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    Fede-cultura nella scuola cattolica



    Giovanni Fedrigotti

    (NPG 1998-04-12)


    «La rottura fra vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca»
    (Paolo VI, Evangelii Nuntiandi, 20).

    «Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta»
    (Giovanni Paolo II, Discorso al MEIC, 16.1.1982).

    «L’evangelizzazione della cultura e tutto il nostro impegno pastorale rappresentano anche il nostro precipuo contributo al bene comune e alla crescita umana e civile del Paese»
    (Card. Ruini).


    Il 18 luglio 1997 il Ministro Berlinguer presentava nel Consiglio dei Ministri il ddl sulla parità. Si parlò di un momento storico (e speriamo che lo sia!). Si moltiplicarono le valutazioni. Si insistette sul «quando» e sul «quanto» dei soldi. Si sottolineò l’efficacia che, anche nel marketing scolastico, avrebbe potuto avere la «concorrenza».
    Ma pochissime parole vennero spese – anche dai giornali cattolici – sulla originalità del Progetto educativo della scuola cattolica e sulla «qualità» dell’alternativa che esso rappresenta. Eppure, è tutto ciò che conta.
    Con questo articolo vogliamo sottolinearne qualche lineamento o, forse, il suo asse portante.

    La cultura

    Intervenendo all’assemblea CEI del maggio 1995 sul tema «La cultura nella pastorale della comunità cristiana», il nuovo segretario CEI Mons. Antonelli affermava: «Occorre evangelizzare anche le culture, che sono quasi la coscienza collettiva degli uomini» e, sulle orme di Giovanni Paolo II, individuava nel rapporto fede-cultura «un campo vitale sul quale si gioca il destino della chiesa e del mondo in questo scorcio finale del nostro secolo».
    Creano cultura i valori e modelli prevalenti, che ispirano i comportamenti ordinari della gente. Ogni scelta libera pone il proprio tassello al mosaico culturale.
    E la cultura diventa allora l’ecosistema valoriale che, se sano, crea crescita e salute, pubblica e privata; se malato, genera alienazione, ingiustizia e... male. Insomma cultura è «ciò per cui l’uomo, in quanto uomo, diventa più uomo» (Giovanni Paolo II).
    In questo contesto – suggeriva il Card. Martini, facendo la sintesi dei lavori – «il progetto/prospettiva culturale della chiesa in Italia dovrebbe aprire con maggiore competenza sul terreno dell’antropologia, delle realtà sociali, della carità politica». Appare necessario che «venga promosso l’aspetto formativo della pastorale, più di quello informativo». Occorre valutare l’importanza di «presentare la fede come cammino, come sintesi da costruire, come cultura aperta: il cammino di Abramo».

    La fede

    Il dialogo cultura-fede si può tradurre in differenti sfere di vita e di attività. Esse vanno tenute presenti, per scandire opportunamente i cammini educativi e i metri di valutazione, senza bruciare le tappe e voler fare di ogni erba un fascio.
    C’è la sfera della mentalità di fede: in essa il dialogo avviene mantenendo aperti gli orizzonti, in modo che valori e realtà di fede trovino spazi di accoglienza, sufficienti fondamenti razionali, motivata compatibilità con le diverse scienze nella visione del mondo dei giovani allievi.
    C’è la sfera delle scelte di fede, per cui il «pensato e il creduto» giunge progressivamente a investire il «vissuto», convertendolo, trasformandolo, dandogli, in una parola, valenza e originalità cristiana.
    C’è la sfera della testimonianza di fede, per la quale la vita appare «coerente», capace cioè di integrare serenamente fede e vita. Le singole scelte di cui sopra qui diventano «opzione fondamentale», che orienta il pulviscolo delle piccole scelte quotidiane sulla scia del cammino di fede.
    C’è, infine, la sfera annuncio di fede, per cui si riesce a comunicare, con un discorso coerente e convincente, le «ragioni della speranza», che hanno assunto dignità culturale, capacità dialogica, profondità di riflessione, assenso esperienziale.

    L’urgenza del loro rapporto

    «Viviamo tempi difficili, ma anche stimolanti. Sappiamo di star dentro una svolta assai significativa della storia dell’Occidente e di tutta l’umanità. Siamo anche consapevoli che questa svolta rischia di tradursi in un decisivo allontanamento dalle radici cristiane che hanno costruito la nostra civiltà».[1]
    Il momento presente appare caratterizzato, fra l’altro:
    – da una crisi generalizzata di trasmissione dei valori;
    – da un’ondata montante di privatizzazione della fede, sempre più limitata al suo aspetto emozionale da una generazione di giovani, che dice sempre di più «io sento», e sempre di meno «io so»;
    – dalla «tragica controtestimonianza» offerta al nostro tempo dalla «diffusa dissociazione tra pratica religiosa e vissuto quotidiano» (PC 1);
    – da un pluralismo che sembra incentivare l’indifferenza: in una certa ottica «il pluralismo diventa la proposta di una specie di tavola rotonda, dove tutti parlano e nessuno ascolta e crede». La «tolleranza democratica» rischia di volgersi in «tolleranza scettica» (Maritain);[2]
    – dal «magistero dei media», che tende a soppiantare quello della chiesa, non in forza della verità, ma solo dell’efficacia comunicativa;
    – dalla duplice «perversione» che tocca la fede nella nostra epoca: quella commerciale, che fa delle religioni prodotti di consumo, in concorrenza fra loro nel supermarket della nostra civiltà; e quella guerriera, che tende a utilizzare religioni, chiese e messaggi religiosi, per realizzare sogni di conquista e progetti nazionalistici;
    – dalla lenta «trasmigrazione del cristianesimo» verso l’emisfero meridionale.
    Non vanno però trascurati numerosi elementi, che spingono verso un risveglio cristiano e una mobilitazione culturale: la ricerca di «ragioni per credere», l’attesa della «differenza evangelica» da parte del mondo e la capacità di rispondervi da parte del cristiano (Ramsey), la riscoperta della «parresia» evangelica, la capacità profetica di indignarsi e di non confondere la beatitudine dei miti con la tolleranza universale (M.Clavel), la ricerca di una pedagogia adatta al «piccolo resto».

    Il quarto uomo [3]

    «Dopo l’uomo della grecità, dopo l’uomo della cristianità, dopo l’uomo della modernità, tiene ora il campo il quarto uomo, l’uomo del consumo e dell’audiovisivo e di ogni giuoco estetizzante, che non riconosce un sapere privilegiato né alla filosofia, nè alla religione, né alla scienza» (G. Morra).
    «In questo contesto, il compito di annunciare e testimoniare il Vangelo richiede di proporre con coraggio la persona di Gesù Cristo, come evento risolutivo della storia, mostrando fino in fondo la valenza culturale della sua presenza e del suo messaggio, la capacità cioè di incidere sul modo con cui un uomo, un popolo, vedono ed esprimono se stessi e la realtà. Cristo infatti è venuto nel mondo per rivelare e restituire all’uomo la sua piena umanità» (PC 1).

