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    Il fatto

    Partiamo da una piccola esperienza raccontata con un po’ di enfasi.
    Rispondono gli adolescenti in una bellissima inchiesta in cui si domandava loro di dire le qualità che deve avere un animatore di loro gradimento: che sappia usare bene il suo mito. Il racconto che segue ha un po’ il difetto dell’uso di un mito; ma tanto vale se si può ottenere qualche nuova forma educativa da spendere con i giovani.
    Torre dell’Orso, Salento, Puglia profonda, balcone sull’Albania. Una sera d’estate in piazza tra i giovani. C’è un grande movimento, alcuni vigili urbani tentano di disciplinare un traffico impossibile. Per fortuna ci sono delle transenne a delimitare un’area di passeggio. Assiepati come ad una fiera dentro e fuori le gelaterie. Finalmente uno spazio bene organizzato: al centro un gazebo tra le piante, sotto un DJ che invita a ballare su una pista; attorno giochi elettronici, mescite e panini, campi da gioco. Stiamo a guardare. I giovani lentamente arrivano, si mescolano, ballano, giocano, mangiano, parlano. Un’idea: perché non possiamo occupare questi spazi per fare una proposta ai giovani? Due sguardi di meraviglia, diffidenza, sfida per l’idea. Si parte all’attacco. Chiediamo al Disk Jockey quanto prende per sera, chiediamo al proprietario se per due ore possiamo sostituirci al DJ e la cosa è fatta. All’indomani la Pro loco e la parrocchia sborsano un fifty-fifty al DJ e la piazza è nostra. Facciamo un po’ di volantini, ne parliamo in chiesa, mettiamo in atto «radio scarpa», quel tam tam confidenziale che si trasmette di negozio in negozio, di spiaggia in spiaggia, tra i pochi intimi. Non osiamo sfidare il tam tam dei concerti, però qualcosa otteniamo.
    Tema: Che cercano i giovani in discoteca?
    Un dialogo tra un antropologo, un prete e i giovani.
    Abbiamo paura che la serata fallisca, che non... ci guardi nessuno, che stiamo noi due soli a guardarci negli occhi. Un po’ di furbizia non guasta: è l’unica risorsa che abbiamo noi incalliti increduli nella Provvidenza, illusi di fare sempre da soli. Ci accordiamo con un gruppo di giovani che nelle vicinanze fanno un campo-scuola, perché vengano a fare da nucleo di ascolto sotto il gazebo. Chiediamo ad un presentatore di TV locale di far girare il microfono per il dibattito e poi cominciamo a parlare. Lentamente i giovani si avvicinano incuriositi, sospettosi, guardinghi, poi lentamente attenti. Non crediamo sia frutto della nostra bravura, è solo che nelle città di mare alla sera se ti metti in piazza a fare qualcosa (vedi per esempio le aste per quadri assurdi) qualcuno che abbocca c’è sempre. Ebbene il gruppo si infoltisce, nasce il dibattito, gira il microfono, si fermano i giochi elettronici e si costruisce uno spazio di ricerca entro un divertimentificio.
    A un certo punto il proprietario si avvicina al collega e dice: Va be’! Vi ho prestato lo spazio, ma qui più nessuno gioca, io perdo tutto l’incasso della serata: non potete tagliare?
    Avevamo ancora diritto a un quarto d’ora secondo contratto, ma abbiamo concluso.
    Non abbiamo convertito nessuno, non abbiamo detto un’Ave Maria, neanche annunciato Cristo morto e risorto, ma avevamo tentato di metterci tra i giovani, dialogare, farli riflettere su quello che vivono. Fossimo stati più attrezzati, avessimo avuto la costanza il giorno dopo di andare in spiaggia, non prima di mezzogiorno evidentemente, a giocare, a cantare, a creare amicizia; avremmo potuto fare un oratorio tra gli ombrelloni e i pini. Ci sarebbe stato anche un prete per chiacchierare, contrariamente alla canzone di Celentano.
    Due o tre idee le abbiamo ricavate:
    – Perché non si può fare con i giovani in queste zone un campo-scuola organizzato in maniera tale che al mattino si fanno approfondimenti formativi, al pomeriggio si inventa come comunicarli in piazza e alla sera, anziché stare tra noi a farci gli scherzetti e raccontarci le barzellette che ripetiamo dal primo campo-scuola della terza media, non andiamo in piazza a comunicare a tutti le scoperte fatte?
    Allora sì, sarebbe una formazione-missione e non il solito macerarsi nelle astrazioni in attesa di un confronto con la realtà sempre rimandato o affidato alla privatezza.
    – Perché la stessa spiaggia non può diventare spazio di proposta, di intercettazione di domande, di ricerca di rapporti più veri, di riflessioni più serene sulla vita, sul presente, sul futuro? Perché non possono diventare momenti di creatività giovanile anziché pause svogliate tra una notte e l’altra?
    Una settimana al mare così potrebbe contare su una gamma di interventi molto vari, dal concerto rock al film, dall’ascolto di una testimonianza a un pezzo teatrale, da una marcia a una processione. Qui la gente è distesa, più disponibile di quanto si pensi e i giovani hanno sempre voglia di fare «qualcosa».
    Questo è il fatto che ho già raccontato sul Gabbiano, mitico giornale giovanile della diocesi di Brescia. Ora però occorre analizzare le idee e costruire un eventuale percorso nuovo di pastorale giovanile. Dire percorso è troppo, chiamiamolo strumento.

