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    Vangelo della carità e figura della chiesa



    Piero Coda

    (NPG 1997-09-58)


    Dove va la Chiesa in Italia dopo Palermo? Il «vangelo della carità» – come cuore dell’evento cristiano e come vissuto delle comunità – può imprimere una figura più evangelica, più conciliare alle nostre Chiese? seguendo quali vie?
    Vorrei cercare di rispondere a queste domande, toccando forse dei temi di carattere generale, ma che penso tuttavia siano di forte impatto con la realtà che stiamo vivendo come Chiesa e come società. Vorrei farlo secondo la dinamica del discernimento comunitario, e cioè cercando di evidenziare qualche aspetto della tappa che viviamo nel nostro cammino di Chiesa e di proporre alcune riflessioni che andrebbero vagliate e approfondite poi nel dialogo, in ascolto della voce dello Spirito.

    Vangelo della carità e progetto culturale

    Comincio andando subito in medias res, forse esplicitando un interrogativo che tanti si pongono e un disagio che tanti avvertono.
    È uscita da poco la Nota pastorale Con il dono della carità dentro la storia, con la quale i vescovi intendono rilanciare il messaggio di Palermo alle Chiese in Italia. Si tratta di un testo lineare, per molti versi incisivo – tenuto conto del genere letterario –, che complessivamente registra le molte sfaccettature, talvolta difficili da ricomporre, di ciò che è emerso a Palermo.
    Ma il dibattito ecclesiale e, per certi versi anche l’orientamento della programmazione pastorale, si sono polarizzati, soprattutto a livello nazionale, attorno a un ma: quello del «progetto culturale».
    Ecco allora la questione che può inquietare: che fine ha fatto il vangelo della carità?
    La mia profonda convinzione – suffragata del resto, complessivamente, dal Convegno di Palermo e dalla Nota dei vescovi – è che queste due realtà non solo possono, ma debbono andare insieme.
    È evidente – e cerco così di spiegare il mio pensiero che, come spero di mostrare, ha delle conseguenze molto concrete – che ci troviamo di fronte a un’emergenza di carattere culturale, o meglio, a una transizione di carattere più profondo, antropologico, di vasta e universale portata.
    Perché non c’è più una cultura condivisa, pur nella pluralità delle sue espressioni, che regga e corregga nel senso della giustizia e della solidarietà il vissuto sociale. Perché – come già affermava lapidariamente Paolo VI nell’Evangelii nuntiandi (nn. 19-20) – «la rottura tra vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca». Perché la comunità ecclesiale non solo fa fatica a discernere – nella logica evangelica del «sì sì, no no» – i tratti pervasivi e spesso inquietanti della cultura ambiente, ma trova anche difficoltà (quando ne avverte la bruciante urgenza) a incarnare oggi profeticamente «il lieto annuncio ai poveri» di Gesù Cristo. Perché, in definitiva, gli scenari inediti che si preannunciano a livello mondiale – sotto il profilo economico, politico e socio-culturale – richiedono un salto di qualità nell’ethos collettivo.
    Dunque, è pertinente, è anzi doverosa quest’attenzione a coniugare fede e cultura – che in definitiva vuol poi dire coniugare vangelo e storia, fede e comportamenti personali e strutture del vivere sociale – che la Chiesa in Italia si propone attraverso l’impegno per il «progetto culturale». Giungerei quasi a dire che è questo l’obiettivo che si è posto il Concilio stesso, come appunto Paolo VI ha rilevato nell’Evangelii nuntiandi. La Gaudium et spes, per tanti versi datata e persino superata, come spirito e come struttura del discorso ha ancora da insegnarci molte cose in questa direzione.
    Ma se è vero questo, occorre contemporaneamente tener presente con grande energia che proprio il vangelo della carità è il principio, il cuore e l’obiettivo di un autentico progetto culturale. Questo è il punto: la prima cosa importante che intendo sottolineare. L’intuizione che anima gli orientamenti pastorali per gli anni ’90, e in cui sono condensate molte spinte innovative che vitalizzano le nostre Chiese, è la chiave decisiva del progetto culturale.
    Non dobbiamo dimenticare che il criterio determinante del discernimento critico-profetico della cultura, delle culture, contemporanea(e), allo stesso tempo che dell’edificazione vitale d’un tessuto culturale a misura della persona umana, di ogni persona umana, è la carità e, diciamolo pure, come sua necessaria e intrinseca verifica, il partire dagli ultimi.
    Paolo VI riassumeva così il significato più profondo del Concilio: «L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio (...) e allora questo Concilio tutto si risolve nel suo conclusivo significato religioso, altro non essendo che un potente e amichevole invito all’umanità d’oggi a ritrovare, per via di fraterno amore, quel Dio ‘dal Quale allontanarsi è cadere, al Quale rivolgersi è rinascere, nel Quale abitare è vivere’» (Sant’Agostino, Soliloqui).