    PROGETTO CULTURALE

    Intendiamo camminare in sintonia con la chiesa, che ci propone, in questi anni, la riflessione su un progetto culturale. A monte di tale progetto c’è la chiara percezione – nemmeno bisognosa di dimostrazione – di un trapasso critico, nel quale vogliamo essere protagonisti attivi.
    Una scuola cattolica non improvvisa le sue scelte culturali né le riceve a scatola chiusa, ma programma:
    – una cultura della persona: «occorre rimettere la persona al centro dell’attenzione educativa; e inoltre occorre convincersi che risorsa fondamentale sono sempre le persone, con la loro competenza e dedizione»;[4] la scuola diventa allora «spazio intenzionale di comunicazione interpersonale», in cui i giovani «possono maturare la loro libertà come relazione, cioè come responsabilità e solidarietà»;[5]
    – una cultura dell’ascolto, che attiva un atteggiamento «discente», che rende gli educatori «disponibili a loro volta a lasciarsi educare dagli stessi giovani, dalle loro attese e dalle loro ricchezze»;[6]
    – una cultura «responsoriale», che cerca di «incontrare le domande esistenziali e culturali delle persone e valorizzare i ‘semi di verità’ di cui sono portatrici» (DCS 23);
    – «una cultura della reciprocità e della partecipazione: (...) Tutti siamo abbastanza poveri per dover ricevere; tutti siamo abbastanza ricchi per poter dare» (DCS 20);
    – una cultura capace di plasmare una mentalità cristiana: «un’attenta riflessione, per la formazione di salde convinzioni, appare ancor più indispensabile nel pluralismo religioso e culturale, che caratterizza il nostro tempo» (DCS 23 e 16);
    – una cultura della solidarietà, che regge «un rinnovato impegno per la città dell’uomo», alla luce «delle numerose testimonianze di carità politica, alcune giunte sino al martirio» (DCS 20): le scuole cattoliche diventano allora «luoghi nei quali il sapere illuminato dalla luce del messaggio evangelico, lontano dal servire per dividere e distanziare gli uomini fra di loro, è considerato come un dovere di servizio e di responsabilità verso gli altri».[7]
    Quindi queste sono le attenzioni da privilegiare:
    – diritto di cittadinanza alla cultura cattolica;
    – attenzione critica ai programmi «preconfezionati» e recupero della progettualità docente;
    – contenuti che diano forma e... sostanza;
    – nuova sensibilità ai grandi drammi della nostra epoca: «biocidio, ecocidio, geocidio», ponendoci al servizio educativo di un creato che anela alla vita, per servire la vita.
    Ma anche:
    – capacità di approfondire le stagioni di crisi del cristianesimo, anche per porre la crisi attuale sotto il segno della speranza;
    – apertura ad altre culture cristiane, per uscire da ogni forma di eurocentrismo, e sottrarre la fede alla stanchezza dell’Occidente;
    – raccogliere la sfida di trasformare il cristianesimo nella gioia di un incontro personale, più che nella fatica di dover imparare un’altra dottrina;
    – ricercare infaticabilmente lo stile dell’«educare evangelizzando, evangelizzare educando», in cui l’atto educativo stesso trasmette – vitalmente, prima che teoricamente – la sintesi, che esso vuole proporre e maturare nel giovane allievo.

    PREMESSE PER UN DIALOGO EFFICACE

    Occorrono alcune dimensioni di fondo nell’ambiente educativo, se si vuole propiziare un incontro fecondo tra fede e cultura, tale da creare una mentalità, ispirare a dei valori, guidare a scelte significative.
    Eccone alcune.

    Ri-aggangiare la vita, ponte tra cultura e fede

    Peguy incolpava (ma con atteggiamento ben diverso da quello di Nietzsche) clero e religiosi di aver «tradito» la terra, trascurandone i valori che essa possiede «per diritto di creazione». «C’è molta mancanza di fede nella loro ignoranza della temporalità, anche senza dubbio molto orgoglio, molta pigrizia (...) E l’eternità ha subìto un aborto nel tempo perché coloro che sono insigniti di eterno potere hanno dimenticato, misconosciuto, disprezzato il temporale».[8] E proseguiva: «Noi abbiamo diritto a una cosa: che la terra sia una porta nel tuo cielo. La scala verso la chiesa, se si vuole, è fuori della chiesa, è nella piazza del mercato. Ma essa è anche nella chiesa, perché è l’inizio della chiesa». È necessario riconoscere il «mantello di tenerezza posto intorno alle spalle del mondo».[9]
    Si direbbe che, talora, l’aggancio fra cultura e fede (che è, nel duplice senso, Parola di Vita!) non funzioni, perché la cultura stessa ha perso, per così dire, un’arcata: quella che la collegava alla vita. E allora la rottura fra fede e cultura è preceduta e determinata dalla rottura fra cultura e vita. Si tratta dunque «di scoprire il modo di sentire degli uomini di tale tempo o ambiente, per tradurre nel loro linguaggio, nelle loro categorie mentali, in stretto rapporto con le loro esigenze e i loro problemi, gli immutabili principi del Vangelo».[10]
    «Compito della scuola è offrire un sapere per la vita, e questo in due direzioni.
    La prima consiste nell’offerta di strumenti, che permettono ai giovani di interpretare e ordinare criticamente i molteplici messaggi ricevuti in vario modo. Ciò comporta da parte della scuola l’impegno di predisporre percorsi di conoscenza e di valutazione dei linguaggi e dei quadri di riferimento, che caratterizzano la fitta rete della comunicazione»: è il compito delle discipline, dei linguaggi, dell’epistemologia, della storia della scienza...
    «La seconda è la paziente e continuativa introduzione nel mondo dei significati umani (personali e collettivi), che sono stati e sono continuamente intuiti, comunicati e custoditi nella letteratura e nell’arte, nella ricerca scientifica e filosofica, nell’esperienza spirituale e religiosa. Da questo orizzonte di valori della persona, i giovani potranno trarre i criteri per una valutazione sapienziale e morale del messaggio e delle esperienze». «Un sapere per la vita è dunque il possesso di strumenti mentali, di informazioni corrette e di riferimenti ideali, che rende possibile il distacco critico e l’autonomia personale, senza dei quali non ci sono libertà e responsabilità».[11]
    Occorre ripianare il dislivello fra «mondo scientifico» e «mondo vitale», che può, specialmente negli allievi della scuola superiore (ma sappiamo bene che il rischio si può prolungare ben addentro gli anni dell’Università):
    – generare il rischio della ipertrofia cerebrale e della ipotrofia umana-relazionale;
    – far confondere il «bisogno di significato» (che domina la seconda parte della vita) col «bisogno di professionalità» (che domina la prima parte...);
    – circoscrivere la «professionalità» al suo aspetto tecnico-nozionistico, svuotandola di umanità, di relazionalità, di collegamento coi «significati».
    Dove la vita è in questione, dove di vita si parla e si soffre, lì la cultura riesce a toccare il cuore, cioè a trasformare e orientare l’uomo.

    Professare una cultura cristiana

    A volte è la conoscenza ed esperienza di fede a essere così fragile da non consentire un dialogo, nonché un’alleanza, con una cultura seria. «Talora infatti la preoccupazione di offrire un minimo di proposta a tutti rischia di tradursi nell’offerta a tutti di una proposta minimale, occasionale e frammentaria, più legata a temi del momento che non alla permanente novità e all’organicità dell’annuncio cristiano» (PS 16).
    Sarà preciso compito di ogni operatore e responsabile «mantenere la specificità educativa degli istituti, senza cessare di accogliere la massa dei giovani che vogliono beneficiare delle loro competenze» (Giovanni Paolo II ai vescovi belgi).
    Perchè tale «accoglienza» sia «promozionale», occorre sostenere, insieme, la «tensione» fra progetto educativo della scuola e «situazione di vita» degli studenti e delle loro famiglie, senza abdicare al primo, ma anche senza misconoscere o sottovalutare la seconda.
    Può succedere che temi «culturali», anche bizzarri, possano avere più «presa» di temi religiosi, anche seri. Perché questi ultimi sono presentati o dall’uomo sbagliato, o col linguaggio sbagliato, o nel modo sbagliato, o nel momento sbagliato.
    Eppure, di fronte alla «caduta successiva dei grandi sistemi ideologici anticristiani», si nota «la persistente vitalità della tradizione cristiana» (PS 3). Purtroppo ci manca, a volte, quell’entusiasmo, o parresia, o libertà evangelica, che faceva dire dei primi cristiani: «Ma costoro mettono a soqquadro il mondo». L’esperienza si è replicata con tanti altri santi che conosciamo. Perché non anche con noi?

