplativa, l’allontanamento dalla natura. La conseguenza è la meccanizzazione e parcellizzazione del lavoro, l’instaurazione di ritmi accelerati di produzione che rompono quel gemellaggio dell’uomo con la propria opera tipico del lavoro artigianale, il quale invece «favoriva una permeabilità metafisica..., che conferiva al mondo dell’uomo profondità e mistero», e creava il clima favorevole per lo sviluppo dei comportamenti festivi. D’altra parte la modernità ha sviluppato l’individualismo ad oltranza, conseguenza della massificazione e del predominio dell’interesse, che diventa il metro della condotta dell’uomo. Un individualismo che domina in tutte le aree della vita e che rende praticamente impossibile la costituzione di quel «noi» che è il soggetto di tutte le feste. Basti pensare alla sostituzione della comunicazione «bocca a bocca» e nelle piazze pubbliche delle società tradizionali con la comunicazione per mezzo delle onde che ognuno capta per proprio conto; e alla sostituzione della partecipazione personale, caratteristica di tutte le feste, con la captazione, il consumo individuale di suoni e immagini, a distanza, che avviene in maniera silenziosa e statica.
    Inoltre l’organizzazione capitalistica del lavoro e della produzione nella modernità hanno allargato il cerchio della produzione, dell’investimento, del profitto e del consumo, che domina lo sviluppo in tutte le attività della società. Tutto si svolge infatti in funzione del profitto. Il tempo stesso è oro. Il riposo è funzionale al lavoro e alla produzione: è un riposo restauratore di energie. Una tale organizzazione della vita elimina da questa la possibilità della gratuità, elemento chiave dell’evento festivo.
    Per ultimo e come conseguenza di tutto ciò, la società e la cultura moderne hanno desacralizzato la realtà, il mondo e la società. Tutto ha perso il suo incanto; ha perso la capacità di riferimento a un qualcosa che sta oltre se stesso; è stato privato della dimensione di profondità; è rimasto visibile soltanto ciò che è verificabile. In questa situazione il sacro sparisce dall’esperienza umana, almeno nell’ambito sociale. La religione, se perdura, sarà nell’intimo della coscienza, come qualità socialmente invisibile. In tali condizioni che cosa può rimanere della festa, che è giustamente la visualizzazione della religione nella sfera pubblica, nella vita sociale?
    Tutti questi fattori modernizzatori sembrano ricondurre all’eliminazione dell’evento festivo. Di fatto non pochi dati sembrano confermarla. La festa sembra trasformarsi ogni volta di più in vacanza. I giorni si dividono sempre più in lavorativi e non lavorativi, più che in festivi e ordinari. La vacanza, però, si distingue bene dalla festa. È caratterizzata in realtà dall’interruzione delle sgradevoli condizioni di vita che il ritmo lavorativo impone. Dalla ricerca sfrenata della gioia di vivere, in contrapposizione alla gratuità dell’allegria espressiva della festa. La vacanza si trasforma in un vuoto esistenziale che bisogna riempire con innumerevoli attività che in alcuni casi portano soltanto ad «ammazzare il tempo». Che cosa ha a che fare questa esperienza depauperata del tempo umano con la pienezza debordante del tempo festivo? È da questo che nasce la noia di tante vacanze e la necessità di instaurare una civiltà dell’ozio. Un libro del 1962 aveva come titolo significativo Giorno di festa, giorno di noia. Le vacanze accuratamente programmate o «consumate» dall’offerta ogni giorno più varia di un ramo specializzato dell’industria, finiscono frequentemente per isolare i soggetti in mezzo alle masse – vere moltitudini solitarie – dei consumatori del sole, di paesaggi, di monumenti e «cultura», facendone soggetti passivi di uno «spettacolo» interpretato da altri. L’ozio non è infatti né festa né ricompensa del lavoro. Non è l’attività libera che si esercita per se stessa, è lo spettacolo generalizzato: audiovisivo, turistico. Spettacolo che invece della partecipazione attiva a cui spinge la festa, invita alla pigrizia, alla passività e livella coloro che vi assistono.
    È sufficiente confrontare questi tratti per rendersi conto della distanza che separa il fenomeno della vacanza tipico delle società moderne dal fenomeno festivo delle società tradizionali. Tutto ciò potrebbe spiegare la crisi evidente che vivono i resti della festività cristiana: crisi della pratica dei culti, delle celebrazioni tradizionali di Natale e di Pasqua, e l’assorbimento di queste ultime da parte del consumismo di massa, di cui esse diventano una semplice occasione, un mero pretesto.