    Contemplare Dio Amore e condividere la propria mensa con gli esclusi

    Se questo è il punto – far diventare il vangelo della carità la misura e il centro propulsore del progetto culturale –, che cosa ne deriva come conseguenza, concretamente?
    Comincio a dirlo tracciando le due coordinate, a mio avviso inscindibili, di questo progetto: la conversione al Dio di Gesù Cristo e la conversione al povero. Sembra scontato, ma non lo è. Perché il sintomo che si dà un rischio reale che quest’affermazione resti una buona intenzione che non cambia la vita e non incide sulla società, è proprio il fatto che da questa (supposta) conversione non nasce o fa fatica a nascere e ad essere condivisa una nuova cultura.
    Dunque, conversione o – come s’è detto a Palermo – spiritualità. Non, beninteso, una qualunque spiritualità. Ma quella di Gesù Cristo: e cioè apertura all’azione dello Spirito ed esistenza condotta in sintonia con l’azione (imprevedibile e pungolante) dello Spirito che spinge a vivere oggi la prassi di Gesù: l’annuncio del Regno come stare a mensa con gli esclusi.
    È il Regno di Dio, e dunque la potenza salvifica di Dio stesso per tutto l’uomo e per ogni uomo, che si manifesta in Gesù e che, per Lui, deve (e può – perché è grazia!) manifestarsi in noi, tra noi, attraverso noi. Il Regno di Dio viene nella storia, e opera, soprattutto dove c’è «la fede operante attraverso la carità» (Gal 5,6).
    Vangelo della carità vuol dunque dire fare spazio al primato di Dio. Un primato non in astratto, ma nel mettere in cima a ogni desiderio, progetto e opera, la ricerca della Sua giustizia. «Cercate il Regno di Dio e la sua giustizia e tutto il resto vi sarà dato in sovrappiù» (Mt 6,33).
    Proprio per questo, la conversione al Dio che viene nella storia in Gesù è conversione al prossimo, al «malcapitato» imprevisto che incrocia la nostra strada di singoli e di Chiesa.
    Forse, il termine stesso di «opzione per i poveri», invalso non senza fatica nel linguaggio ecclesiale, non è ancora abbastanza. Si tratta, sì, di una scelta che la Chiesa deve continuamente fare per convertirsi al Dio vivente – vivente nell’uomo sua immagine, nel povero, immagine del Figlio dell’uomo. Ma non si tratta di una scelta vera e propria, e cioè di una possibilità tra le altre, anche se «preferenziale». È intrinseca al vangelo della carità, indissolubile dall’annuncio della notizia di gioia dell’Amore di Dio.
    Ecco le radici della cultura nuova di cui hanno bisogno impellente la Chiesa e la società e nella cui progettazione (non a tavolino, ma tra la gente) la comunità ecclesiale deve ingaggiarsi nel dialogo aperto e nella solidale collaborazione con tutti.
    Contemplare Dio Amore e condividere la propria mensa con gli esclusi: può essere questa la formula breve che dice il cuore del progetto culturale.