    Dare dignità culturale alla fede [12]

    Troppo poco, forse, abbiamo apprezzato e valorizzato l’idea portante del recente concordato, che rivalutando la valenza culturale dell’insegnamento della religione, la iscriveva, a pieno titolo, nel contesto scolastico.
    Resta una sfida da raccogliere, per poter rispondere, con tranquilla coscienza, alla domanda: «Ma questi ragazzi rifiutano davvero la fede, o solo ne rifiutano una presentazione sprovvista dei requisiti minimi di dignità culturale, che essa deve avere dentro la scuola?». J.H. Newman, da buon oxfordiano, esigeva che la teologia avesse tutte le carte in regola per collocarsi, senza sfigurare, nel bel mezzo del «circolo delle scienze», per portarvi il proprio specifico (e non troppo imbarazzato e reticente) contributo!
    Forse, deve ancora fruttificare appieno l’affermazione conciliare del Gravissimum Educationis 7, per cui i figli dentro la scuola sono chiamati a progredire, di pari passo, nella paideia cristiana e in quella profana. «La sintesi fra cultura e fede non è solo una esigenza della cultura, ma anche della fede. Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta e interamente pensata, non fedelmente vissuta».[13]
    È la «fides quaerens intellectum», di patristica memoria. Quando Pietro invita i cristiani a «rendere ragione della speranza» che è in loro, egli stimola a fondarla e rivestirla delle forti «ragioni», di cui può disporre un cammino culturalmente avvertito.
    E il Concilio prosegue (GE 8) precisando le modalità di un tale incedere di pari passo e con pari dignità:
    – occorre un «ambiente comunitario scolastico permeato dello spirito evangelico di libertà e carità»;
    – è operante la duplice attenzione di formare il cittadino del Regno di Dio e della città dell’uomo;
    – anima di tutto sono «docenti forniti di scienza profana e religiosa, attestata da relativi titoli» e «legati fra loro e con gli allievi da una sincera carità».

    Coltivare cultura e sensibilità comunicativa

    A volte non è il «prodotto» culturale a fare problema, ma piuttosto le modalità della sua trasmissione e comunicazione. Un educatore attento alla comunicazione, tiene presente:
    – l’adeguamento all’età e alla sensibilità dei suoi destinatari, che suggerisce approcci articolati e attenti alle diverse età della vita, secondo una vera «pedagogia della differenza»;[14]
    – il linguaggio: accessibile, anche se propositivo;
    – l’ambiente, strutturato per comunicare;
    – la pluralità di mezzi, tendenti a una comunicazione globale e multisensoriale, tendenzialmente aperta alla tecnologia moderna;
    – la «credibilità» del comunicatore, fatta di competenza educativa, empatia-amorevolezza, personale coerenza;
    – la qualità del messaggio: non «cifrato», concreto (predilezione per lo stile narrativo), flessibile e aperto alla vita, non ansiogeno, non autoritario;
    – la «convergenza» dei comunicatori;
    – la necessità di formare la libertà critica davanti all’invadenza dei media (da cinema e TV a... internet). «La cultura odierna, in Italia e nel mondo, è diffusa e plasmata dai media in misura così rilevante, che alcuni non esitano a parlare di rivoluzione antropologica» (DCS 26). «A Palermo è emersa un’acuta consapevolezza del ruolo della cultura per la formazione della coscienza personale e del ruolo dei media, per la formazione della cultura» (DCS 28).

    Fare i conti con la «terza scuola»

    Il rapporto cultura-fede spesso non funziona perché c’è una forte «interferenza» da parte di quella che viene ormai chiamata «la terza scuola». Si è parlato di «terza scuola», o di «scuola parallela» riferendosi al peso dei «media» nell’influenzare (ma, in molti casi, si dovrebbe dire nel «creare») l’universo culturale dell’uomo moderno. L’influenza, facilmente manipolante, dei mezzi di comunicazione sociale riduce l’influsso educativo apportato dalla famiglia, dalla scuola, dalla chiesa; relativizza le proposte e può giungere a svuotare di contenuto il cammino di crescita offerto ai giovani».
    La tradizione delle scuole cattoliche, particolarmente sensibile al tema dei «media»; la particolare «esposizione» dei giovani al loro influsso (fino a diventarne succubi, nelle stagioni più delicate della vita); le battaglie in corso nel campo della «comunicazione» (perché il futuro sarà di chi possiederà più informazioni e sarà in grado di meglio comunicarle – ahimé, non sempre per puro amore della verità!): tutto questo muove gli educatori a dedicarvi speciale attenzione e programmazione.
    «Oggi, gli intermediari culturali sono quegli intellettuali, che sanno inserirsi in modo creativo nel mondo della comunicazione. Essi devono possedere la capacità di mettere a contatto il loro patrimonio culturale-informativo con il ‘gusto’ dominante, per contribuire alle modificazioni di questo stesso gusto, fino al punto di attribuire significati alle cose e di imporre tali significati. Il sincretismo culturale postmoderno favorisce questo lavoro di mediazione. E gli operatori della cultura cristiana faranno bene a tener conto di questi meccanismi e modelli imposti peraltro dallo stato di frammentazione della cultura europea».[15]
    Anche se il precedente discorso riguarda soprattutto la presenza diretta nei media, non è fuori luogo cogliere la provocazione che esso esprime nei confronti di tutti gli operatori culturali: coi «media» ci si può misurare sia sul «piccolo schermo», che «sulla cattedra», almeno per quanto concerne i giovani che ci sono affidati.
    Poiché la scuola è, indubbiamente, uno dei «laboratori in cui si costruisce l’immagine dell’uomo».[16] La modalità di confronto col mondo dei media è oggi una dimensione ineliminabile dell’impegno educativo-culturale della scuola, che deve mirare a «formare una coscienza critica, che abilita a scoprire le distorsioni, a identificare i sottintesi, a fare scelte illuminate nell’uso dei media».
    È urgente sottolineare «che la risposta al pericolo dei mass media non sta soltanto in programmi alternativi, ma nella formazione di personalità interiormente robuste, non attaccabili dalla girandola dei media. Alla ‘colonizzazione delle anime’ si fa argine, coltivando ‘la santificazione delle anime: la cultura cristiana è la santità» (Card. Martini).