    La filosofia del camposcuola

    Una delle più diffuse e indovinate iniziative formative, che soprattutto l’Azione Cattolica ha contribuito a far diventare esperienza capillare in tutte le diocesi d’Italia e in molte parrocchie, è quella del Campo scuola. Si tratta in genere di una settimana o poco più che un gruppo di adolescenti o giovani, ma anche ragazzi e preadolescenti, passano in luoghi di montagna o di mare, ma soprattutto un po’ appartati e lontani dalle distrazioni quotidiane, in compagnia di una équipe affiatata di educatori. Non c’è bosco o pianeta o valle in Italia in cui durante l’estate non si sentano risuonare grida di ragazzi, canti di giovani, urla di educatori e fischietti di preti o suore che richiamano all’orario. Alla faccia della crisi di presenze giovanili nella Chiesa. A Bologna ci volevano far credere che ormai la Chiesa con i giovani è «alla frutta» e che eravamo costretti nel colmo della solitudine e dell’abbandono a ricorrere al concerto rock col Papa per attirarli. Purtroppo nessuno della grande stampa s’accorge che le comunità cristiane, le associazioni, i movimenti sono ancora quelle istituzioni che hanno il più alto indice di gradimento giovanile e che sono felicemente e gioiosamente abitate da giovani. Ce ne stanno ancora, certo; molti non siamo capaci di raggiungerli, anche se la loro sete di «relazione educativa» è molto alta. Resta comunque il fatto che i campiscuola sono una felice attività educativa ecclesiale.
    Gli animatori si preparano per tempo, si ritrovano a stabilire obiettivi, mete, strumenti, tappe, iniziative, materiali; invitano specialisti, fanno essi stessi dei corsi di preparazione, a monte hanno équipe affiatate e collaudate che offrono sussidi ragionati, multimediali. La giornata tipo di un camposcuola è sempre di una grande varietà, ma sostanzialmente si assomigliano tutte per delle costanti precise: la relazione o ricerca culturale (ascolto di una proposta, ricerca su un tema), uno scambio di gruppo, momenti di personalizzazione, celebrazioni, contatto con la natura, largo spazio alle relazioni interpersonali, gioco, servizio reciproco. Sono sempre settimane intense, coinvolgenti: non viene in mente a nessuno di guardare la TV. All’inizio si parte con le cuffie e con lo stereo sotto braccio, poi lentamente si abbraccia qualcun’altra e si lasciano le cuffie. Grande coinvolgimento emotivo, grande concentrazione sulla propria vita. Si torna in genere cambiati e con la voglia di cambiare. «Si torna», sì perché in genere il camposcuola riesce meglio se è fatto in luoghi isolati, dove la vita della quotidianità è sospesa, le luci dei bar sono lontane, le discoteche assenti, le piazzette distanti, i pub possibilmente proibiti.
    Ebbene questo per molti giovani è un unicum nella vita, mentre per altri, soprattutto nelle associazioni e nei movimenti, è una esperienza che si ripete di anno in anno, magari nello stesso luogo, talvolta in forme più strane e originali.
    Commoventi sono gli ultimi giorni sempre bagnati da lacrime soprattutto tra gli adolescenti, ma anche una sorta di difficile impatto con la realtà. Il ritorno alla normalità è sempre più duro, più si va avanti, sempre più impossibile da affrontare, tanto che diventa routine l’insieme stesso delle difficoltà del dopo camposcuola.