    Il discernimento comunitario per un rinnovamento della figura di Chiesa

    Ma facciamo un passo in avanti.
    Far diventare cultura condivisa (anche da chi non è credente, almeno per ciò che è possibile) la dinamica del vangelo della carità, esige mezzi e strumenti. Esige innanzi tutto la crescita della figura di Chiesa delle nostre comunità.
    E allora dobbiamo interrogarci su quale figura di Chiesa nasce dal vangelo della carità.
    E dico nasce – sta nascendo – perché non vorrei fare un discorso astratto, costruito sulle esigenze che occorre sentire e le cose che occorre attuare. Quanto piuttosto sul vissuto che germoglia, forse timido e rado come in un campo a primavera, ma autentico e promettente, dal terreno di innumerevoli esperienze di base che punteggiano la mappa ecclesiale.
    Userò due espressioni sintetiche per descrivere altrettanti aspetti che ritengo oggi decisivi sia per crescere come Chiesa alla luce del vangelo della carità, sia per dare un contributo concreto, sostanziato di realtà vissute, al rinnovamento della società.
    La prima la riprendo dal Convegno di Palermo: discernimento comunitario.
    La seconda, dalla parabola del buon samaritano, quando alla fine ci dice come egli ha portato il malcapitato di cui si fa prossimo in un pandocheîon, che letteralmente significa una «casa che tutti accoglie».
    Discernimento comunitario, in primo luogo. Mi pare che siamo giunti a un punto nodale nel cammino di realizzazione della figura di Chiesa maturata nel Vaticano II. Lo richiama con decisione anche Giovanni Paolo II nella Tertio millennio adveniente. Né dobbiamo presumere che si tratti di un discorso meramente intraecclesiale. «Dimmi la Chiesa che vivi – potremmo dire – e ti dirò la società che puoi contribuire a costruire».
    La necessità di partecipazione e di corresponsabilità oggi, all’interno della Chiesa, non è più vissuta nei termini della rivendicazione. Da un lato, c’è un riflusso, che del resto interessa tutta la società; dall’altro, una crescita di forme molto vivaci, anche se tutto sommato limitate, di partecipazione di base, a tanti livelli.
    Ma c’è spesso un gap tra questo fermento e la struttura istituzionale (a cominciare dalla parrocchia), che pure non fa che protestare di voler favorire e incrementare una cultura della comunione e della corresponsabilità. Segno evidente del disagio è il languire degli organismi di partecipazione ecclesiale.
    Penso che la formula del discernimento comunitario, se correttamente compresa e con determinazione applicata, possa rimettere in moto le cose, e liberare nuove, e forse anche impreviste, energie.
    Dobbiamo recuperare l’ingenuità di ascoltarci reciprocamente e avere il coraggio di ascoltare così – a partire da chi non è ascoltato da nessuno – la voce dello Spirito. Per questo occorre abbattere le paure e i pregiudizi nei confronti dell’«altro».
    Discernimento comunitario significa che la Parola di Dio va ascoltata realmente insieme; che insieme va spezzato il pane di vita (che è insieme il pane eucaristico e il pane quotidiano); che insieme occorre condividere le proprie esperienze, i propri problemi, le proprie attese; che insieme vanno maturate le strategie e le decisioni comuni, e come espressione di tutti vanno vissute e portate avanti le iniziative che ciascuno responsabilmente è chiamato ad assumersi.
    Il gesuita Medart Kehl, nella sua recente proposta di ecclesiologia, definisce la Chiesa «unità comunicativa dei credenti», quella comunità, cioè, in cui deve trovare spazio di realizzazione un fecondo «agire comunicativo». Una comunità che tende, per la sua stessa identità, a raggiungere un consenso sulla base di un libero assenso ottenuto mediante il dialogo nell’obbedienza alla Parola di verità.
    Il discernimento comunitario richiede perciò la promozione, prima di tutto entro le comunità ecclesiali, di una cultura della ricerca del consenso che vive – nota Kehl – «della disponibilità onesta ad ascoltarsi e a venirsi incontro reciprocamente come pure della volontà di cercare l’unità solo nel senso dell’unanimità», bandendo ogni forma di «polarizzazione aggressiva, di sottomissione coatta o di armonizzazione derivante dalla paura» (M. Kehl, La Chiesa. Trattato sintetico di ecclesiologia cattolica, San Paolo, Cinisello Balsamo 1995, 140-141).
    In tal modo, basti richiamarlo appena, la Chiesa può essere riconosciuta come quel luogo entro cui si vede in atto quel comandamento nuovo del Cristo – «da questo vi riconosceranno...» (cf Gv 13,35) – attraverso cui diventano attive nella storia le radici di una socialità nuova, la socialità trinitaria. È così, infatti, che vengono immessi nel tessuto sociale impulsi di solidarietà, di rigetto d’ogni forma d’esclusione, di ricerca di una comunicazione veramente aperta a tutti e di una condivisione delle risorse (spirituali, culturali, sociali) veramente umanizzante.

