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    «Laboratorio» di alterità e responsabilità



    Carmine Di Sante

    (NPG 1997-01-35)


    I dati sociologici non lasciano dubbi al riguardo: la famiglia è attraversata da una crisi profonda che la scuote dalle fondamenta. La ragione di questa crisi, secondo gli osservatori, è nell’affermarsi al suo interno del principio «individualismo»: il principio dell’io come istanza primaria e irrinunciabile.
    L’affermazione del principio «individualismo» (che i sociologi caratterizzano come «proprietario», in quanto limitato alla sfera soprattutto economica del «possesso» e come «di massa», in quanto atteggiamento sempre più diffuso) vuol dire che, all’interno della famiglia, ognuno dei componenti rivendica come prioritaria la ricerca della propria autorealizzazione e della propria felicità. In concreto: la madre afferma i suoi «diritti» di donna non più disposta a sacrificarli alla sua funzione di «mamma» o di «sposa»; il padre i suoi «diritti» di uomo, non più disposto a posporli al ruolo di «padre» e di «sposo»; lo stesso vale per tutti gli altri componenti (figli, suoceri, ecc.) che si vivono come soggetti rivendicanti uguale dignità e autonomia.
    Ma l’affermazione della priorità della felicità dell’io è conciliabile con l’uguale affermazione della priorità della felicità dell’altro? Oppure l’uno nega l’altro, innescando dei conflitti difficilmente componibili? Sempre la ricerca sociologica afferma che il modello «classico» di famiglia si sta frantumando in una pluralità di nuovi modelli (16 secondo gli ultimi dati dell’Istat!). Se questa pluralità, per un verso, è segno di ricchezza per lo spazio di libertà e di riconoscimento per le scelte che consente, per l’altro verso è indubbio che è anche principio di conflitto per le lacerazioni che produce.
    Ma a parte questi dati registrati dalla ricerca sociologica, per il credente resta il problema di come valutarli alla luce della sua fede nel Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe e di Gesù: espressione di liberazione di cui rallegrarsi, come vogliono i cantori dei «diritti» dell’io, o minaccia alla fede di cui preoccuparsi, come temono i rappresentanti delle gerarchie ecclesiali? Oppure ancora – più realisticamente – né espressione di liberazione né minaccia ma kairos, occasione urgente e privilegiata, per ripensare ed incarnare il messaggio di liberazione della fede biblica all’interno delle nuove situazioni familiari, quali esse siano?
    Le pagine che seguono si ispirano a questa terza pista riflessiva e offrono alcuni spunti alla cui luce ricomprendere il rapporto tra fede biblica e famiglia nella situazione di complessità e di conflittualità in cui questa versa.

    La crisi del «modello» naturale

    Con la frantumazione del modello univoco del passato, si va sfaldando la concezione della famiglia pensata sul modello naturale: il modello secondo cui l’umano, non diversamente dall’animale e dal vegetale, è «portato» e garantito da una forza – spinta, energia o «istinto» – che ne determina la struttura e il fine.Secondo questo modello, nel loro essere sessualmente differenziati, l’uomo e la donna sono abitati da una forza – la forza dell’amore o natura – che li «guida», realizzando la loro felicità e la sopravvivenza della specie umana. La famiglia è lo spazio riconosciuto e istituzionalizzato della natura umana riuscita, dove l’uomo e la donna raggiungono il fine, e la «felicità» che per Aristotele coincide con il fine realizzato.
    La crisi della famiglia in atto è crisi soprattutto di questo modello naturale, dove matrimonio, sessualità, piacere, fecondità, procreazione ed educazione costituivano una figura unitaria; ed è l’esplosione di nuovi modelli familiari pensati e realizzati non più sul presupposto di un ordinamento già dato e prefissato al soggetto umano – la sua natura da riconoscere e obbedire – bensì sulla progettualità del soggetto umano istitutrice essa stessa dell’ordine valoriale. Per questo negli Stati Uniti al posto di sesso maschile e di sesso femminile sempre più si parla di «gender» (genere) inteso in almeno cinque sensi: maschile come tendenza al maschile, femminile come tendenza al femminile, maschile come tendenza al femminile, femminile come tendenza al maschile, maschile e femminile senza tendenza. Non si tratta di una innocente mutazione di linguaggio, bensì dell’emergenza di una figura antropologica nuova che insedia il principio libertà nel sacrario stesso della sessualità umana trasformata da forza plasmatrice della soggettività umana a forza plasmata da quest’ultima.
    Se ora, di fronte alla crisi della famiglia come modello naturale, si interroga il testo biblico, sia anticotestamentario che neotestamentario, si rimane colpiti da un fatto paradossale: che anche qui è assente il modello naturale e che la famiglia viene istituita non sul principio natura bensì sul principio alleanza o patto, cioè sul principio di una libertà che si fa responsabilità, di una libertà che da libertà per l’io si fa libertà per l’altro. Alla bibbia è talmente estranea l’idea di un uomo che agisce naturalmente – per una forza iscritta nel determinismo del suo essere biologico, psicologico o spirituale – che essa manca dello stesso termine «natura». E la ragione di questa assenza non è casuale ma strutturale alla concezione biblica del reale, per la quale l’umano non è una modalità del naturale, dove vige il principio della «energia», come energia «formante» o «determinante» («istinto») impossibile da contrastare, ma una modalità in-naturale, nel senso che trascende l’ordine della natura, dove si è predeterminati, e istituisce l’ordine della libertà, al di là di ogni determinazione e di ogni determinismo.
    Da questo punto di vista la crisi della famiglia in atto, più che una minaccia, per il credente è un’occasione privilegiata per la riscoperta della fede biblica e della sua potenza di liberazione dentro la molteplicità delle nuove situazioni e dei nuovi modelli familiari.

