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    L’orizzonte biblico della sessualità



    Per un’antropologia della relazione o bontà

    Carmine Di Sante

    (NPG 1997-03-44)


    Il discorso biblico sulla sessualità è problematico per tre ragioni.
    Primo: perché le affermazioni e indicazioni che si trovano nella bibbia sono scarse e occasionali, a seconda dei diversi testi che coprono, come è noto, un arco di almeno mille anni.
    Secondo: perché nei pochi casi in cui ne parla, essa fa proprie concezioni e pratiche delle culture limitrofe contemporanee. Piuttosto che instaurare nuovi modelli sessuali, la bibbia sembra assumere quasi sempre i modelli e le concezioni sessuali già esistenti negli ambienti vicini.
    Terzo: perché essa, per principio, non si interessa mai intenzionalmente ed esplicitamente dei comportamenti sessuali, essendo il suo interesse religioso: «La bibbia non ci fornisce un codice chiaro e preciso sull’etica sessuale. Nessun testo isolato e nessuna raccolta di testi sono in grado di fornirci una teologia organica e coerente sulla sessualità umana. La Scrittura non si interessa neanche della sessualità in quanto tale; la prende in considerazione come uno dei tanti aspetti della vita che si comprende giustamente solo nel contesto di tutta la persona e dell’intera vita umana...» (La sessualità umana, a cura dell’Associazione dei Teologi Cattolici Americani, Queriniana, Brescia 1978, p. 22).
    Ma problematico non vuol dire impossibile perché la bibbia, risignificando l’umano alla luce del Dio liberatore, risignifica anche (e non può non risignificare) la realtà sessuale che dell’umano è uno degli aspetti costitutivi. La ri-significazione vuol dire due cose: nuovo significato e nuovo segno. Dei due il più importante è il primo che istituisce il secondo (un «nuovo significato» porta a «nuovi segni») ma che può servirsi anche di «vecchi segni» (lo stesso segno può rivestirsi di significati nuovi). È questa la ragione per la quale la bibbia mostra poco interesse per i comportamenti sessuali in quanto tali e assume quasi sempre i modelli dei popoli contemporanei: non perché ne ignori l’importanza e neppure perché li omologhi semplicemente a quelli di tutti gli altri, bensì perché per essa ciò che è determinante e dirimente non va cercato nella sessualità e nei comportamenti sessuali in quanto tali, ma nel nuovo orizzonte o principio che li risignifica dal di dentro.
    Per la bibbia questo principio di risignificazione è l’alleanza: il principio secondo cui l’umano non obbedisce e non si istituisce sull’ordine naturale (l’ordine della natura che presiede al mondo minerale, vegetale e animale), bensì su un ordine altro che lo trascende e che si gioca sul «patto» o «contratto» di due libertà o volontà: quella divina, fondante e instauratrice, e quella umana, costituita e responsoriale. Il testo fondativo del racconto esodico, presentando Dio come volontà liberatrice che sottrae Israele dall’Egitto per stringere con lui l’alleanza sul monte Sinai, dischiude una nuova concezione del divino e, conseguentemente, una nuova concezione dell’umano, il cui perno non è più l’identità, la riconduzione delle alterità all’unità o totalità, bensì l’alterità, la messa in discussione dell’unità per introdurre al suo interno la rottura, la separazione e la ferita. Svelando Dio come Dio dell’alterità, la bibbia istituisce l’antropologia come antropologia dell’alterità: intendendo per alterità non l’alterità irrelata ma l’alterità che, per scelta incondizionata, si fa vicinanza e prossimità instauratrici dell’assolutezza dell’amore e della sua reciprocità. Alterità, relazione, asimmetria e reciprocità: questi i grandi capisaldi dell’antropologia biblica entro cui il testo sacro pensa la sessualità umana e alla cui luce la riflessione teologica può interrogarsi sul suo significato.
    Nelle pagine che seguono ognuno di questi capisaldi sarà ripreso con l’intento di mostrare come, alla sua luce, si risignifichi la sessualità umana: il suo enigma, il suo fascino, il suo mistero, la sua ambiguità. In una parola: il suo senso.