    La «casa-che-tutti-accoglie»

    Vengo così alla seconda espressione che avevo preannunciato per descrivere la figura di Chiesa che nasce dal vangelo della carità: «Pandocheîon» – la casa-che-tutti-accoglie.
    Nella parabola del buon samaritano, sospesa tra Gerico, dove il sacerdote e il levita hanno la loro dimora sicura e tranquilla, e Gerusalemme, prefigurazione della città celeste, c’è una «casa-che-tutti-accoglie amichevolmente».
    Sta sulla strada dove imperversano i briganti. In essa regna una legge nuova: quella della reciproca accoglienza.
    Ma chi accoglie chi?
    Chi è il buon Samaritano? chi è il malcapitato? Il buon Samaritano è certo figura di Gesù, del discepolo, figura dell’uomo quando si fa ciò che è: specchio e strumento dell’amore di Dio. Ma anche il malcapitato è Gesù: «ogni volta che avrete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli minimi, l’avete fatto a me» (Mt 25,40).
    E non sappiamo in verità se siamo noi a dare il bacio di Cristo – come singoli e come Chiesa – quando viviamo il vangelo della carità, o se è il «minimo», di qualunque tipo e in qualunque modo, a darci lui il bacio di Gesù, facendoci diventare ciò che egli (il povero) è e ciò che anche noi siamo, nella fede: Gesù, proprio Gesù.
    Questa parabola – è stato detto – mostra il messianismo di Gesù che Luca propone alla Chiesa.
    Non ha nulla a che fare con quel sogno millenaristico, che spesso ci tenta almeno un po’, in cui tutti gli uomini marceranno uniti verso Gerusalemme per celebrare un successo socio-politico-religioso di qualunque stampo – di destra, di sinistra o di centro.
    Si tratta invece del cammino di chi si prende cura del fratello che soffre, e che sarà fino alla fine con noi, e gli offre un rifugio, anzi una nuova vita.
    La comunità ecclesiale dev’essere sperimentata come lo spazio di vita in cui ogni forma di esclusione è superata. L’unica condizione per potervi accedere, attivamente, è quella d’aprirsi alla legge della reciproca accoglienza.
    Ciò, evidentemente, non riguarda soltanto chi in qualunque modo è escluso, esplicitamente o implicitamente, dalla convivenza sociale.
    Provoca piuttosto – nell’ottica del vangelo della carità – una comprensione nuova dei «confini» della comunità dei salvati, della Chiesa.
    Perché – se realmente, come insegna la Gaudium et spes, ponendo un principio che è diventato propulsivo soprattutto a partire dalla Redemptor hominis di Giovanni Paolo II –, se «con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo» (GS 22), allora tutti debbono esser guardati con l’occhio del Padre che riconosce l’immagine del Figlio suo in ognuno.
    Le vicende culturali, politiche e sociali dei secoli della modernità sino ad oggi, ci hanno portato a innalzare degli steccati – anche difensivi, intendiamoci, anche eretti da potenze ostili – tra noi e «gli altri».
    L’Ecclesiam suam di Paolo VI e l’ecclesiologia del Vaticano II ci hanno invitato a cambiare ottica.
    Occorre avere un concetto (con una prassi conseguente) più ampio, più universale del Popolo di Dio. Beninteso non per catturare entro le mura del recinto, loro malgrado, chi nella Chiesa non si riconosce. Né per fare una confusione in cui tutti, in modo più o meno anonimo, sono cristiani.
    Ma per avere lo sguardo e l’accoglienza di Cristo verso tutti, affinché tutti possano scoprire di «non essere lontani dal Regno di Dio» (cf Mc 12,34).
    Questa è la figura di Chiesa che il vangelo della carità ci fa sperare, donandoci la forza di testimoniarla con perseveranza e semplicità.

