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    Riempite il vuoto dei vostri figli



    Umberto Galimberti

    (NPG 1997-09-53)


    Cari genitori, chi sono questi nostri figli che, senza nulla dire, se ne vanno per sempre con la stessa semplicità con cui si esce da casa? L’altro ieri su nove suicidi avvenuti in un giorno in Italia, sei erano di giovani compresi tra i 14 e i 24 anni, confermando quel dato Istat secondo il quale in Italia tra gli under 25 il suicidio è la seconda causa di morte dopo gli incidenti automobilistici che, solo per un differente livello di coscienza, possiamo tener distinti dai suicidi veri e propri, che restano comunque quattromila all’anno di cui il 60 per cento nell’età compresa tra i 15 e i 30 anni.
    Mi rivolgo a voi, dopo essermi rivolto agli insegnanti che però in quel periodo erano indaffarati a compilar domande di prepensionamento, e siccome voi, cari genitori, in pensione dalla vostra funzione genitoriale non potete andarci mai, con voi c’è forse più tempo e più disponibilità per provare a capire questa generazione di giovani dove il progetto ha il respiro di un giorno, l’interesse la durata di un’emozione, il gesto non diventa stile di vita, e l’azione si esaurisce nel gesto. Se poi questo gesto non è l’ultimo, il più delle volte resta un gesto comunque distruttivo, come le cronache di questi giorni ci raccontano a proposito di quei ragazzi della Milano bene che conta, che passano il sabato sera a distruggere case sempre della Milano che conta.
    La memoria della nostra adolescenza, quella di noi genitori, non serve quasi a nulla per capire l’adolescenza dei nostri figli, e ben lo sanno le nostre parole che inseguono quella comunicazione impossibile in cui è la nostra ansia di esprimerci e insieme l’ormai pienamente raggiunta incapacità a capire la generazione di questi nostri figli che una relazione dell’Eurisko del ’94 definisce «generazione degli abbastanza».
    Vanno abbastanza d’accordo con i loro genitori che concedono loro abbastanza libertà. Hanno abbastanza voglia di diventare adulti, ma non troppo in fretta. Nessun progetto per il futuro anche perché non ci sono abbastanza opportunità, nessun ideale da realizzare, anche perché non ce ne sono di abbastanza coinvolgenti. Ce n’è abbastanza per distruggere appartamenti il sabato sera e per togliersi la vita quando se ne ha abbastanza. Questa è la ragione per cui se ne vanno in punta di piedi, senza fare un gran rumore, basta una finestra aperta in una classe come è successo in quel di Savona o, senza troppo esibizionismo, una finestra aperta in casa propria, abitata solo verso sera da facce stanche che guardano la tv.
    Non abbiamo occhi per capire e neppure schemi di lettura, nonostante questa generazione sia stata studiata, classificata, vivisezionata, da istituti di ricerca come mai era capitato ad altre generazioni di giovani. A leggere le relazioni di questi istituti apprendiamo che quella dei nostri figli è una generazione che ha un basso livello di autoconsiderazione, una sensibilità gracile, introversa, indolente, un’inerzia provocata da un’eccessiva esposizione agli influssi della televisione, un’unica preoccupazione: procurarsi un’incredibile quantità di tempo libero per assaporare fino in fondo l’assoluta insignificanza del proprio peso epocale.
    Di qui le frequenti fughe nel sogno e nel mito, il mimetismo nella ricerca neppur troppo spasmodica di un’identità venata dalla nostalgia relativa all’impossibilità di reperire radici proprie, il tutto condito con un acritico consumismo, reso possibile da un’inedita disponibilità economica che, per disinteresse o per snobismo, questi giovani neppure utilizzano, perché le cose sono a disposizione prima ancora di averle desiderate.