    I LUOGHI DEL DIALOGO FECONDO

    Cuore del docente: laboratorio di sintesi

    La rilevanza del progetto culturale in questione «ci fa capire quanto sia urgente ridefinire secondo un più alto profilo la figura dell’educatore nella scuola, facendo sintesi fra competenze professionali e motivazioni educative, con una particolare attenzione alla capacità di dialogo oggi richiesta dall’esercizio sempre più collegiale della professionalità docente». Il rapporto educativo, visto nella sua essenza più profonda e nella più efficace modalità di esercizio – Newman la chiamava personal influence – «deve essere una relazione interpersonale impegnativa, che si attua nella misura in cui sia l’allievo sia l’educatore vi impegnano la propria persona».
    Se «massimizzare l’allievo» è la finalità che l’educatore si propone, «massimizzare l’educatore» ne è la premessa indispensabile.[17]
    Quella docente viene definita come «professionalità aperta», capace di progettualità continua:
    – che accoglie gli stimoli nuovi;
    – che si apre ai colleghi, ai giovani, all’ambiente;
    – che si relaziona alla vita, ecc.
    Professionalità aperta è anche quella che accetta lealmente il confronto con la fede cristiana, poiché «è nella persona dei docenti, laici e religiosi, che in prima istanza la cultura si apre alla salvezza e la salvezza matura la persona fino a orientarne e caratterizzarne la cultura» (PSC, 270).
    Prima del progetto educativo o della scuola cattolica, è il «cuore» del docente il «laboratorio di sintesi»». «Il futuro della cultura cristiana dipende soprattutto dalle coscienze degli operatori di cultura cristiana, dalla lora capacità di riversare nella cultura le loro radici cristiane».[18]
    «Il compito primario dell’intellettuale cattolico consisterà nel fare opera di raccordo fra le proposte, le istanze e le attese della cultura e la visione dell’uomo derivata dalla Rivelazione». Ciò lo presenta «nei suoi propri termini di compositore di fratture culturali».[19]
    – Sintesi tra cultura e fede: «al cuore della questione culturale sta il senso morale, che a sua volta si fonda e si compie nel senso religioso» (Veritatis Splendor, 98). Se è vero che c’è una cultura che genera fede («Non sono stati i cattolici a farci cattolici, Oxford ci ha fatti cattolici», scriveva Newman), non è meno vero che c’è una fede che genera cultura: «Una fede che non diventi cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta» (Giovanni Paolo II). «La fede (...) assume, nella mediazione dell’intellettuale credente, il suo ruolo di purificazione dei valori e delle idee, può realizzare nuove forme e iniziative di cultura e porta con sé un aspetto di innovazione e di creazione».[20]
    – Sintesi tra professionalità e fede: vivendo la propria competenza come valore, vocazione personale, impegno sociale ed ecclesiale dotandola di una «particolare spiritualità»; donando professionalità e competenza ai propri allievi, come «effettiva azione preventiva». Poiché «ciò che è richiesto oggi a chi insegna è una pienezza professionale inedita».[21] Lo «stile» professionale del docente è il primo «vademecum» che accompagna il giovane allievo nel determinare l’identikit professionale del proprio domani: inseguirà i soldi o servirà i valori? Lavorerà con la gioia di vivere una vocazione o con la frustrazione di dover subire una corvé? Tenderà febbrilmente all’«autorealizzazione» o si muoverà serenamente in spirito di servizio? Nella sua scelta confluiranno in modo significativo i modelli della sua giovinezza.
    Educare al lavoro è una delle urgenze, che da tempo vengono evidenziate, per dare maggiore credibilità alla scuola italiana. Se la scuola di ieri rischiava di costruire dei retori, la scuola di oggi può correre il rischio di sfornare solo dei «colletti bianchi», più capaci di apprezzare i vantaggi di una bella carriera, che di entrare in sintonia coi drammi del mondo e della società; più attenti al proprio look complessivo, che non disposti a pagare il prezzo richiesto da ogni lavoro ben fatto.
    Nella tradizione e nell’esperienza salesiana – che ha dato origine alle scuole professionali, che, ancora oggi, sono l’istituzione più richiesta da chiese e governi, in ogni parte del mondo – si invitavano i giovani ad avvicinarsi al complesso mondo del lavoro, equipaggiati con una professionalità complessa, costituita:
    * da una seria competenza tecnica e tecnologica, nella quale don Bosco diceva di voler essere «all’avanguardia del progresso»: seria conoscenza dei materiali, dei processi produttivi, delle tecnologie, ecc. Essa sta alla radice di autentica capacità imprenditoriale;
    * da una robusta coscienza e competenza relazionale, «cuore» della moderna professionalità, che esige il lavoro d’équipe, la capacità di proporre senza troppa timidezza, la disponibilità al dialogo franco e rispettoso, la capacità di presentarsi in modo convincente a un datore di lavoro (e la flessibilità dei mercati e delle professionalità, chiederà questa trafila più volte nella vita...);
    * dalla capacità di imprenditorialità formativa e culturale, che sarà, in futuro, esigenza comune a tutte le scuole come ai centri di formazione professionale: per le note ragioni – legate alle politiche europee, regionali, provinciali e alla rapida evoluzione del mercato del lavoro – quest’ultima è stata particolarmente forte nei CFP, e dovrà esserlo ancor di più in futuro, ma – con l’autonomia e, si spera, ancor più con la parità – diventerà «conditio sine qua non» della forza propositiva del progetto della scuola cattolica;
    * da un dignitoso standard etico, che dia al lavoro motivazioni più robuste, che non la semplice busta paga, o il gusto di personale autorealizzazione, o l’acquisizione di uno status sociale, ecc.;
    * da una vera spiritualità del lavoro, che, mentre ne fonda la dimensione etica, costituisce il frutto maturo della sintesi fra cultura del lavoro ed esperienza della fede cristiana.
    – Sintesi tra fede e vita: «insegnano ciò che vivono, vivono ciò che insegnano». «Ogni insegnamento, anche il più tecnico e scientifico, può essere l’occasione, grazie all’approccio realizzato, per trasmettere valori cristiani, ispirati al Vangelo. Con la mediazione dello sguardo che gli adulti rivolgono a ‘Lui’, ogni studente dovrebbe scoprire il Cristo, che vuole aiutarlo a sviluppare il meglio di sé e a preparare, nel migliore dei modi, il suo avvenire umano e professionale, per rispondere alla propria vocazione» (Giovanni Paolo II ai vescovi belgi «ad limina», cf Osservatore Romano 4.7.1992).
    – Sintesi tra educazione e educazione alla fede, poiché si nota «una sorta di frattura fra l’istituzione e la vita». Si verifica infatti una forma di distacco fra l’istituzione e l’educazione, fra l’educazione e l’educazione alla fede. Alla radice non c’è soltanto il programma culturale con scarse disponibilità di tempo e di contatti, ma la concezione che sostiene la separazione dei due aspetti, se non addirittura la loro totale equiparazione. A nessuno sfugge lo sforzo che tutto questo comporta, sotto il profilo dell’impegno culturale: «Il solo mezzo per essere una vera sorgente – notava Paul Claudel – è d’ingoiare e di digerire l’oceano».