    Profezia sociale: un fossato dal colmare, un’alleanza da stringere

    L’ultimo punto che voglio toccare riguarda la profezia sociale del vangelo della carità.
    Anche questo fa parte del progetto culturale: perché un progetto culturale che non contemplasse una spinta critico-profetica nei confronti della nostra società e nel contempo delle piste di riforma strutturale ai vari livelli dell’organizzazione economica, sociale e politica non potrebbe qualificarsi come cristianamente ispirato.
    Non per nulla, Giovanni Paolo II ha più volte ribadito che l’annuncio e la messa in atto dei principi della dottrina sociale della Chiesa è «parte integrante della nuova evangelizzazione» (cf SRS 41; CA 5).
    E nella Tertio millennio adveniente ha aggiunto: «Si deve anzi dire che l’impegno per la giustizia e per la pace in un mondo come il nostro, segnato da tanti conflitti e da intollerabili disuguaglianze sociali ed economiche, è un aspetto qualificante della preparazione e della celebrazione del Giubileo. Così nello spirito del libro del Levitico (25,8-28), i cristiani dovranno farsi voce di tutti i poveri del mondo, proponendo il Giubileo come un tempo opportuno per pensare, tra l’altro, ad una consistente riduzione, se non proprio al totale condono, del debito internazionale, che pesa sul destino di molte nazioni» (n. 51).
    Mi pare che anche nel campo della profezia sociale del vangelo della carità vi sia – guardo in primo luogo all’Italia – un fossato da colmare e un’alleanza da stringere.
    – Il fossato è quello tra i principi proclamati della dottrina sociale della Chiesa e le strategie politiche ed economiche di fatto imperanti che li violano sistematicamente.
    I poveri sono milioni anche in Italia, sono centinaia di milioni nel Sud del mondo. Invece, nel confronto politico, specie da noi, poco se ne parla (salvo che a proposito della disoccupazione), quasi fossero un’appendice inevitabile di una società che punta al migliore della classe.
    Se ascoltiamo parlare nei telegiornali i personaggi politici emergenti, la parola che sentiamo soprattutto ripetere è oggi «libertà», anche sul piano economico. E va riconosciuto che è giusto: è una parola importante, da sottolineare, dopo essere stata snobbata dai regimi totalitari e dal «socialismo reale» dell’Est.
    Ma è una libertà, quella che si esalta oggi, che nasce troppo spesso da una visione parziale dell’uomo e della società. È soprattutto la libertà di realizzarsi individualmente, sul piano economico e su ogni altro piano, di poter esprimere e sperimentare (nel migliore dei casi) le proprie convinzioni. Meno è la libertà dai bisogni economici e sociali essenziali di chi non li può soddisfare dignitosamente: dei poveri, appunto.
    – Di conseguenza, l’alleanza da stringere è quella tra le numerose esperienze di base che tentano di percorrere con generosità le vie del vangelo della carità e una cultura della vita politica ed economica che, sulla base della dottrina sociale, proietti nel macro-sociale i risultati, per ora di laboratorio, di queste esperienze.
    È un dato effettuale che è emerso a Palermo, ma che forse non è stato adeguatamente apprezzato e sviscerato nelle sue implicazioni. È evidente che in questi ultimi due decenni, all’incirca, ciò che di più rilevante è stato prodotto dal mondo cattolico sotto il profilo sociale riguarda tutta una serie di micro-realizzazioni capaci di innervare con l’ethos della partecipazione e della solidarietà il tessuto deteriorato della nostra convivenza.
    Si tratta di un patrimonio prezioso che non va assolutamente disperso, ma che va potenziato e diffuso, perché in esso sono già operanti – anche se a livello locale e in riferimento ad ambiti parziali – i principi della profezia sociale del Vangelo della carità.
    Anzi, un obiettivo prioritario del progetto culturale, per quanto attiene a questo profilo della missione della Chiesa, deve consistere precisamente nel perseguire con determinazione e flessibilità un incontro tra questo vissuto, con le sue potenzialità, e le prospettive più globali e strutturali che derivano dalla dottrina sociale della Chiesa.
    Anche qui, evidentemente, occorre una mediazione culturale di elaborazione politica ed economica che faccia da raccordo tra le indicazioni magisteriali e le sensibilità e le realizzazioni della base, individuando idee-forza e concretizzazioni praticabili a servizio del Paese, sempre in una prospettiva strutturalmente aperta all’Europa e alla mondialità.
    Merita di essere ripresa e rilanciata, tra l’altro, una proposta concreta emersa a Palermo nel secondo ambito, riguardante l’impegno socio-politico: l’invito a «dare impulso a tutte quelle iniziative economiche nelle quali, in maniera più diretta ed esplicita, si esprime il vangelo della carità: settore non-profit, aziende di ‘economia di comunione’ e di ‘economia relazionale’, iniziative finanziarie a sostegno di nuove imprenditorialità, della solidarietà e di lotta dell’usura»1.
    Occorre, in una parola, saper incentivare e applicare su larga scala – attraverso le opportune mediazioni – ciò che la creatività del vangelo della carità ha suscitato e sta suscitando di nuovo e di vitale.