    LA SESSUALITÀ COME ALTERITÀ: DIFFERENZA

    Fenomenologicamente l’umano, non diversamente dall’animale, si dà nella duplice figura del maschile e del femminile, segnati da una irriducibile differenza che si iscrive nell’ordine stesso naturale.
    È infatti per natura – cioè per struttura biologica e corporea prima ancora che psicologica e cognitiva – che il maschile differisce dal femminile e viceversa. Differenza radicale che nessuna psicologia, nessun idealismo e nessuna ideologia possono sottoestimare e tanto meno cancellare: appunto perché iscritta nell’ordine naturale.
    Per la bibbia questa differenza – o alterità – tra il maschile e il femminile oltre che radicale è originaria e per questo irriducibile.
    A proposito è importante sottolineare quanto profondamente il mito biblico della creazione dell’uomo e della donna differisce dal mito greco dell’androgino.
    Secondo questo mito – racconto interpretativo del perché dell’umano sessuato – alle origini il maschile e il femminile esistevano nell’unità di un solo uomo come due fratelli siamesi, e fu per punizione che Zeus li divise in due metà separando l’uno dall’altro. Appunto perché originariamente unite, le due parti divise – il maschile e il femminile – tendono irresistibilmente a riunificarsi, come spiega Platone nel Simposio attraverso la voce di Aristofane: «Dunque da così tanto tempo è connaturato negli uomini il reciproco amore degli uni per gli altri che ci riporta all’antica natura e cerca di fare di due uno e di risanare l’umana natura. Ciascuno di noi, pertanto, è come simbolo di uomo, diviso com’è da uno in due, come le sogliole. E così ciascuno cerca sempre l’altro simbolo che gli è proprio» (191d).
    Per il mito platonico l’originario umano è l’unità tra il maschile e il femminile, e il duale che in esso si è istituito non è un arricchimento, essendo punizione degli dèi, ma un negativo da trascendere nel ricongiungimento delle sue parti (sim-bolo secondo l’etimo greco).
    Stando a questo mito il senso dell’umano è nella ricomposizione di questa unità originaria che si annuncia, si realizza e si invera in ogni incontro erotico e sessuale.
    Ma se dal mito platonico si passa al racconto biblico, si noterà in esso un movimento e una logica del tutto opposti: «Poi il Signore Dio disse: Non è bene che l’uomo sia solo. Gli voglio fare un aiuto che gli sia simile» (Gn 3,17).
    Come per il mito greco, anche per il racconto biblico l’originario è l’unità – l’uomo «solo», secondo il testo originale ebraico: per sé – ma a differenza del mito greco questo originario non è un positivo da ricostituire bensì un negativo da superare con l’introduzione al suo interno della rottura e del duale.
    L’essere «soli» – l’essere solo per sé, unità senza alterità e senza differenza – «non è bene», non appartiene cioè all’ordine del bene e della bontà: in primo luogo perché non promuove il bene del soggetto umano, la sua crescita e la sua felicità; in secondo luogo perché non corrisponde alla volontà di Dio, volontà di Bene, Bontà o Bene-volenza che vuole la crescita dell’umano sul principio dell’alterità e non su quello dell’identità. L’essere unità, senza alterità e senza differenza, per la bibbia è male e principio di ogni male.
    Qui va individuata la radice stessa del peccato originale: volontà di cancellazione da parte di Adamo della differenza irriducibile tra il divino e l’umano.
    In Resistenza e Resa, in una delle lettere inviate all’amico Bethge dopo aver ricevuto nel carcere la visita della fidanzata, Bonhoeffer scrive: «Non è vero che Dio colmi la distanza da chi ci è lontano; chi ci è lontano resta lontano».
    Per il grande martire e teologo della chiesa confessante Dio non è colui che colma la lontananza e riduce la differenza componendole nell’unità, bensì colui che le mantiene aperte impedendone l’annullamento.
    Dell’assolutezza di questa differenza, che Dio stesso custodisce, il maschile e il femminile, nella loro irriducibilità biologica e naturale, sono l’espressione originaria e il paradigma. Nel loro incontrarsi, più che l’unità indifferenziata, il maschile e il femminile sperimentano l’in-quietudine e la ferita che ne impediscono, nella loro irriducibile alterità, la ricomposizione e la ricostituzione.