    Cor ad cor loquitur: la relazione educativa

    Accanto al Superiore della sua congregazione («Istituto della Carità»), il Rosmini ipotizzava i tre «vicari della carità»: della carità materiale, della carità culturale e della carità spirituale. Il progetto educativo accentua, come è naturale per una scuola, la «carità culturale».
    Quanti di noi si accostano alla scuola sono invitati a portare in cuore la coscienza lucida e la intima gioia di «vivere la carità».
    Ciò che segna il passaggio dalla «istruzione» alla «educazione» è la capacità di toccare il «cuore», ove avvengono i processi di giudizio, le scelte della libertà, le conquiste dei valori. Ma al cuore si giunge solo col cuore.[22] «L’educazione è cosa di cuore» amava ripetere don Bosco, mentre esortava i suoi a intraprendere lo studio e l’esercizio che aiuta a imboccare le vie del cuore. Tutto il suo sistema educativa, chiamato «Sistema Preventivo», è ordinato a realizzare questo ambizioso progetto:
    – a costruire, cioè, un tessuto relazionale, che dia alla scuola tutti i tratti della famiglia e tolga tutti quelli della caserma;
    – a impostare una pedagogia del dialogo, che incoraggi la giovane umanità dell’allievo dimostrandole rispetto e fiducia; Rosmini rievoca con nostalgia, meditando su Eusebio da Cesarea, i tempi della chiesa in cui «si faceva pendere l’insegnamento non tanto da’ libri, quanto dalla viva voce (...) Il che forma uno de’ pregi del metodo che usavano i grandi allora a formare i grandi: cioè che l’ammaestramento non finiva in una breve lezione giornaliera, ma consisteva in una continua conversazione, che avevano i discepoli co’ maestri»;[23]
    – a inserire, fra il cuore dell’educatore e il cuore dell’allievo, il Cuore di Dio, ponte insostituibile, quando si voglia un contatto di cuori capace di portare frutti sicuri, a lunga distanza, specie in ordine alla fede e alla cultura cristiana. Sarà così possibile raggiungere la coscienza dei nostri allievi/e, illuminando le radici dell’amore, motivando le scelte dell’impegno politico e morale, comunicando – nell’atto stesso dell’atto culturale – quella sintesi fra cultura e fede che lo fonda. Ritrovare il cuore diventa una urgenza dell’operatore culturale cattolico, tenendo in conto «quella relazione affettiva che i dati della fede instaurano, per loro natura, con il cuore dell’uomo».[24]
    Per questo occorre «ridefinire secondo un più alto profilo la figura dell’educatore nella scuola,[25] facendo sintesi fra competenze professionali e motivazioni educative, con una particolare attenzione alla capacità di dialogo, oggi richiesta dall’esercizio sempre più collegiale della professionalità docente». Questo impegna ogni docente a «essere un testimone serio e credibile della responsabilità e della speranza, di cui la scuola è debitrice verso la società» (PS 13).
    Analogo discorso va fatto per valorizzare quei «grandi», che – nella storia della scienza, dell’arte, della filosofia, della letteratura, ecc. – alla sintesi fra fede e cultura hanno portato tutta la forza del loro genio.[26] Se ci sentiamo deboli e poco significativi come «modelli» dei nostri allievi e come elaboratori di una sintesi che richiede assai più di ciò che noi possediamo, nulla ci impedisce di chiedere, per così dire, l’alleanza di quei «grandi», tuttora viventi per il vigore del loro genio. Faremo parlare loro dalla nostra cattedra e potremo custodire l’umile fierezza di aver favorito dialoghi, destinati a durare per la vita.
    Un «classico», davvero incontrato, è un interlocutore, che si conserva per la vita, poiché i «libri classici, solenni, che contengono la sapienza del genere umano» consegnano «le universali verità, le dottrine feconde, salutari, dove l’umanità ha trasfuso se stessa co’ suoi sentimenti, co’ suoi bisogni, colle sue speranze».
    Mentre i «piccoli libri, concinnati, come dicono ne’ frontespizi, in uso della gioventù, da testicciuole loro pari» sono di quelli «a che il genere umano uscito degli anni della minorità fanciullesca volge per sempre le spalle, poiché non vi trova se stesso, né i suoi pensieri, né i suoi affetti», col rischio aggiunto di generare «un odio occulto, profondo, che dura quanto la vita, contro i maestri, i superiori tutti, i libri, e le verità stesse in que’ libri contenute».[27]

    Cammini culturali di trans-soggettività e trascendenza

    Se è vero quanto si viene dicendo, che «in Europa a Prometeo è subentrato Narciso» (Garcia Andrade),[28] allora bisogna convenire che tutto ciò che «ridimensiona» Narciso, chiamandolo a «uscire da sé», a scoprire l’altro e gli altri, cercando approdi e rinunciando all’isolamento, tutto questo è, in qualche modo, in direzione della trascendenza e capace di aprire un varco alla fede.
    Va, cioè nella stessa direzione lungo la quale si incontra Dio, pur nella discontinuità, per la quale la fede resta sempre un «dono». Trans-soggettività e trascendenza, anche se qualitativamente diverse, si collocano tuttavia nella stessa direzione. E possono essere considerati – senza esagerazione, mi pare – veri «preambula fidei». Non si tratta di inventare la luna, ma di condurre bene – cioè con lucida coscienza e intenzionalità progettuale – i processi di apprendimento e le dinamiche educative, delle quali siamo responsabili.
    – Così, un primo passo da fare nella giusta direzione è di aiutare i giovani a passare dalla pelle al cuore, liberandosi dal fascino dell’immediato e della visibilità e diventando capaci di interiorità, di riflessione, di valutazione critica.
    Allora si potrà camminare insieme ai nostri giovani verso la profondità: come «saper interrogare, cioè andare a fondo delle cose, oltre le apparenze, e diventare onesti cercatori della verità» (Giovanni Paolo II, in PSC,17).
    Qui si inseriscono le iniziative – anche para ed extrascolastiche – che zittiscono il chiasso, frenano l’agitazione, scavano sotto la superficie, reimpostano il ritmo vitale. Ritiri spirituali, esperienze di deserto, dialoghi con testimoni, tuffi nella povertà, impegni di volontariato, spazi di contemplazione permettono ai grandi interrogativi della fede di riemergere per cercare e ispirare risposte culturalmente ed evangelicamente impegnate.
    – Un altro passo che aiuta a uscire dal narcisismo è quello di accettare il confronto con «la» cultura, come tale, che è ben diversa dal mio «feeling» e dai miei punti di vista. Questo apre la strada anche al confronto con quello speciale tipo di «cultura» che è fiorita sull’albero del Vangelo e della Chiesa.
    – Un serio studio della storia [29] sottrae il giovane al fascino dell’«attimo fuggente» e lo dispone anche a incontrare l’altra storia, quella di Cristo e della sua salvezza. L’incontro delle due «storie» toglierà all’una (quella civile) il rischio di trasformarsi in un immanentismo assoluto e all’altra (quella della salvezza), il pericolo di restare «campata sulle nuvole», assumendo contorni di «fiaba».
    Claudio Magris riconosce che «lo spirito religioso rivela talora una marcia in più, un senso più profondo della storia, perché non assolutizza il transeunte e non idolatra l’attualità, non confonde il presente con l’eterno e considera precaria ed effimera ogni vittoria, senza ridurre l’uomo e il mondo all’angustia dell’ordine del giorno o delle ultime notizie, ma affermando sempre una comunione più estesa».[30]
    – Anche una vera apertura sociale – specie se si traduce in impegno etico e in servizio – corre nella giusta direzione e apre il cuore a meglio comprendere la realtà della Chiesa. «Sembra necessario creare le condizioni – anche nella scuola – per una nuova ed efficace formazione alla cittadinanza, cioè alla relazione interpersonale di reciprocità, che va fondata e vissuta nel rispetto dei diritti e dei doveri, nell’accoglienza e nella solidarietà, e anche nella sobrietà circa l’uso dei beni, per garantire giuste condizioni di vita per tutti, per oggi e per domani» (PS 7).
    A nessuno sfugge che il primo luogo di «apertura alla socialità» e del suo esercizio è proprio l’ambiente scolastico. «Per tutti, e quindi anche per i ragazzi, il primo luogo di impegno è la vita quotidiana della classe».
    «Un secondo passo sarà poi la collaborazione ad animare la vita dell’Istituto, con una presenza responsabile negli organismi assembleari o consiliari; con la valorizzazione dei ‘progetti’ via via elaborati per vitalizzare la funzione educativa della scuola; con l’impegno nella promozione di attività culturali e di aggregazione capaci di far crescere le persone, i rapporti personali, la sensibilità civile, nei confronti delle problematiche sociali e morali» (PS 11). Sul funzionamento degli «organismi collegiali» nelle nostre scuole non sarebbe male fare qualche «esame di coscienza», magari seguito da qualche «mea culpa», foriero di propositi nuovi.
    – Nella stessa direzione corre ogni giovane, che coltivi interiormente l’anelito alla verità: purché sia davvero disinteressato e cauto nei confronti delle immancabili razionalizzazioni. Claudel inveiva contro «i professori di tristezza, che hanno accompagnato la sua adolescenza» e affermava di «compatire ogni uomo che non si sia violentemente appassionato pro o contro il suo professore di filosofia». La caduta della tensione verso la verità ha tolto energia catalizzatrice alla sintesi fra fede e cultura. Il «quid est veritas?» di Pilato ha cacciato Cristo in croce e continua a sacrificare e a sviare innumerevoli giovani. Chissà se, nelle nostre scuole, potranno essere toccati da qualche raggio proveniente dal Veritatis Splendor?
    – Ché, se il giovane diventa capace di accogliere la croce (del servizio, dello studio, della riconciliazione, dell’autodominio, della castità, del perdono, ecc.), allora vuol dire che il suo «ancoraggio» ai valori è robusto, e lo slancio di trascendenza affidabile, e il cammino verso il Signore prossimo al suo compimento.
    – Da varie parti si è sperimentato che aprire i giovani alla oblatività, a varie forme di volontariato dentro e fuori della scuola, significa inserirli in una dimensione culturale nuova, quella di At 20,35: «C’è più gioia nel dare che nel ricevere»: un prezioso loghion di Gesù, che Paolo e Luca ci hanno tramandato.
    Attraverso la via esperienziale – il canale di comunicazione a essi più congeniale – impareranno assai di più sulla gioia del dono, la fecondità dell’amore, il trovarsi perdendosi: esperienze tutte che costituiscono una manuductio alla comprensione del Vangelo e della fede.

