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    Non di sola politica



    Giuseppe De Rita

    (NPG 1997-06-2)


    Credo sia coscienza comune quanto siano cambiate la composizione e la dinamica sociale della redazione della Carta Costituzionale. Contrariamente al ’47 la società è oggi una società a tanti soggetti, una società policentrica, una società a forte incidenza dei corpi intermedi, una società altamente pattizia.
    È una società a tanti soggetti perché cinquanta anni di democrazia sostanziale, e non puramente elettorale, hanno prodotto una moltiplicazione di soggetti senza precedenti: nell’economia, con la proliferazione quasi molecolare di piccole e piccolissime imprese industriali, artigianali, terziarie; nel sociale con la crescita senza precedenti di movimenti, associazioni, rappresentanze d’interessi, organizzazioni di volontariato; nel locale, con lo sviluppo dei localismi e dei distretti industriali, delle autonomie territoriali (comuni, province, comprensori, consorzi, ecc.) e delle sempre più importanti autonomie funzionali (camere di commercio, enti fiera, porti, interporti, ecc.).
    Questa moltiplicazione di soggetti ha prodotto una società a forte continua interazione di interessi, di comportamenti, di decisioni, una società quindi a forte policentrismo dei poteri. Cosa che ha evidenti difetti di sovrapposizione decisionale e di paura della non governabilità, ma che nel fondo ha una sua carica di partecipazione collettiva ai vari processi di sviluppo ed una forte carica di modernità, se è vero che nelle società ad alto sviluppo la sfida principale è la gestione della diversità, dei soggetti come dei poteri.
    Partecipazione e policentrismo sono alla base della terza caratteristica della società italiana d’oggi, cioè del peso forte (sconosciuto a quasi tutti gli altri paesi europei) dei soggetti collettivi intermedi, territoriali, sociali; dei soggetti cioè in grado di focalizzare e trasporre nei processi decisionali il variare quantitativo e qualitativo degli interessi e dei loro portatori, in modo che questi non sfocino in esplosioni conflittuali erratiche.
    Con un costante utilizzo, in tale funzione di incanalamento decisionale, dello strumento pattizio, sia a livello centrale (si pensi all’incidenza dell’accordo del luglio ’93 sulla politica di rientro dall’inflazione) sia a livello periferico (si pensi ai nuovi impegni coagulatisi nel Sud attorno alle vicende dei patti territoriali).
    Tanti soggetti, tanto policentrismo, tanti soggetti intermedi, tanta dinamica pattizia. Questa è la struttura della società italiana d’oggi, una struttura tutta diversa da quella del ’47, dove c’erano pochi soggetti, quasi niente policentrismo, pochissimi soggetti collettivi intermedi, quasi nulla cultura e prassi di patto. La revisione costituzionale deve tenerne conto, almeno per non confliggere con essa, oppure può prescinderne, concentrandosi solo sulla dimensione politica, sui suoi poteri e sui relativi modi di esercizio? Certo, al limite i politici potrebbero offrire una risposta addirittura in controtendenza, rispondendo con logiche di primato della politica, di verticalizzazione dei poteri, di democrazia diretta, di personalizzazione presidenzialistica; ma oso sperare che la risposta non sia così altera, pena non cogliere le vibrazioni e i fenomeni nuovi della società.
    Del resto se la società è cambiata, negli anni sono cambiate le istituzioni, è cambiato lo Stato. Non entro qui nelle discussioni canoniche sullo Stato minimo, sullo Stato delle regole, dello Stato «terzo» nella dinamica autoregolantesi della complessità sociale. Sono cose risapute e giuste, ma a me sembra che ci si debba concentrare sull’aspetto più evidente del cambiamento in atto: lo Stato è sempre più uno Stato-funzione e sempre meno uno Stato-soggetto. Siamo nati ad unità nazionale, con l’opera di uno Stato soggetto, anzi prima è nato lo Stato italiano, poi esso ha fatto la nazione (le ferrovie, le poste, la scuola, anche le guerre, per fare l’Italia e gli italiani). Tutto ciò ha dato al nostro apparato pubblico, risorgimentale, fascista e democratico, una connotazione di «soggetto generale», capace di scegliersi i suoi obiettivi e di perseguirli, quasi in una costante autoreferenzialità. Oggi la realtà è cambiata: lo Stato non ha più grandi obiettivi da imporre alla società, anzi è la società che chiede allo Stato di esercitare specifiche e precise funzioni, con il massimo dell’efficacia e il minimo dei costi. La scuola ad esempio non è più legittimata solo dalla capacità (se la ha) di dare ai nostri figli la formazione di cui oggi hanno bisogno; così come le ferrovie e le poste non sono più operazioni strategiche pubbliche per unificare l’Italia, ma sono funzioni da svolgere economicamente e privatisticamente quasi; e così via, in tutte le competenze dello Stato, anche quelle di più radicata connotazione istituzionale (si pensi al limite alla giustizia civile).
    Lo Stato soggetto diventa Stato funzione, sia a livello centrale che a livello periferico (dove alle autonomie locali classiche si affiancano sempre più le cosiddette autonomie funzionali, cioè camere di commercio, enti fiere, porti ed aeroporti, università, ecc.). E ciò comporta un cambiamento profondo anche nella struttura e nella cultura della pubblica amministrazione, che non può più arroccarsi nell’alterigia di far parte della autoreferenzialità statuale ma deve misurarsi su funzioni specifiche, svolte con adeguate competenze tecniche, legittimate nella sostanza dagli utenti. E tutti sanno quanto radicale sia tale cambiamento per un personale burocratico formato su funzioni genericamente amministrative, su poche competenze tecniche di settore, con nessuna voglia di dipendere dagli utenti.
    Cambia lo Stato quindi, e si pone il problema di come si possa affrontare tale cambiamento. Anche qui il primato della politica potrebbe portare la revisione costituzionale a convergenze tutte politiche, senza un confronto preliminare sul grande fenomeno del passaggio dallo Stato-soggetto allo Stato-funzione. Ma come si fa a fare nuovi assetti istituzionali senza tener conto che essi potrebbero esser alla lunga incoerenti non solo con la mutata struttura sociale ma con lo stesso intimo cambiamento dello Stato?
    La domanda va posta con determinazione anche perché bisogna prendere atto che nel corso degli ultimi anni il cambiamento della società e il cambiamento dello Stato si sono influenzati a vicenda: la società ha portato nelle istituzioni una carica forte di articolazione degli interessi e dei soggetti, di policentrismo, di patti fra e con i soggetti intermedi; e il cambiamento dello Stato si è strettamente legato ad un tendenziale processo di partecipazione e controllo da parte della utenza, specialmente a livello periferico e specialmente nei campi dove insistono gli interventi pubblici di tipo funzionale.
    L’interazione è stata anzi tale che potrei dire, pur con qualche avventezza, che nel lungo periodo tale processo di osmosi è destinato a ulteriormente svilupparsi, a patto che le riforme in preparazione non si mettano di traverso.
    Ma forse sarebbe atteggiamento troppo spontaneistico, tipo «lasciamo fare la storia e la natura». Credo invece che la politica debba maturare abbastanza orgoglio per usare appieno la sua rinnovata volontà di primato: non si adatti cioè a rifare solo i propri interni giochi, meccanismi e poteri, si conceda piuttosto l’ambizione di dire qualcosa di nuovo sulla società di oggi e di domani e sullo Stato di oggi e di domani, prendendosi carico della gestione della dinamica triangolare fra politica, Stato e società. Quella gestione che da sempre sta alla base della legittimazione della politica alla guida complessiva del sistema. (dal Corriere della sera)


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