    LA SESSUALITÀ COME RELAZIONE: DESIDERIO

    Se l’originario positivo, per la bibbia, è la differenza o alterità, si tratta ora di aggiungere che si tratta di una alterità non irrelata ma relata: un’alterità che non si curva su di sé intorno al proprio io, ma tende verso l’altro, in cerca del suo volto. Affermando l’originario come duale e non come unità, la bibbia non promuove la separatezza, dove l’uno resta indifferente all’altro e, se lo tocca, lo tocca solo tangenzialmente, ma istituisce la vera relazione che, per essere tale, esige la dualità delle alterità. Senza alterità al posto della relazione si instaura la simbiosi: dove non si è partner di fronte all’altro ma parte di un tutto organico, come il bambino prima della nascita nel corpo della madre. Perché da parte diventi partner il corpo materno deve passare per la rottura della nascita e l’istituzione del duale. Solo qui, nella dualità resa possibile dal trauma della nascita, ac-cade l’evento o miracolo della relazione tra madre e figlio. La dualità, lungi dal contrapporsi alla relazione, è la condizione per la sua instaurazione e il suo reale mantenimento. La pagina biblica dove il maschile e il femminile oltre che nella loro alterità irriducibile vengono presentati, contemporaneamente, nel loro reciproco relazionamento – il loro essere l’uno per l’altro – è sempre la pagina della Genesi: «Allora il Signore Dio disse: ‘Non è bene che l’uomo sia solo; gli voglio fare un aiuto che gli sia simile’ (kenegdo: letteralmente: «gli stia di fronte»). Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche, tutti gli uccelli del cielo e li condusse dall’uomo per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche, ma l’uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile. Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò con la costola che aveva tolta all’uomo una donna e la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse: Questa volta essa è carne della mia carne e osso dalle mie ossa. La si chiamerà donna perché dall’uomo è stata tolta. Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne. Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna» (Gen 2, 18-25).
    Secondo questa celebre narrazione biblica, l’alterità maschile e l’alterità femminile sono l’una per l’altra e solo nel loro reciproco relazionamento trovano il loro senso.
    Nell’esclamazione: «Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa» risuona lo stupore, custodito in ogni innamoramento, per il miracolo dell’incontro tra le due alterità: il miracolo dell’«io» di fronte al «tu» e del «tu» di fronte all’«io».
    Il senso del desiderio o eros, in cui la grecità ha colto la sostanza stessa dell’umano, consiste nel relazionare l’alterità maschile e l’alterità femminile sottraendole alla loro irraggiungibile lontananza e attivando il movimento dell’una verso l’altra per mezzo della bellezza attrattiva e seducente. Rivestendoli di bellezza e di valore, il desiderio colma la distanza fra il maschile e il femminile ed apre lo spazio dell’incontro: lo spazio dell’at-tirarsi, dell’attrarsi, del cercarsi e del ricercarsi, come l’amante e l’amata del Cantico dei Cantici.
    Storia – questa – paradigmatica dell’alterità maschile e dell’alterità femminile nel miracolo della scoperta del loro relazionarsi. Tutte le grandi letterature sono l’eco della potenza dell’eros alla ricerca dell’altro: cantandone la beatitudine per il possesso o il tormento per l’assenza.
    Ma se per la grecità il desiderio ricostituisce l’unità originaria («cerca di fare dei due uno e di risanare l’umana natura», come vuole il racconto di Aristofane appena citato), per il racconto biblico il desiderio più che annullare la dualità la radicalizza, essendo questa non il negativo da superare bensì l’originario intrascendibile.
    E se è vero che il testo biblico afferma che, nell’amore, l’uomo e la donna diventano «una sola carne», bisogna guardarsi dall’interpretare questa frase in senso unitario come cancellazione della dualità.
    Nella logica del testo essa vuol dire semplicemente che, nell’amore, il maschile e il femminile si realizzano in quanto relazione: lo spazio che trascende sia la riunificazione e sia l’antagonismo.
    L’amore, per la bibbia, fa del maschile e del femminile una «sola carne» (che, nell’ebraico vuol dire «soggettività») non perché annulla le loro alterità, trasformandole in unità, bensì perché le introduce nello spazio della relazione: l’evento – o miracolo – che si istituisce tra la violenza della omologazione e l’estraneità della indifferenza. Nello spazio della relazione il maschile e il femminile, più che due parti che ricostituiscono la totalità, sono due totalità che scelgono di autolimitarsi per fare spazio l’una all’altra.
    Di qui, per essa, la relativizzazione o demitizzazione del desiderio che, se ha il potere di «aprire» alla relazione, dischiudendone l’utopia, non è in grado di istituirla; e soprattutto la denuncia della sua fondamentale ambiguità per il potenziale di conflitto e di violenza che in esso si nasconde. Poiché infatti il desiderio «ri-disegna» e «ritaglia» l’altro sui propri bisogni e aspettative, è incapace di aprire all’altro, e dove l’altro rivendica la sua alterità, da principio simbolico che unisce si trasforma in principio dia-bolico che distrugge.
    Per questo, come insegna spesso l’esperienza, la storia dell’eros è anche storia dell’intreccio tra il principio sim-bolico e il principio diabolico che «avvinghia» gli amanti nel «gioco», a volte perverso, del «possesso», «della gelosia», «dell’odio», del «ricatto», «della vendetta», ecc.