    Un recupero postmoderno della festa?

    Però non mancherà chi pensa che questa descrizione, riferendosi principalmente alla modernità, non tenga conto del superamento delle caratteristiche che abbiamo sottolineato ad opera di quella diffusa modalità d’essere che denominiamo postmodernità. Come in tanti altri aspetti, anche nel festivo la postmodernità pare stia sottoponendo a una revisione profonda la crisi avviata dalla modernità. Indizio di ciò sarebbe il fenomeno più ampio del ritorno del sacro e del suo pullulare in forme selvagge (R. Bastide). Così, ad esempio, determinati recuperi di feste arcaiche, tradizionali, come mezzo per il mantenimento e la preservazione dell’identità nazionale o locale; la reinvenzione di feste religiose più o meno folclorizzate; e anche le «feste per sostituzione»: feste politiche, di sacralizzazione del potere o di esaltazione rivoluzionaria e libertaria (Gil Calvo); feste civili di una religione civile, espressione della necessità di avvolgere la vita personale e sociale in un sistema di simboli.
    È stata a ragione segnalata l’esistenza di una «contraddizione culturale» della modernità, come del capitalismo (D. Bell, Gil Calvo), secondo cui il progresso economico, l’elevazione del livello di vita e del consumo renderebbero impraticabili la morale, le abitudini di vita che avevano reso possibile la modernità stessa: etica del lavoro, ascetismo, responsabilità professionale, risparmio, che verrebbero sostituiti con l’etica del piacere e del consumo e con l’edonismo, che metterebbero in pericolo la continuazione dello sviluppo. La cultura postmoderna dell’ozio verrebbe così a sostituire la cultura moderna del lavoro, e la festa ritornerebbe ad avere un posto nella società, dopo essere stata emarginata dalla modernità.
    Però non conviene confondere l’ozio con la festa. Lo svuotamento dei riferimenti al trascendente, caratteristico della postmodernità come della modernità, sta dando luogo a qualcosa di molto diverso dall’evento festivo tradizionale. Esiste, infatti, un «attivismo panludico» che cerca di riempire il vuoto lasciato dal lavoro; c’è la «festa del consumo» (Wunenburger), che ha i suoi templi nei supermercati; esiste una fuga dalla realtà con le vacanze e anche il tentativo di «aureolare» tutto ciò con una mitologia festiva: terre vergini, perdersi in luoghi paradisiaci. Però tutto questo fenomeno nel suo insieme è forse una contraffazione dell’evento festivo e l’espressione delle carenze che ha prodotto nell’uomo l’aver rinunciato ad esso. Anche se può magari indicare la direzione per il suo recupero.

    Verso una riscoperta della festività cristiana

    Non credo sia necessario insistere sulla crisi della festa cristiana. Alle ragioni esterne di tale crisi, ragioni di carattere socioculturale a cui abbiamo fatto riferimento, se ne possono aggiungere altre interne allo stesso esercizio della festività cristiana. Ricordiamo soltanto il legalismo, che si è imposto con frequenza sulla celebrazione della festa cristiana, ed ha fatto prevalere, come motivazione decisiva, il compimento di un precetto; l’individualismo che ha prevalso nell’esercizio del culto; l’utilitarismo che ha fatto sì che lo si intendesse come fonte di meriti personali. Il grave di tutti questi fraintendimenti e riduzioni della festività cristiana è che hanno corrotto la sua pratica permettendo che sussistesse un culto che, separato dalla festa della quale è espressione, diventava un succedaneo di essa.
    Insieme a queste ragioni hanno influito in maniera decisiva nella crisi di quel resto inerte dell’evento festivo che era il culto snaturalizzato, l’esoterismo delle sue espressioni, l’anacronismo della sua ritualità e la quasi esclusiva funzione a cui si era ridotto, quella di illustrare le dottrine e le verità di una fede eccessivamente razionalizzata. È un dato di fatto che il cristianesimo, che attraverso le sue feste ha saputo creare cultura in altre epoche della storia, non ha saputo continuare a farlo dopo la crisi della secolarizzazione della società. Il cristianesimo, che per sua natura era chiamato ad esprimersi in tutte le culture, sembra non riuscire a trovare il cammino della riconciliazione con la cultura moderna e della incarnazione delle sue manifestazioni.