    Dialogo costante tra scienza e fede

    La scuola evangelizza come una scuola, non come una parrocchia. E la «casa della scienza» apre la sua porta davanti alla «casa della sapienza».[31] E tutte e due le case fanno parte dell’unica scuola.
    Custodire e annunciare questa prossimità, comunicare una corretta epistemologia, mantenere aperta una tale mutua comunicazione è uno dei compiti della scuola.

    La scienza al suo posto: epistemologia

    La scienza constata «il dilatarsi, anziché il ridursi del mistero sulla linea del suo orizzonte (...) Sono venute dischiudendosi le profondità del sistema uomo, le cui dimensioni sfuggono alla presa delle coordinate scientifiche. L’euforia scientista si è dileguata».[32]
    «Si è reso più consapevole lo statuto epistemologico di ogni disciplina», per cui le scienze «hanno imparato a delimitare il proprio ambito e le proprie possibilità di affermazioni e a riconoscere la diversità e la complementarità dei loro orientamenti e metodi».[33]
    Rispetto dello statuto epistemologico significa accettare dalla scienza solo i risultati che possono essere conseguiti dai metodi messi in atto, e fare proprio, per principio, il rifiuto di estrapolazioni e invasioni di campo, che trasformerebbero la scienza in «scientismo».

    La scienza tra le scienze: interdisciplinarità

    Si impone «la necessità di ritrovare una complementarità e interdisciplinarità del sapere e di riconvergere sull’uomo» (...) evitando gli unilateralismo e ogni forma di riduzionismo.[34]
    Si tratta – diceva Newman – di mettere le scienze «in circolo», di immergere, per così dire, la propria specializzazione nella interdisciplinarità, portando tutti i contributi possibili perché si crei una comunità docente «interdisciplinare».
    E Rosmini, suo grande contemporaneo scriveva (a 19 anni): «Ah! Chi ben vedesse come tutte le scienze, tutto lo scibile è una unità, una cosa sola, e ciascuna scienza è parte di un medesimo tutto! Costui conoscerebbe appieno il valore e l’utilità di ciascuna, l’influenza che vicendevolmente s’hanno, non ne dispregerebbe alcuna, e avvilendo la grammatica, intenderebbe come egli offende la rettorica, e la letteratura offendendo, sentirebbe a dolersi la filosofia, e offendendosi essa, sarebbe la teologia medesima oltraggiata e risentita».[35] Di tutto ciò avrebbero dovuto tener conto i libri di testo, i quali avrebbero dovuto, secondo Rosmini (che scrive sui 16 anni) «formare un tutto solo; essere fra sé congiunti; l’uno servire all’altro; avere insomma sì fatto ordine che l’uno all’altro sia di luce non solo, ma che ben anco l’inferiore di dignità serva a conciliare la stima del superiore».[36]
    Occorre, in qualche modo, ridare visibilità alla «interdisciplinarità», anche per quanto riguarda la teologia, l’etica e la religione. Se creassimo nei nostri giovani – attraverso esperienze organiche, serie, ricorrenti – l’abitudine ad analizzare un dato sotto l’aspetto problematico (lettere, scienze umane, filosofia, ecc.), sotto quello scientifico (tutte le scienze proporzionate all’età degli allievi), sotto quello etico-morale (diritto, religione, educazione civica, ecc.), noi potremmo essere certi di avere creato nella sua coscienza «spazi riservati», dove, nella vita, potranno essere collocati i dati (o almeno l’ipotesi e l’attesa) della fede. Salvare lo spazio psicologico e morale è il primo prerequisito di una possibile sintesi.
    Ci sono – in tal senso – degli ambiti contenutistici da privilegiare, che rappresentano «la mediazione sempre nuova dell’antropologia cristiana, in rapporto alle situazioni storiche concrete e mutevoli» (PC 3), quali, ad esempio:
    – domande di significato: verità, libertà, fede e cristianesimo, ecc.;
    – persona e società: diritti umani, famiglia, educazione e scuola, impegno politico e civile, ecc.;
    – linguaggi: il corpo, l’arte, i media, ecc.;
    – economia e umanesimo: globalizzazione, mondialità, solidarietà internazionale, terzo settore, la pace;
    – ricerca scientifica: ecologia, bioetica.
    Essi rappresentano – per la loro stessa ricchezza e attualità – un «forum» naturale, per esprimere interdisciplinarità.