    SESSUALITÀ COME ASIMMETRIA: RESPONSABILITÀ

    Se il desiderio trascrive il bisogno della relazione, senza cui l’esistenza è come morta, per la bibbia è la responsabilità il principio che la instaura: intendendo «responsabilità» nel senso etimologico di responsorialità, cioè risposta. Infatti più che nel desiderio che oggettiva l’altro, la vera relazione si instaura nell’incontro in cui si rinuncia al proprio io per accogliere e fare spazio all’altro.
    La responsabilità così intesa – come risposta all’altro e non all’io – nella storia della produzione delle idee umane rappresenta una vera «rivoluzione», ed è al suo interno che la bibbia rilegge l’eros sciogliendone la contraddizione e inverandolo.
    C’è infatti una contraddizione o tensione che abita l’eros e che si esprime nella diversa modalità con cui esso appare a chi ama e a chi è amato. Chi ama, infatti, ama l’altro condizionatamente, in quanto portatore di valore (perché «bello», «giovane», «intelligente», «simpatico», «sano», «ricco», ecc.): mentre chi è amato vuole essere amato incondizionatamente: cioè sempre e dovunque e non in quanto portatore di valore.
    L’amante ama sottintendendo sempre un «perché» (poco importa se inconfessato o esplicito), l’amato invece chiede di essere amato sempre senza perché.
    Ciò che rende l’eros affascinante e tremendo, principio di vita ma anche di morte, è questa asimmetria che l’inabita e che, per la bibbia, coincide con la istituzione stessa della responsabilità. Dei due volti dell’amore infatti – l’amante che ama incondizionatamente e l’amato che chiede di essere amato incondizionatamente – quello in cui si rivela il vero amore è il secondo: non nel senso che la bibbia legittimi il diritto – pretesa infantile e delirio di onnipotenza – ad essere amati incondizionatamente, bensì nel senso che la richiesta incondizionata dell’altro ad essere amato è appello all’io ad uscire dal suo io per farsi accoglienza dell’alterità dell’altro. Nel desiderio dell’altro in cui si iscrive il «bisogno» ad essere amato incondizionatamente risuona, per la bibbia, un’istanza o principio di trascendenza (in termini religiosi la voce di Dio o il suo comandamento come comandamento dell’amore) che, rivolgendosi all’io, lo istituisce come responsabile generandolo dalla pretesa di essere amato, suprema realizzazione dell’io e interessamento, alla vocazione ad amare, sua derealizzazione e disinteressamento.
    Per la bibbia il vero amore si istituisce non intorno all’io che si autocelebra avvinghiandosi intorno a se stesso, bensì intorno all’altro ponendosi a suo servizio.
    La formula con cui nella bibbia si esprime questo amore centrato sull’altro e non sull’io è l’imperativo ad amare «lo straniero», «l’orfano», la «vedova», «gli emarginati», ecc. Comandando di amare categorie come queste, rappresentative per eccellenza di ciò che resta estraneo e marginale all’io, più che estendere l’amore di desiderio dalla cerchia dei propri a quella degli estranei («oltre ad amare i tuoi ama anche gli altri»), la bibbia instaura un nuovo amore: non l’amore verso l’altro che attrae bensì l’amore verso l’altro nella sua irriducibile alterità da riconoscere, da accogliere e da custodire.
    Si tratta di un amore altro dall’amore di desiderio, suo radicale capovolgimento e nuovo amore, che da movimento verso l’altro per riempirsi e appagarsi si transustanzia in movimento verso l’altro per chinarsi sul suo dis-valore per eliminarlo: non più l’amore che si arricchisce attraverso l’altro bensì l’amore che si mette da parte per far essere l’altro; l’amore come accoglienza, come ospitalità, come gratuità e come disinteressamento: l’amore come bontà, come benevolenza, come grazia e come asimmetria, unica vera eccezione che infrange il determinismo della natura e della storia introducendovi l’evento, il nuovo, il miracolo, la sorpresa e la meraviglia.
    Questo nuovo amore – l’amore di alterità come bontà e come disinteressamento in cui la bibbia legge il senso alto dell’umano – riguarda anche l’amore di desiderio: perché, al di là del desiderio con cui ama e con cui è amato, il partner erotico resta sempre alterità irriducibile che chiede di essere riconosciuta e accolta come tale; «volto», come vuole Lévinas, che, inoggettivabile e irrapresentabile, diventa crisi e in-quietudine dell’io e delle sue pretese egoistiche; desiderabile che interrompe il desiderabile e istituisce l’orizzonte della responsabilità indeclinabile.
    È forse falso dire che l’amore di alterità riguarda soprattutto il rapporto maschile e femminile divenendone istanza critica che impedisce al desiderio di trasformarsi in rete avviluppante che cancella l’alterità dell’altro («fidanzato», «fidanzata», «sposo», «sposa», «figlio», «amico», ecc.) ritagliandolo su misura in un gioco di violenza tanto più distruttiva quanto più inconsapevole? E non è vero che in un rapporto d’amore lo «sposo», la «sposa» o il «figlio» restano quasi sempre i «più lontani» ed estranei difficili da accettare e rispettare?
    La novità biblica sulla sessualità umana è di sottrarla all’orizzonte desiderativo e di eticizzarla innestandola sul principio responsabilità per il quale, nel rapporto d’amore, il maschile e il femminile sono chiamati a prendersi cura in uno spirito di accoglienza e di fedeltà che trascende l’ordine del sentimento e si radica in quello della volontà come volontà di bene. Per questo, secondo la bibbia, «l’uomo non separi ciò che Dio ha unito»: perché il rapporto d’amore è rapporto di alleanza, dove l’uomo è chiamato ad amare la sua donna con lo stesso amore gratuito e disinteressato con cui Dio ha amato Israele e Cristo la sua chiesa. E viceversa.