    Per questa ragione la riscoperta della festività cristiana non può essere ridotta a sforzi congiunturali, come la proposta di nuovi rituali. Esige tutto uno sforzo di riscoperta della spiritualità cristiana e di incarnazione della stessa nelle forme espressive caratteristiche della nostra cultura. Però, d’altra parte, bisogna segnalare che quest’ultima, vale a dire l’incarnazione sociale e culturale del cristianesimo nella cultura dei nostri giorni, sarà effettiva soltanto quando noi cristiani saremo capaci di vivere la festa cristiana con le risorse della cultura moderna e postmoderna.
    Per riuscirci mi sembra indispensabile, in primo luogo, ricreare le condizioni che la rendono possibile. E la prima è senza dubbio l’esistenza di comunità cristiane credenti che siano spinte dalla fede ad esprimere spontaneamente, creativamente, la presenza di cui tale fede vive, con i mezzi che offre loro la vita, la loro presenza e azione nel mondo e nella società in cui vivono. Si tratterà inoltre di riscoprire la trascendenza attraverso la sua rivelazione nel nostro mondo, riconoscendo i segnali della sua presenza, ascoltando i rumori del suo passo, seguendo la pista dei valori attuali nei quali lascia traccia.
    Partendo da questo recupero della dimensione teologale delle comunità cristiane incarnate nel mondo in cui è toccato loro vivere, sarà possibile realizzare la proposta di inculturazione del cristianesimo di cui le nuove feste cristiane saranno – come è stato in altri tempi – una splendida manifestazione. Perché inculturazione non significa rivestire del vestiario della propria cultura una fede vissuta al margine di essa. Significa molto più vivere ed esprimere, come momenti indissolubilmente uniti, la vita credente realizzata con l’unica materia possibile, quella che ci offre la società, la storia e la cultura in cui viviamo.
    Partendo da una fede inculturata in questo modo, la festa cristiana non necessiterà della creazione artificiale di nuovi simboli. Però ancor meno si potrà vivere mantenendo artificialmente i simboli antichi solo per il fatto che ci sono e che sono sanzionati. Recuperata la dimensione simbolica dell’uomo partendo dall’esperienza della fede da parte delle comunità, queste potranno scoprire simboli vivi della Trascendenza in tutti gli aspetti della vita: la relazione con la natura, la storia collettiva e personale, la tradizione culturale, le nuove scoperte; e vivranno in maniera tale che la loro vita fiorirà in una nuova e permanente festa.

    PEDAGOGIA DELLA FESTA: PRINCIPI PER IL RECUPERO DELLA DIMENSIONE CELEBRATIVA DELLA FESTA

    Può sembrare paradossale parlare di pedagogia per un fatto che ha molto di esplosione e di gratuità. Però forse non sarà inutile ricavare dalla descrizione precedente della festa alcune conclusioni pratiche orientate a facilitare la riscoperta della dimensione festiva della vita cristiana e la sua concreta realizzazione da parte delle comunità credenti.
    La nostra descrizione ha sottolineato il nucleo e l’essenza di ogni celebrazione: è la coscienza di una comunità di essere visitata da Dio, di essere piena della sua grazia, di essere abitata dallo Spirito. In effetti, la festa non è altro che l’esplosione generalmente gioiosa, attraverso tutti i «pori» di una comunità, di tutte le proprie risorse espressive, di una esperienza condivisa di fede-speranza-amore.
    * È per questo che la condizione indispensabile perché esista una vera celebrazione festiva è l’esistenza di una comunità credente.
    Una comunità, poiché il soggetto della celebrazione non è un soggetto singolare, né una somma inarticolata di soggetti per sé isolati, che magari possono accidentalmente coincidere a livello di spazio e di tempo. La celebrazione tanto meno può aver luogo in un’assemblea in cui una persona – il celebrante, come si è soliti dire – o un gruppo ridotto di referenti ha il ruolo di protagonista, riducendo gli altri alla condizione di comparse o di semplici spettatori. È per questo che la celebrazione festiva comporta come primo passo indispensabile la costituzione della comunità, l’instaurazione del «noi» effettivo, unico soggetto possibile della festa. Però è evidente che per questa costituzione non sono sufficienti alcuni riti iniziali, per quanto essi siano pensati con cura.