    E così a questa generazione del malessere viene attribuita una valenza di mercato prima ancora che di identità. Su di essa si buttano le nuove aree di profitto che hanno fatto proprie le istanze stilistiche, comportamentali ed espressive tipiche della condizione psichica di questa generazione che la pubblicità, la produzione dell’abbigliamento, le agenzie di viaggio e l’industria del divertimento hanno decodificato molto meglio di quanto non abbiano fatto le statistiche sociologiche, le analisi psicologiche del profondo, la cultura devitalizzata della scuola dove molti insegnanti neppure s’accorgono che quei giovani, che sono ogni giorno sotto i loro occhi appannati, non avvertono più alcuna corrispondenza tra quanto si apprende in classe e quanto si intravvede dalla finestra dell’aula.
    E se fuori da quella finestra non c’è la «morte liberatoria» di chi non è riuscito a parlare e soprattutto a farsi ascoltare, c’è quella strada a senso unico che compensa la carenza di identità con la sicurezza concessa dall’appartenenza al gruppo che, buono o cattivo che sia, resta comunque indispensabile perché, fuori da esso, resta solo la solitudine dell’anonimato sociale, dove si annidano baratri insuperabili in ordine alla comunicazione che il rumore assordante della discoteca non riesce a colmare. Nascono allora quelle malinconie che hanno abbandonato il tono del tumulto per frequentare le stanze della rassegnazione. E nei giovani meno autentici, neppure un attimo di disperazione, perché non si dà disperazione là dove la speranza si è da tempo congedata.
    Cari genitori, che dire e che fare? Che fare non lo so, che dire ci provo. Penso che la generazione dei nostri figli abbia, rispetto alla nostra di genitori, un’emotività molto più potente e uno spazio di riflessione molto più modesta. Il loro spazio emotivo è stato sollecitato fin dalla più tenera età da un volume di sensazioni e di impressioni eccessive rispetto alla loro capacità di contenimento. A partire dai primi anni di vita hanno fatto troppa esperienza (televisiva e non) rispetto alla loro capacità di elaborarla.
    Di loro abbiamo detto: «Come sono intelligenti, noi alla loro età eravamo dei cretini». E non l’abbiamo detto solo noi, l’abbiamo detto anche a loro. E loro ci hanno creduto, avviandosi con la nostra benedizione e la nostra compiacenza su quella strada ingannevole dove si confonde l’intelligenza con l’impressionabilità a cui segue una risposta immediata. In questo gioco di inganni abbiamo confuso la loro risposta immediata con la prontezza dei riflessi e la velocità di ideazione, mentre era semplicemente un cortocircuito. Ora questi nostri figli si trovano ad avere un’emotività carica e sovraeccitata che li sposta dove vuole, a loro stessa insaputa, senza che un briciolo di riflessione, a cui non sono stati educati, sia in grado di raffreddare l’emozione e a non far confondere il dispiacere di un giorno con la disperazione di una vita.
    L’eccesso emozionale e la mancanza del raffreddamento riflessivo porta sostanzialmente a tre soluzioni: o lo stordimento dell’apparato emotivo attraverso quelle pratiche rituali che sono le notti in discoteca o i percorsi della deroga; o il disinteresse per tutto, messo in atto per assopire le emozioni attraverso i percorsi dell’ignavia, della nonpartecipazione che porta all’atteggiamento opaco dell’«abbastanza»; o infine alla genialità creativa se il carico emotivo è corredato da buone autodiscipline. Autodiscipline, non divieti immotivati e punizioni casuali. E perché le autodiscipline si formino occorre aver passato tanto tempo con i figli, perché la teoria secondo cui è decisiva la qualità del tempo che si passa con i figli e non la quantità è una patetica storia che noi genitori ci siamo raccontati a nostra giustificazione, lasciando ai nostri figli una gran quantità di tempo da passare in solitudine con un carico emozionale eccessivo senza strumenti di contenimento.
    Ma ormai questo parere, se ha una sua plausibilità, può tornare utile a chi mette al mondo figli oggi. Per chi li ha già in quell’età che possiamo definire dell’adolescenza infinita, resta solo da dire: non interrompiamo mai la comunicazione, buona o cattiva che sia, qualunque cosa i nostri figli facciano. A interromperla ci pensano già loro e, come ci dicono le cronache di questi giorni, anche in maniera definitiva.

    (La repubblica – 28/5/97)


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