    SESSUALITÀ COME AUTOREALIZZAZIONE: PIACERE, FELICITÀ E GIOIA

    La eticizzazione dell’eros (il suo innesto sul principio responsabilità o bontà o, in termini biblici, agape) non ne costituisce la castrazione, come teme il nichilismo nietzschiano e postmoderno, ma il principio che ne permette l’in-veramento: il dispiegarsi della sua verità che è il raggiungimento della felicità. Da sempre le culture umane hanno contato l’eros come l’utopia della felicità. Ma l’utopia nel senso di «non-luogo», e quindi inesistente, come vuole uno dei suoi probabili etimi (u come privativo), oppure nel senso del «luogo buono» veramente esistente, come vuole l’altro probabile etimo (u come eu)? Insomma l’incontro erotico e sessuale è davvero lo spazio della felicità umana o non piuttosto l’ennesima figura della Illusione e dell’Inganno dove l’io scambia le ombre per il reale, alienandolo e alienandosi?
    È noto il rimprovero che molti muovono alla bibbia e alla tradizione cristiana per avere creato una cultura sessuofobica, incentrata sulla repressione e rimozione del piacere sessuale. Bisogna riconoscere in questa critica una parte di verità, ma a condizione di precisare che più che al testo biblico anticotestamentario e neotestamentario, la sessuofobia e il rigorismo morale devono essere addebitati alle interpretazioni che di esso sono state fatte in alcuni momenti storici e per ragioni determinate (come, ad esempio, l’incontro del cristianesimo con le correnti gnostiche e dualistiche di origine platonica).
    In realtà la bibbia non teme il piacere sessuale, che canta in tutta la sua bellezza e il suo incanto attraverso il Cantico dei Cantici, uno dei testi più erotici che mai siano stati scritti e che assume in tutta la sua finitezza, senza ridurlo, come fa la grecità, a tappa verso il divino. Ma a differenza della grecità la bibbia relativizza il piacere, nel senso etimologico che lo riferisce alla relazione che, nell’amore, si instaura tra i due amanti transvalutandolo così in felicità. Anche se nel linguaggio ordinario i due termini vengono spesso omologati, in realtà tra di essi resta una differenza irriducibile: perché il piacere è sentimento di pienezza che all’io viene dal suo sé appagato, mentre la felicità è sentimento di pienezza che all’io viene dalla relazione con il tu. Tra l’uno e l’altra corre un abisso, perché il primo si iscrive e si trascrive nell’ordine della egoità chiusa ed irrelata, dove l’io è di fronte al tu, chiamato a rispondergli mettendosi in discussione e rinnegandosi. A differenza del piacere la felicità è invocazione della relazione, e dove questa manca o si conflittualizza l’esperienza erotica, come insegna l’esperienza, si tramuta in inferno. Parlando della creazione della donna da parte di Dio, il testo biblico la motiva come «aiuto simile» dato all’uomo. Il testo originale biblico è kenegdo: che significa letteralmente sia «di fronte» e sia «di contro».