    La festa stringe i legami della comunità, è vincolo efficacissimo di coesione, fattore di costruzione della sua identità. Però presuppone un qualche nucleo comunitario già stabilito e vigente nell’ordine, molto più ampio di quello del culto, della vita reale, quella vita nella quale si condividono le preoccupazioni, le speranze, i timori e le ansie. Per questa ragione la conoscenza reciproca di coloro che intervengono, il saluto iniziale non soltanto rituale, bensì effettivo, l’esistenza di un intreccio di sentimenti, affetti e progetti condivisi dal gruppo che si riunisce per la liturgia, costituiscono il primo passo verso il conseguimento di una vera celebrazione festiva. È per questo che la clericalizzazione delle celebrazioni cristiane, nelle quali il presidente svolge tutte le funzioni e monopolizza l’uso della parola riducendo i fedeli alla condizione di uditori – ancora oggi si dice «sentir messa» per dire celebrare l’Eucaristia – così come le celebrazioni massive, sono condizioni che rendono impossibile la vera celebrazione. E per celebrazioni massive intendiamo quelle in cui chi assite – siano essi pochi o tanti – costituiscono una massa nella quale il volto, le circostanze, la vita concreta, la voce di ogni persona, si vedono ridotte alla condizione di uditorio, spettatori o assistenti. Una massa di persone può assistere a uno spettacolo, però non può celebrare una festa. E una delle ragioni dello scredito, della degenerazione delle celebrazioni cristiane ha la sua radice in questa forma di realizzazione di Chiesa, che fa di essa una società perfetta e diseguale – composta da un’élite gerarchica e da una massa di laici – invece di essere popolo di Dio dotato di differenti ministeri, però attivo in tutte le sue componenti; invece di realizzarsi come fraternità, vale a dire riunione dei diversi, messi tutti da Dio in condizione di eguaglianza, e tutti figli, membri attivi della stessa famiglia e corresponsabili del medesimo destino.
    È per questa ragione che la prima condizione per la celebrazione della festa si trova molto prima della celebrazione stessa, nella natura del gruppo umano che celebra e nella forma in cui questo gruppo realizza la propria condizione di comunità cristiana, di piccola chiesa.
    * La seconda condizione per l’esercizio della celebrazione religiosa è l’esistenza in tale comunità di un’esperienza condivisa molto particolare. Esperienza, perché la sostanza stessa della festa religiosa è un avvenimento che tocca tutto il gruppo, che è vissuto da tutti i suoi membri, che riguarda tutti loro e il loro riunirsi come gruppo festivo. È questo avvenimento, vissuto in misura maggiore o minore da tutti i soggetti, ciò che li spinge a riunirsi per riviverlo, gioirne, esprimerlo, condividerlo, piangerne o lamentarsene. In realtà la festa nella sua essenza si riduce a questo: a dare spazio ai sentimenti, alle emozioni, alle convinzioni originate dall’esperienza comune di un avvenimento che tocca tutti.
    Esperienza molto peculiare per la particolarità dell’avvenimento stesso. Nella festa religiosa l’esperienza comune ha come «oggetto» un avvenimento salvifico, il cui protagonista non può essere altri che Dio. Da ciò deriva la radice teologale di ogni celebrazione religiosa, il necessario riferimento alla fede dell’esperienza comune e, di conseguenza, il «clima» peculiare che impone ai soggetti il contatto con il Mistero, espresso simbolicamente nel «togliti le scarpe» della teofania del rovo ardente. Da ciò deriva anche la condizione simbolica di tutte le istanze festive, vale a dire la loro capacità di rendere presente, attraverso i loro significati immediati, una Presenza e un’Azione di altro ordine con cui la persona umana mantiene una misteriosa connaturalità e di cui «si fa eco» la festa.
    Per questo la predisposizione di un gruppo per la celebrazione religiosa è radicata nell’apertura dei suoi membri a questa Presenza divina, e il successo più grande della festa consisterà nell’espressione e partecipazione comuni dell’esperienza peculiare che origina la sua pratica.
    Un insieme di ragioni come la priorità della Presenza e l’avvenimento che si celebra, il carattere necessariamente «tradizionale» dell’esperienza del divino, la coscienza di gratuità propria di ogni celebrazione, fanno sì che nessuna festa, neppure la più spontanea, possa essere inventata dal niente ad opera del gruppo festivo. Ogni festa è in qualche modo «concessa dagli dei» (Platone), ha qualcosa di «istituito». Il «successo» di una celebrazione dipenderà, perciò, dalla capacità del gruppo di armonizzare il ricorso agli elementi istituiti e preesistenti e di «ricrearli» perché riflettano la vita, la situazione e le condizioni di ogni gruppo festivo.