    Un’icona di Chiesa

    Vangelo della carità e figura della Chiesa.
    Solo una Chiesa povera, e cioè fiduciosa unicamente nel Signore e capace di spogliarsi di tutto – come il Figlio di Dio (cf Fil 2,7) – per farsi prossimo d’ogni fratello, può dare l’anima del vangelo della carità a una nuova cultura.
    Una cultura che dica e incarni l’amore di Dio per l’uomo.
    Ho negli occhi una scelta di cui sono stato testimone nelle «favelas» di San Salvador Bahia, in Brasile.
    Su di una povera stuoia stesa in terra, tre bimbi di pochi mesi sgranano i loro occhioni grandi e neri, mentre una suorina avvolta nel «sahri» indiano delle figlie di Madre Teresa di Calcutta, anch’essa accovacciata sul pavimento, li imbocca ad uno ad uno, ciascuno col proprio cucchiaio, con gesto solenne e materno a un tempo, prendendo un po’ di riso di ciascuna delle tre ciotole che stanno di fronte a quegli orfanelli, raccolti per strada tra le baracche di legno degli «alagados».
    Quella suorina ha trascorso gran parte della notte in ginocchio, in adorazione, dinnanzi a Gesù Eucaristia. Lì, nella penombra, sulla nuda parete dietro l’altare, campeggia un povero Crocifisso di legno con quella scritta che qui in Brasile ti penetra fin dentro il cuore: «I thirst» (ho sete). L’adorazione a Gesù Eucaristia, il Dio fatto uomo, l’Onnipotente divenuto povero e crocifisso per amore, continua ora, in quel gesto semplice e alto, come servizio a Lui presente nel «più piccolo»dei suoi fratelli.


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