    Tra scienza e sapienza

    «La scienza sperimentale (...). tende a eliminare la quesione del senso (...). È metodologicamente positivista e quindi espone alla tentazione di passare a un materialismo filosofico e antropologico».[37]
    «Scienza e tecnologia appaiono radicalmente ambivalenti»...
    «Il vecchio problema del rapporto fra scienza e fede si ripropone oggi nei termini di scienza e morale, di verità e libertà...».
    Occorre far dialogare la «scienza dei fini» (etica) e le «scienze dei mezzi».
    Poiché «scienza senza coscienza non è che la rovina dell’anima» (Don Bosco).
    Va esorcizzato «il rischio di ridurre l’orizzonte umano al livello di ciò che è misurabile con le coordinate scientifiche, obliterando le dimensioni dell’etico, del bello, dell’affettivo e dello spirituale» (occorre dare spazio alla bicameral mind).
    «L’alleanza fra scienza e tecnica (...) deve estendersi a una nuova alleanza fra scienza e ragione, tra tecnica ed etica, tra istruzione e formazione (paideia), tra fini immediati e fini ultimi e unificanti».[38]
    La scuola diventa allora, davvero, «luogo teologico» e «luogo sociale», in cui – mentre si realizza il proprio ministero cristiano e il proprio compito civile – si mira a formare nell’allievo, centro del nostro servizio [39] come amava sintetizzare don Bosco, «l’onesto cittadino e il buon cristiano».
    Occorrerà allora «valorizzare di nuovo il taglio umanistico culturale accanto a quello scientifico, per evitare l’appiattimento della intelligenza rispetto alla profondità dell’uomo; rivalutare la filosofia (non solo storia della filosofia); insistere sullo studio del diritto, come formatore di mentalità e coscienza rispetto all’economicismo; incoraggiare nella pastorale giovanile interessi di questo tipo...».[40]
    «Quello che si contiene ne’ libri, ne’ quali non si può trovare altro che scienza, non è né il tutto né il meglio dell’uomo (...).
    Al di là dunque della scienza vi ha un mondo reale, che sfugge non di rado agli occhi degli scienziati e de’ filosofi; e in questo mondo vive in gran parte l’uomo, il quale non vive di sola scienza».[41]

    Verso sintesi mature: la spiritualità

    È stata questa la preoccupazione dominante di Rosmini educatore: «Il programma rosminiano era allora quello di recuperare l’unità di scienza e santità, l’integralità del cuore e della mente.
    Si trattava di una integralità antropologica (naturale e soprannaturale), che però diventava pure prospettiva epistemologica, programma educativo, progetto pastorale, rinnovamento della filosofia e della teologia; formazione completa, umana e sapienziale (soprattutto del clero); bellezza più splendente della Chiesa nella comunione profonda di clero e popolo».[42]
    Vi sono momenti istituzionali, nei quali diventa operosa la sintesi cultura-fede: fra i principali:
    – gli incontri della Comunità Educativa: «Il Progetto culturale appartiene al discernimento comunitario, indicato nel Convegno ecclesiale di Palermo, come ‘espressione dinamica della comunione ecclesiale e metodo di formazione spirituale, di lettura della storia e di progettazione pastorale’.
    Ciò implica che nel Progetto sia coinvolta l’intera comunità cristiana e con esso si promuova una cultura della comunicazione e della comunione, della reciprocità e della responsabilità» (PC 4);
    – i momenti di elaborazione, monitoraggio, verifica del Progetto Educativo Pastorale;
    – coscienza ed elaborazione del «vissuto» come sintesi fra cultura e fede: la spiritualità: una spiritualità che diventi spiritualità relazionale e che attivi cammini di amicizia pedagogica con i giovani.
    Infatti, se il progetto educativo è l’anima della comunità educativa, la spiritualità è l’anima dell’educatore cristiano.
    «La spiritualità – ha sottolineato Giovanni Paolo II – è allo stesso tempo sorgente e meta del cammino proposto a quanti, giovani e adulti, condividono il metodo educativo del santo.
    Mi permetto di insistere sul primato di questa spiritualità, che permea la vostra vita e la vostra missione e che deve brillare anzitutto nella vostra testimonianza di consacrati apostoli».[43]
    Su questo punto mi accontento di aver appena accennato, lasciandone il completo sviluppo all’articolo successivo.

    UNA IPOTESI DI LAVORO

    Raccolgo alcune suggestioni conclusive, in vista dell’impegno concreto, dentro ciascuna scuola.
    * Resta chiaro che nei diversi tipi di scuola (media, superiore, postsecondaria, ecc.) va custodita stabilmente una duplice attenzione:
    – quella di usare ovunque una metodologia corretta (sana ed esplicita epistemologia, chiarimento dei mondi di valori: scienza, poesia, letteratura, religione, diritto, ecc.);
    – quella di «proporzionarla» alle diverse età ed esigenze della vita.
    Si procede per così dire a spirale: il moto rotatorio indica il permanere della correttezza metodologica e scientifica, l’asse verticale, i successivi approfondimenti proporzionati ai destinatari.
    * Al centro dei processi di sintesi sta il docente: uomo della sintesi e della mediazione. Egli si presenta necessariamente agli allievi come «modello» nella elaborazione della sintesi, che ci sta a cuore. Perché il «modello» diventi operativo, occorre instaurare una relazione pedagogica, che abbiamo chiamato del «cor ad cor», della «personal influence» (Newman), capace di proporre in modo convincente agli allievi la sintesi culturale dei docenti, come invito e modello di sintesi proprie.
    Sarà anche necessario prevedere cammini formativi, che aiutino i docenti, attraverso il dialogo, il confronto, lo scambio di esperienze:
    – a fare sintesi fede-cultura, a livello generale;
    – a fare sintesi fede-cultura, nell’ambito specifico della propria disciplina.
    * C’è una serie di elementi, che dovranno essere assunti e proposti dal progetto educativo:
    – verifica della situazione e progettazione in vista di una sufficiente apertura alla vita, parresia cristiana, dignità culturale dell’IR;
    – il raccordo con la programmazione para/extrascolastica, in vista di momenti di riflessione, silenzio, approfondimento;
    – come tradurre in itinerari educativi le diverse proposte presentate;
    – come integrare organicamente nel curriculum il dialogo con la «terza scuola», e tutto il complesso, affascinante mondo della comunicazione.
    * Altri elementi andranno assunti e proposti dalla programmazione didattica:
    – verifica e programmazione in vista di una corretta epistemologia, nella presentazione della propria disciplina e del suo metodo;
    – programmazione di esperienze disciplinari e «interdisciplinarì», con speciale attenzione alla sfera etico-religiosa, cui vanno riservati specifici spazi, nella discussione di problemi scelti con cura, per la loro capacità di catalizzare una sintesi cultura/fede (a puro titolo di esempio: ecologia e nucleare, ecologia e sviluppo, bioetica, ingegneria genetica, etica e tecnologia, etica e demografia, etica-psicanalisi e libertà, incomprensioni di ieri e di oggi fra scienza e fede, etica ed economia, etica e diritto, ecc.);
    – esperienze disciplinari e interdisciplinari, per cogliere i confini, le possibilità di dialogo e il significato della scienza e della sapienza, della «scienza dei mezzi» e di quella dei «fini», ecc.
    * Ma non si potrà costruire senza la previa – e continuamente aggiornata – conoscenza del «mondogiovani» in mezzo al quale ci troviamo a operare. I nostri giovani ci spiazzano e ci stupiscono, sia positivamente che negativamente. Opere come i cinque volumi «L’esperienza religiosa dei giovani», a cura di Mario Midali e di Riccardo Tonelli (1995-1997); «Giovani e generazioni», a cura di Pier Paolo Donati e di Ivo Colozzi (1997); «Giovani verso il Duemila», a cura di Carlo Buzzi, Alessandro Cavalli e Antonio De Lillo (1997) «L’età incompiuta», coordinata da Giorgio Tonolo e Severino De Pieri (1995) ci aiutano nella comprensione di questo mondo.
    Una autentica sintesi fra la cultura e la fede va fatta alla luce del «terzo incluso», che è quella che, impropriamente, viene chiamata la «condizione giovanile». Ad essa siamo chiamati ad accostarci con tutti gli strumenti a nostra disposizione, senza mai cadere nell’illusione di poterla tenere in pugno, una volta per sempre.