    L’instaurazione dell’amore come «alleanza»

    L’affermazione che la bibbia legge l’umano non con il principio natura bensì con il principio alleanza, riferito all’amore significa sostanzialmente due cose.
    Innanzi tutto la riscrittura dell’amore dall’ordine della spontaneità all’ordine della libertà: ti amo perché sono io che scelgo di amarti e non perché l’attrazione mi porta ad amarti. Questa – l’attrazione come forza che spinge verso l’altro – se ha il potere di dischiudere al soggetto umano l’orizzonte dello stupore e della felicità ricreante (lo «stato nascente» tematizzato da Alberoni), non è però in grado di istituirlo. In un noto libro apparso negli anni Cinquanta, L’arte di amare (1956), il grande psicologo e filosofo ebreo E. Fromm smascherava il pregiudizio secondo cui amare significa essere amati e delineava una teoria dell’amore che lo sottraesse all’ordine dell’animale, dell’indistinto e dell’istinto per instaurarlo in quello dell’agire retto e finalizzato da apprendere, come si apprende l’arte pittorica o l’arte musicale. Scriveva Fromm nella sua introduzione: «La lettura di queste pagine potrebbe essere una delusione per chi si aspetta una facile istruzione sull’arte di amare. Questo volumetto, al contrario, si propone di dimostrare che l’amore non è un sentimento al quale ci si possa abbandonare senza aver raggiunto un alto livello di maturità. Vuole convincere il lettore che ogni tentativo d’amare è destinato a fallire se non si cerca di sviluppare più attivamente la propria personalità; che la soddisfazione, nell’amore individuale, non può essere raggiunta senza la capacità di amare il prossimo con umiltà, fede e coraggio. Senza queste virtù è impossibile amare veramente» (L’arte di amare. È possibile l’amore nella civiltà repressiva?, Il Saggiatore, Milano 1963, p. 9).
    Se queste parole di Fromm erano provocanti quando furono scritte, ancor più lo sono a distanza di quasi cinquant’anni, in questo fine secolo dominato dall’invasione dei mass-media e della TV che, per scopi commerciali, «liberalizzano» l’eros, deresponsabilizzandolo e riducendolo alla dimensione solo di sentimento.
    Ma cosa vuol dire la riscrittura dell’amore dall’ordine della spontaneità all’ordine della libertà, se non l’istituzione di un nuovo amore inteso come «de-cisione» o responsabilità per l’altro? È qui – nella istituzione dell’amore come indeclinabile responsabilità per l’altro – la potenza di senso dischiuso dal principio alleanza che transustanzia l’amore da amore-per-l’io ad amore-per-l’altro: dove l’altro non è più amato in quanto oggetto del desiderio e momento interno alla realizzazione e felicità dell’io bensì in ragione di se stesso, come fine in sé e alterità irriducibile. L’amore di alleanza prospettato dalla bibbia trascende l’ordine della spontaneità e lo stesso ordine della libertà, e si fa «ac-cordo» di volontà che si fanno accoglienza e ospitalità incondizionate.
    È qui che va individuato il senso profondo dell’affermazione del matrimonio come «contratto»: che non vuol dire legge che coarta bensì patto di volontà per la realizzazione di un amore che da condizionato («ti amo perché mi piaci») si fa incondizionato («ti amo sempre e comunque»).
    Piuttosto che sul «mito» del sentimento, il vero amore si istituisce sul volere buono che, come quello di Dio, si fa gratuità e disinteressamento. L’amore come gratuità e disinteressamento non nega il sentimento ma è il principio che lo alimenta, sottraendolo all’alea, riattivandolo quando minaccia di logorarsi e impedendo, in caso di conflitto, di pervertirsi nella figura contraria dell’odio vendicatore e distruttivo. Dire ai giovani che il matrimonio è basato sul sentimento è insufficiente e ingannevole perché, quando questo si attenua, si può essere tentati di pensare che tutto sia finito; mentre la prospettiva del matrimonio come «patto» di amore o «accordo» di volontà è un antidoto che soccorre proprio nel momento delle difficoltà e della crisi.