    UNA PROPOSTA: FACCIAMO UN CAMPOSCUOLA «MISSIONARIO», ESTROVERSO

    L’idea è già espressa nel fatto raccontato sopra. Che cosa cambia e che cosa non deve cambiare affatto? Deve essere sempre una esperienza forte e formativa. Occorrono animatori preparati, si stabiliscono obiettivi, tappe e strumenti, ci si va preparati, si favorisce una intensa esperienza spirituale e di preghiera, si dà molta importanza alla direzione spirituale, si favorisce la vita di relazione. Si avrà ancora il problema classico del terzo giorno o del giorno della gita, in cui colei che sempre hai accompagnato ti sembra diversa; sarà stata la fatica condivisa, un colpo di sole, lo zaino diviso a metà, qualche stella alpina: sta di fatto che il rossore, che si nota sul viso, quando una impietosa fotografia li coglie insieme non è solo una abbronzatura sfuggita alle creme antisolari spalmate con cura prima della gita.
    Che cosa è che invece cambia?

    Il contesto

    Il contesto deve essere non più un luogo fuori dalla mischia, lontano dal mondo, appartato, ma dentro la vita concreta dell’estate, in un crocevia di grandi flussi turistici e di ferie, in un grande campeggio pubblico, magari solo giovanile, alle porte di città simbolo, mete assolute di valanghe di giovani: Firenze, Venezia, Roma, oppure in località balneari.
    In Italia le località balneari hanno sempre il tutto esaurito. A nessuno sfugge il fatto di quanta gente si riversi la sera nei centri balneari o turistici. A nessuno sfugge quanta sia la disponibilità a farsi «tirare per il naso» verso qualsiasi interesse, comprese soprattutto le vendite: la voglia di comperare, di mangiare, di consumare.
    Dentro questa disponibilità invece noi vogliamo leggere il desiderio di andare oltre, di superare la noia dello scontato, di divertirsi in maniera diversa, di nutrire anche e soprattutto lo spirito, di rispondere alla domanda di religiosità e di spiritualità che c’è sempre nell’uomo, di sperimentare comunicazione più profonda, di sentirsi provocati a riflettere. Ricordo sempre di aver letto al primo giorno di ingresso in seminario sul frontespizio del palcoscenico, la scritta solenne: «delectat et erudit». Ci ho messo molto a capirlo e a tradurlo, ma mi è rimasto impresso sempre anche quando sono diventato insegnante di una materia, la matematica, che per molti è dall’altra parte del delectat, del divertimento e poco dell’imparare.
    Possibile che la parola insegnare, imparare, crescere sia sempre appena legata a sacrificio, pena, scocciatura, noia mortale, rottura, sopportazione? Non oso addentrarmi nei commenti degli studenti o dei giovani che diventano eccessivamente anatomici al riguardo. Non è possibile imparare contenti, crescere divertendosi, approfondire nella gioia, formarsi nella felicità, pregare cantando e esplodendo? Non c’è qualcuno che ha cambiato il nostro pianto in canto, il nostro cammino in danza?