    NOTE

    [1] CEI, Progetto culturale orientato in senso cristiano (gennaio 1997), n. 8 (d’ora in poi: PC).
    [2] Cf RUINI C., La scuola e il progetto culturale orientato in senso cristiano, in Pastorale della scuola e dell’università (Notiziario CEI), aprile 1997, pag. 162.
    [3] Cf MUCCI GD, L’assenza di Dio nel postmoderno, in Civiltà Cattolica, 21.6.1997, pp. 547-551).
    [4] RUINI C., cit., p. 162.
    [5] RUINI C., cit., p. 163.
    [6] CEI, Con il dono della carità dentro la storia (1996), n. 40 (DCS).
    [7] Congregazione per l’Educazione Cattolica, Una comunità educativa, che aspira a educare nella fede (1996), in Pastorale della scuola e dell’Università (CEI), p. 183.
    [8] Cf BALTHASAR U., Stili laicali, Jaka Book, p. 438.
    [9] Ivi, p. 431 e p. 444.
    [10] CEI, Fare pastorale della scuola oggi in Italia (1991), n. 23.
    [11] CEI, Per la scuola (1995), n. 8 (PS).
    [12] Cf su questo tema: CEI, Insegnare religione cattolica oggi (1991), n. 6,7,10,14, ecc.
    [13] Cf Presenza della Chiesa nell’Università e nella Cultura Universitaria, 1994. La citazione è di Giovanni Paolo II, nell’Introduzione.
    [14] Nel 1819 – erano anni di ricostruzione e di reimpostazione dopo il passaggio del ciclone napoleonico – il giovane Rosmini (aveva allora 21 anni) tracciava un interessante piano educativo in quattro momenti. Il primo momento era dedicato alla «coltura del cuore dell’Uomo principalmente per la memoria» (e doveva svolgersi nelle scuole di grammatica). Il secondo alla «coltura del cuore dell’Uomo principalmente per la immaginazione» (nelle scuole di retorica). Il terzo alla «coltura del cuore dell’Uomo principalmente nell’intelletto» (nelle scuole di filosofia). E, infine, il quarto alla «coltura dell’Uomo alla società, ossia uso dell’Uomo già formato». (Cf De Giorgi F. La scienza del cuore. Spiritualità e cultura religiosa in Antonio Rosmini, Il Mulino, 1995 pag. 301).
    [15] MUCCI GD., La presenza della cultura cristiana in Europa, in Civiltà Cattolica 3474, p. 564.
    [16] Ivi.
    [17] RUINI C., La scuola e il progetto... p. 165-166. Il Presidente CEI prosegue: «Purtroppo, la già lamentata burocratizzazione della scuola ha indotto gli insegnanti a rifiutare di assumersi un ruolo di educatori e a configurare, per un verso la propria identità in termini di ruolo e di funzione (il docente come ‘funzionario del sapere’) più che di missione/vocazione; per un altro verso a concepire la propria attività come professione, tecnicamente connotata».
    [18] MUCCI GD., La presenza..., p. 565. L’articolo prosegue: «La forza di un soggetto... sta nella intensità della sua autocoscienza, cioè della percezione che ha dei valori che definiscono la sua personalità. Ora, questi valori fluiscono nell’io dalla storia vissuta cui l’io stesso appartiene. La genialità radicale di un soggetto sta nella forza della coscienza di appartenenza».
    [19] Cf MUCCI GD., Gli intellettuali cattolici in Italia, in Civiltà Cattolica 3471, p. 244.
    [20] Ivi, p. 246..
    [21] Cf CEI, Fare pastorale della scuola oggi in Italia, cit., n. 11.
    [22] «La dottrina di Gesù Cristo deve essere trasfusa non quasi da una memoria in un’altra memoria, ma tutta intera da una intelligenza in un’altra intelligenza, da un cuore in un altro cuore, se pur si vuole che d’ora in avanti gli spiriti se ne pascano e l’assaporino» (Rosmini).
    [23] ROSMINI A., Delle cinque piaghe della santa chiesa. A cura di Nunzio Galantino, Ed. San Paolo 1997, p. 171.
    [24] Cf MUCCI GD., Gli intellettuali, cit., p. 250.
    [25] Cf, ad esempio, TANZARELLA M., L’insegnante senza volto. La formazione dei docenti: perché, come, Bulzoni 1996. L’autore è un insegnante, che scrive per esperienza diretta.
    [26] Penso a possibili valorizzazioni di personaggi come Galileo e Copernico, Dante e Manzoni, Newman e Rosmini, Michelangelo e Beato Angelico, fino a Medi, Schumann e De Gasperi..., ecc. Il 29 ottobre del 1988, un folto gruppo di studiosi «che si adoperano per lenire e sanare la ricorrente piaga del discidium inter culturam et evangelium» proponevano a Giovanni Paolo II la più piena e totale riabilitazione di Antonio Rosmini «quale guida sapiente e illuminata della cultura cristiana fra il secondo e il terzo millennio». Scoprire, proporre, approfondire qualcuna di tali figure è uno dei modi efficaci per comunicare la «sintesi», che ci sta a cuore, ai nostri allievi.
    [27] ROSMINI A., Delle cinque piaghe... p. 162.
    [28] MUCCI, La presenza... p. 561.
    [29] Si veda l’interessante studio di ROSSI G., Cultura e fede nella comprensione del fatto storico, in Selenotizie, marzo 1995.
    [30] Cf MUCCI GD., Gli intellettuali cattolici... p. 245.
    [31] Su questa tema, e più in generale sulla ricomprensione del «Sistema preventivo» nell’ambito della scuola, vedi il numero monografico NPG 5/1992.
    [32] «Il pensatore polacco (Kolakowski) può ben rappresentare il cammino compiuto in questo secolo da quella cultura che era partita dall’ottimismo dell’idealismo, del positivismo e del marxismo, vere forme di assoluti terrestri esprimenti l’onnipotenza dell’uomo, ed è giunta a concezioni che segnano i limiti della ragione e riconsiderano la possibilità di spazi diversi e superiori» (MUCCI GD., L’assenza di Dio nel postmoderno, in Civiltà Cattolica del 21.6.1997, p. 545).
    [33] CEI, Alcuni problemi dell’università e della cultura in Italia, 1990, n. 3.
    [34] Ibidem.
    [35] Lett. A don Luigi Sonn (23.1.1816).
    [36] ROSMINI A., De’ testi a formarsi per la gioventù del Ginnasio Roveretano, secondo il Metodo già posto in uso (Opere, Città nuova), pag. 321.
    [37] CEI, Alcuni problemi, n. 5, passim.
    [38] Ibidem.
    [39] CEI, La scuola cattolica oggi in Italia (1983) indicava come aspetti caratteristici della «pedagogia della centralità dell’uomo»: il decondizionamento, lo sviluppo, l’orientamento, la cultura della pace (cf nn. 29-31).
    [40] Card. MARTINI, ivi, n. 6.
    [41] ROSMINI A., Introduzione alla filosofia, Degli studi dell’autore.
    [42] DE GIORGI F., La scienza del cuore. Spiritualità e cultura religiosa in Antonio Rosmini, Il Mulino 1995, p. 316.
    [43] Messaggio di Giovanni Paolo II al Capitolo Generale 24° dei salesiani (1996).


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