    Lo spazio dell’alterità

    Narrano i sinottici che un giorno, mentre Gesù parlava alla folla, «sua madre e i suoi fratelli, stando fuori in disparte, cercavano di parlargli. Qualcuno gli disse: ‘Ecco di fuori tua madre e i tuoi fratelli che vogliono parlarti’. Ed egli, rispondendo a chi lo informava, disse: ‘Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?’. Poi stendendo la mano verso i suoi discepoli disse: ‘Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli; perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre» (Mt 12, 46-50; cf Mc 3, 31-35; Lc 8, 19-21).
    In questa pagina paradossale – una delle più imbarazzanti per le comunità cristiane che, per questo, quasi sempre l’hanno rimossa – l’amore parentale non viene né cancellato né spiritualizzato ma risignificato ad un livello radicale che ne costituisce l’in-veramento, nel senso etimologico di ingresso nello spazio della verità, in cui si sottrae all’apparenza e all’ambiguità. Questo spazio è lo spazio dell’alterità entro cui si istituisce una paternità, una maternità, una fraternità e una sororità che trascendono l’amore naturale e si aprono a quello personale.
    Naturale è quell’amore dove il legame tra chi ama e chi è amato è anteriore alla libertà dell’uno e dell’altro, già dato e istituito dalla «natura» nel senso di «ciò che è dato all’io indipendentemente dall’io».
    Se naturale, una madre non può non amare suo figlio oppure un fratello la sua sorella, e dove avviene il contrario (come nella società dell’individualismo si verifica sempre più facilmente) più che nell’evento della libertà mancata le ragioni vanno cercate nella dotazione di una natura malriuscita o ingrata.
    Personale invece è quell’amore dove il legame tra chi ama e chi è amato è istituito della propria libertà: ti amo non perché tu mi sei vicino per «natura» («famiglia», «gruppo», «club», «nazione», «chiesa» o «ideologia») bensì perché io scelgo di esserti vicino. A differenza dell’amore naturale, dove l’amore è amore per il già vicino (amare «i propri»!) e dove la prossimità è prossimità dello stesso e dell’identico, l’amore personale ama l’altro nella sua alterità e istituisce una prossimità che è prossimità tra i diversi e i lontani.
    Così inteso l’amore personale non è una variante dell’amore naturale ma l’ingresso, nella storia, di un amore altro dall’amore naturale: l’amore come bontà o come disinteressamento che, invece di realizzare il proprio io attraverso l’altro, realizza l’altro attraverso la messa in discussione del proprio io.
    Per la bibbia è l’amore così inteso – l’amore come bontà e come disinteressamento – il principio ultimo che «invera» (nel senso che ne rivela e ne fa la verità) i rapporti familiari: sottraendoli alla logica della identità, dove ognuno tesse intorno all’altro una rete di giochi e di attese che a lungo si rivelano asfissianti, e aprendoli allo spazio dell’alterità, dove ognuno vive lo stupore di essere amato e accolto come fine in sé e non perché «padre», «madre», «fratello», «sorella» o «figlio». È questa la ragione per la quale Gesù dichiara che solo chi fa la volontà del Padre – volontà di amore gratuito che chiama ad uguale amore gratuito – gli è «madre», «padre», «fratello» e «sorella»: perché solo nell’amore gratuito accolto e ridonato la «maternità», la «paternità», la «fraternità» e la «sororità» – le esperienze costitutive dell’umano – raggiungono la loro verità escatologica, cioè ultima.