    Naturalmente il fatto che ogni festa abbia le proprie radici in una esperienza religiosa condivisa fa sì che tutte le feste delle diverse religioni condividano un clima comune, un’innegabile aria di famiglia e non poche risorse espressive. Però è indubitabile che le peculiarità delle esperienze contenute nelle diverse tradizioni religiose dell’umanità comportino altrettante peculiarità nei loro rituali festivi. Tratti caratteristici della festività cristiana, derivati dalla peculiarità religiosa del cristianesimo, saranno la sua necessaria connessione con la vita reale, la storia e le circostanze delle comunità festive; il richiamo permanente alla forma di vita che si persegue perché si è seguaci di Gesù; la supremazia dell’uomo e le sue necessità rispetto all’aspetto materiale e formale del culto; il riferimento ai fratelli e in special modo ai poveri come luogo privilegiato dell’incontro con il Signore; e la «nostalgia degli altri», gli assenti invitati anch’essi alla celebrazione. Tutte queste caratteristiche della festa cristiana costituiscono altrettanti criteri nella ricerca da parte delle comunità cristiane di forme autentiche e significative di celebrazione.
    * Però delle considerazioni sulla festa che, come le precedenti, pretendono di essere pratiche, non possono fare a meno di riferirsi agli aspetti più concreti della sua realizzazione. È chiaro che devono attingere agli aspetti teologale, antropologico e religioso della festa. Senza la coscienza e l’accettazione della presenza che origina nel cuore umano, senza il terreno propizio della condizione simbolica dell’uomo che viene dal fatto di essere sintesi di finitezza e infinitezza, interiorità ed esteriorità, concretezza e idealità, senza l’esercizio di queste due dimensioni in forme religiose concrete, potranno esistere giorni di riposo, vacanze, rappresentazioni e spettacoli, però non potranno esistere vere feste religiose o cristiane.
    Comunque immaginato questo livello radicale, sono necessari anche alcuni scenari e alcuni comportamenti precisi che costituiscono i mezzi espressivi dell’atteggiamento festivo. Ed è indiscutibile che anche questi mezzi devono essere curati perché la festa non degeneri.
    Facciamo riferimento ad alcuni di essi. Il più importante è, senza dubbio, l’instaurazione del sistema di mezzi espressivi nel quale possa trovare posto l’esperienza condivisa che si celebra: testi adeguati, musiche, gesti, organizzazione dello spazio, regolamentazione del tempo, ecc.
    Il valore di tali sistemi festivi religiosi dipende in genere dal raggiungimento di una serie di difficili equilibri: tra ciò che è tradizionale e istituito e ciò che è spontaneo, «esplosivo» e creativo; tra gli elementi gioiosi e la serietà che impone la presenza davanti al mistero; tra la trasgressione del quotidiano e un attenersi ai limiti di un qualcosa in più di cui la comunità festiva non dispone; tra la rottura con il mondo e la vita ordinaria e la necessità di trasformare questa vita e questo mondo affinché ci si avvicini ogni volta di più alla situazione ideale: in linguaggio cristiano all’avvento del Regno, a cui intende collaborare la festa; tra la parola, il canto, fino al grido da una parte e, dall’altra, il silenzio e il clima contemplativo che permettono di scoprire tutta la sua intensità e profondità; tra la necessaria distribuzione di ruoli e funzioni dei partecipanti e l’attribuzione ad alcuni di essi di compiti di animazione e coordinazione, e la partecipazione di tutti che eviti la riduzione di alcuni alla condizione di spettatori.
    Un elenco di condizioni lungo come questo – che tra l’altro potrebbe prolungarsi quasi indefinitamente – può dare l’impressione che la festa sia un evento praticamente impossibile. Però la storia delle religioni e la stessa storia dell’umanità mostrano come sia sufficiente che esistano delle comunità vive che coltivano le dimensioni profonde della condizione umana e che si fanno carico di tutti i «rumori» della trascendenza, perché sorgano, con ricchezza inesauribile di forme sempre rinnovate, rituali festivi nei quali queste comunità si riconoscono e si esprimono. Perciò è possibile sperare che, fino a quando continueranno ad esistere comunità credenti, né l’oscuramento epocale di Dio né la secolarizzazione della società e della cultura riusciranno a inaridire la sorgente di comportamenti festivi che scorre instancabilmente nel cuore dell’umanità.


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