    La donna è il di fronte dell’uomo, il suo tu e il suo volto. Al di fuori di questo «tu» e di questo «volto» l’incontro erotico è collusione di due egoità che si divorano e si estraniano sempre più. Che forse la postmodernità che ha liberalizzato l’eros tanto più ricerca il piacere quanto soffre di carenza di relazione? E non è vero che in ogni richiesta ed esercizio di sessualità si cela inespresso l’appello alla relazione?
    Ma il linguaggio ordinario e il testo biblico conoscono un terzo termine che, ad un’analisi attenta, non è riconducibile né al piacere né alla felicità: il termine gioia. Questi termini esprimono tutti un sentimento di positività dell’io (è questo il minimo comune denominatore per cui, nel linguaggio ordinario, possono essere spesso cambiati) ma differiscono per le ragioni che suppongono sottese ad essi: l’appagamento dell’io in quanto essere di bisogno nel primo caso, la relazione riuscita tra l’io e il tu nel secondo caso, la volontà di bene dimentica di sé e capace di gratuità, di accoglienza e di ospitalità nel terzo caso.
    Per la bibbia la gioia – quella per la quale Gesù è venuto e ha pregato – non fiorisce né sul terreno della soddisfazione (perché tutti i bisogni e i sogni dell’io sono colmati) e neppure dalla relazione riuscita (perché l’io ha trovato il suo partner ideale), bensì sul terreno della bontà e del disinteressamento con cui l’io esce dal suo io e va incontro all’altro facendoglisi prossimità incondizionata.
    L’eros – utopia di piacere che nasce dalla relazione – per la bibbia fiorisce entro la bontà o agape. Questa non è l’alternativa al piacere sessuale e alla relazione, ma il principio ultimo e radicale che istituisce la possibilità dell’uno e dell’altra. Come in assenza della relazione il piacere sessuale si trasforma in espressione di pura egoità, così senza la bontà come gratuità e come accoglienza della estraneità e della stessa inimicizia la relazione umana entra nel gioco dell’apparenza e si espone al rischio del fallimento.
    Nella sua lettera alla comunità dei Galati Paolo scrive che in Cristo non esistono più né «maschio»né «femmina»: non perché abolisca il maschile e il femminile (che anche dopo il Cristo sono rimasti e rimangono tali!), bensì perché ne trasmuta il senso dall’ordine naturale all’ordine personale, dove essi valgono non in quanto tali ma per la bontà o santità di cui sanno farsi espressione.
    A mediare il divino, per la bibbia, non è più la potenza della natura, che si esprime nella forza o istinto sessuale, bensì l’evento della libertà che si apre all’altro accogliendone l’alterità. Per questo per essa il principio della creazione non è più affidato ai corpi che si attraggono – la sessualità – bensì alle libertà che si accolgono incondizionatamente – la bontà –.
    Entro la bontà il piacere, sdivinizzato e riconsegnato alla sua finitezza, si invera coniugandosi con la felicità e con la gioia. L’io realizzato è l’io il cui compimento (piacere) nasce dalla relazione riuscita (felicità) istituita sulla gratuità o bontà (gioia).


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