    La famiglia «aperta»

    Reinnestata sulla bontà – che la bibbia neotestamentaria chiama agape – la famiglia da spazio «chiuso», abitato dai «propri», che si contrappone al mondo esterno, abitato dagli «estranei», si fa spazio aperto dove, «laboratorio» delle alterità, si apprende il linguaggio dell’amore «universale»: intendendo per universale non la pretesa di amare tutti (contro una pretesa simile Don Milani reagiva con violenza ricordando che lui non riusciva ad amare più di una dozzina di ragazzi alla volta!), ma la capacità di leggere nel «proprio» particolare – il «mio» padre, la «mia» madre, il «mio» figlio, il «mio» fratello o la «mia» sorella – invece del limite che esclude gli altri la parte che li rappresenta tutti e li promuove. Amore universale non è quello in cui ci si culla di amare tutti indistintamente, bensì quello che nel «proprio» figlio vede ogni altro figlio, nel «proprio» padre ogni altro padre, nella «propria» sposa ogni altra sposa e nel «proprio» fratello o sorella ogni altro fratello o sorella. L’amore universale è dato da questo sguardo che non divide più il mondo in amati e in non-amati, in vicini e lontani, in amici e nemici e che volgendosi gratuitamente su ognuno istituisce, ad imitazione del Dio biblico, lo spazio della relazione asimmetrica che, per principio, vince l’estraneità e l’inimicizia.
    Rileggere la famiglia – la sua complessità, la sua conflittualità e le trasformazioni dei suoi modelli in atto – alla luce del Dio biblico, come «patto» o «alleanza d’amore», trasferendola dal livello dell’amore naturale a quello dell’amore personale, è farne lo spazio o il «laboratorio» di apprendimento di questa relazione asimmetrica, dove si sperimenta e si istituisce il «vero» amore come amore che si vuole incondizionato, come si annuncia e si trascrive nella esperienza stessa dell’innamoramento.
    Di fronte alle trasformazioni profonde della famiglia in atto e di fronte allo sconcerto che molti provano di fronte ai nuovi modelli familiari emergenti, compito delle comunità cristiane non è quello di promuovere inutili crociate bensì di annunciare, con la testimonianza e con la parola, che il vero amore si istituisce sulla base della relazione gratuita ed asimmetrica di cui ogni «io» ha, nelle proprie mani, il segreto e la possibilità.
    Annunciare questo amore – altro dall’amore di desiderio che realizza l’io ed evento di bontà che si derealizza per far essere l’altro – non è solo istituire lo spazio della comunione radicale dove l’esperienza di solitudine dell’uomo postmoderno è appello al farsi vocazione e responsabilità ad amare; ma è proclamare anche una parola di giudizio che, nella trasformazione dei modelli familiari in atto, aiuti a capire i soggetti coinvolti quanto dei nuovi percorsi e delle nuove rivendicazioni corrisponda ad un inveramento dell’amore, come movimento verso l’altro, e quanto invece alla sua eclissi, a causa di un io sempre più narcisista, curvato su di sé e incapace di relazione.
    La proposta biblica della famiglia come «patto di amore», sull’esempio del «patto d’amore» tra Dio e il suo popolo, come non legittima i modelli familiari (neanche quello cosiddetto «naturale»), neppure li contrasta o li condanna per principio. Oltre la legittimazione e oltre la condanna, la proposta biblica dischiude, dentro tutti i modelli storicamente dati, una possibilità di comportamento che li trascende: la possibilità dell’amore come ospitalità dell’alterità dell’altro e come accoglienza della sua estraneità e della sua stessa inimicizia.
    Alla luce di questo amore – l’amore come gratuità e come disinteressamento – tutti i modelli familiari (sia quello «naturale» come quelli nuovi che stanno emergendo) mostrano la loro fondamentale ambiguità e non possono non confrontarsi con il principio che li sottintende: se l’identità, che riassorbe la relazione nel movimento dell’io verso l’io, o l’alterità, che fa compiere all’io l’esodo dalla sua terra per introdurlo in una nuova terra: quella della bontà, della responsabilità e della santità.


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