    Il modello formativo

    E questo che c’entra? È la prima intuizione che sta alla base dello sporgersi nei nostri modelli formativi nell’intercettare la voglia di riposo, di stare assieme, di stare allegri che in questi periodi dell’anno emergono nella vita delle persone e forzarli a diventare nello stesso tempo profondi, più umani e perché no?, genuinamente cristiani. Diceva il Card. Ruini, citando il Concilio Ecumenico Vaticano II, alla conclusione del Convegno di Palermo, che «la nuova spiritualità del cristiano non deve essere caratterizzata prevalentemente dalla fuga e dal disprezzo del mondo, ma dall’impegno nel mondo e dalla simpatia per il mondo». Sicuramente con alcuni «distinguo» che ci permettono di non essere ingenui. Questo è l’atteggiamento principale dell’estroversione e della missionarietà. Posso allora tranquillamente dire che se un camposcuola vuol portare alla spiritualità nuova deve non più fuggire, ma immergersi e simpatizzare.
    Ecco allora che l’idea si fa più chiara: il luogo in cui si vive il camposcuola è un luogo di grande comunicazione e convergenza di giovani. La mattinata è ancora composta di momenti di ascolto, ricerca, riflessione, approfondimento in gruppi, costruzione di testi, risposta ai problemi. C’è sempre grande scambio, tutto l’utilizzo delle tecniche di animazione e di approfondimento che servono, tutti gli esercizi del Vopel che la LDC comanda o che il sussidio ha censito.
    Il pomeriggio però cambia. Il tema che si sta affrontando è di grande interesse non solo per chi partecipa al camposcuola, ma per tutti i giovani, anche per quelli che sono nei paraggi in ferie e che passano la mattinata in spiaggia o a letto o tra i monti o per musei, per calli e campielli, per quadri e statue. Se questo è vero, perché non possiamo applicarci a vedere come è possibile comunicare quanto ricercato in una serata in piazza o in un teatro pubblico o in una discoteca, o in una sala giochi?

    Difficoltà e problemi

    Difficoltà ce ne sono a dismisura. Meno male, altrimenti i giovani non ci si applicherebbero affatto. Qui entrano in gioco gli animatori che hanno già fatto approcci con le strutture pubbliche, con la pro loco, con le parrocchie dei luoghi in cui si vive, con le chiese del centro che intercettano lo struscio, la passeggiata della sera. Si sono spinti fino ad affittare la sala della vendita all’asta per due ore o la sala giochi per qualche mezz’ora. I giovani del camposcuola allora si applicano nel pomeriggio per preparare una proposta o un gioco con tutti o uno spettacolo o un recital. Il successo non è garantito, la forza formativa dei tentativi, invece, sì. La serata allora viene vissuta in piazza, nella cittadina, nel paese e non più consumata a fare e ripetere e far credere che non si conoscano tutti gli scherzetti più o meno lattiginosi che si consumano da una vita nelle serate dei campiscuola, come una sorta di lezionario a, b, c, che si ripete ogni anno sperando che qualche matricola abbocchi o si sia dimenticata dell’esito dello scherzo.
    È chiaro che forse non tutti i tipi di campiscuola, e cioè i destinatari di essi, possono essere in grado di sbilanciarsi nella missione, ma ritengo che ce ne siano più di quanti pensiamo. È chiaro che non è giusto dividere formazione da missione, non è giusto non scommettere anche sugli adolescenti, non è infallibile l’idea che prima bisogna formarsi e poi si può dare quello che si ha. E se quello che si ha o ottiene nella fede fosse contestuale all’esperienza del dono che si fa e si sviluppasse nel momento stesso in cui si comunica? Non è detto poi che si debba sempre e solo mettersi in piazza per dare e proporre. Si può molto bene mettersi in piazza per ascoltare, per far nascere domande, per sentirci provocare. Spesso è la strada obbligata.
    Non tutti i giorni possono essere uguali, né si può sempre pensare di fare una serata dello stesso tipo o proporre con lo stesso stile. La fantasia dell’educazione in stile di animazione non si lascia scoraggiare da questo; ha a disposizione molte esperienze da proporre e da approfondire, modalità differenziate da tentare: una serata musicale, la visione ragionata di un film, una veglia di preghiera, una processione popolare, una notte intera in spiaggia di grande tensione spirituale per le testimonianze, i simboli, la preghiera utilizzata. Detto tra parentesi, non è un peccato consumare per esempio il 14 o il 15 agosto entro una casa per campiscuola a farci le nostre serate o le nostre belle preghiere mentre fuori si fa una processione spesso senza seria conduzione, senza segni coinvolgenti, senza aiutare i giovani a interrogarsi sul significato della gioia e dello stare insieme? Potrebbe essere che in un camposcuola si faccia solo un intervento di questo genere, ma non può essere lasciato alla casualità, all’improvvisazione, senza mete, né soprattutto senza verifiche successive.

    Censire e affrontare le difficoltà

    I problemi sono non pochi, ma val la pena di affrontarli con calma tutti. Ne faccio solo un elenco: la difficoltà a mantenere il camposcuola come esperienza forte che non si disperde nell’attivismo; l’influsso e le relazioni che si stabiliscono con l’esterno, con i giovani che immediatamente si legano e possono chiedere di partecipare al camposcuola; il tempo ridotto per un programma troppo nutrito di contenuti; il rischio di fingere missionarietà in situazione protetta; il coinvolgimento solo di alcuni; l’allentamento della preghiera; la rottura dell’incantesimo e dell’entusiasmo che un campo più protetto può offrire...
    Sono tutti elementi, e ce ne sono anche altri, che vanno misurati e affrontati prima di proporre il nuovo tipo di camposcuola. Si può iniziare offrendo alla diocesi una molteplicità di proposte differenziate, collaborando con altre diocesi o con altre parrocchie nel mettere a disposizione una gamma più ampia di proposte formative, nell’individuare i luoghi strategici.
    Occorre iniziare per tempo, prendere accordi, non sapendo poi nemmeno quali saranno i giovani che parteciperanno al camposcuola. Si tratta però di cominciare e di avviare una nuova tradizione. Qualche associazione già sperimenta campiscuola itineranti con alcune di queste caratteristiche. La stessa esperienza di Parigi ’97 ha offerto spunti per pensare campiscuola più estroversi e missionari, e mi pare che i giovani non siano tornati meno carichi e meno segnati da una forte esperienza spirituale.

    Chi potrebbero essere gli animatori di questi campiscuola?

    Sicuramente tutti gli animatori di gruppo, ma forse avrebbero maggior spazio in questo campo gli animatori di strada, se per tali non si intendono gli animatori per i ragazzi a rischio, per il disagio, ma animatori che hanno imparato a dialogare con i giovani della strada, delle piazzette e hanno capito da loro quanta sete di cose vere c’è e quanto è difficile comunicare le proposte che la comunità cristiana possiede. Sono animatori che hanno anche qualche pratica di rapporti con il territorio. Da tempo si sta dicendo che l’animatore non può più ridurre la sua attività a condurre le dinamiche interne del gruppo, ma che deve essere in grado di cambiare la sua funzione da regista unico a sceneggiatore che mette in campo tutte le forze educative per far crescere le persone.
    Sono animatori che hanno capito la forza della missionarietà e la bellezza della formazione entro esperienze di vita e non nel comodo intellettualismo delle discussioni o delle ricerche protette.

    Qualche nuovo scenario

    Dato che ci siamo proposti di affrontare il tema con tentazioni di fantasia possiamo spingerci anche oltre. Molte nostre città italiane sono di una smisurata bellezza artistica e attirano moltissimi giovani ad ammirare la proposta culturale italiana, che non è separata dall’afflato religioso che l’ha ispirata. Molti giovani amano alloggiare in maniera molto spartana e preferiscono gli scambi informali alle etichette.
    Proposta: mettiamo a disposizione – o entriamo in dialogo con – un grande camping nelle vicinanze di qualcuna di queste mete per offrire accoglienza, spazi di scambio di esperienze e nello stesso tempo non far mancare proposte di approfondimento anche spirituale su quanto vanno a visitare. Presso i luoghi di grande afflusso di pellegrini, quando si tratta di santuari famosi, la cosa dovrebbe essere più facile, essendo i santuari abitati da religiosi che sentono molto fortemente questo problema di seguire i giovani in maniera personalizzata e originale. Alcune diocesi della regione potrebbero garantire la presenza di gruppi che vivono un’esperienza di camposcuola di questo genere per un determinato periodo dell’estate. Penso a Venezia, Firenze, Roma, Siena, Loreto, Rimini, Paola, Pompei, Monterotondo... Ormai ci dobbiamo muovere nel campo dell’educazione diffusa, dell’annuncio al di fuori dei nostri soliti circuiti e non solo negli spazi protetti.


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