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    L’areopago giovanile



    Juan E. Vecchi

    (NPG 1997-04-03)


    Areopago è ormai entrato nel vocabolario pastorale. Non mancherà certamente nei prossimi dizionari. È l’icona di una situazione in cui annunciare Cristo e una forma di farlo. La situazione è data dalla mancanza di ogni notizia e persino attesa esplicita del Vangelo. Vi sono però spazi fisici ed umani dove se ne può parlare; c’è gente disposta ad ascoltare riservandosi di discutere, esprimere un’opinione ed estrarre le proprie conclusioni. «Per tutti i cittadini di Atene e per gli stranieri che vi abitavano il passatempo più gradito era ascoltare e raccontare le ultime notizie» (At 12,21).
    La forma dell’annuncio è quella tentata da Paolo: farsi presente e accettare il confronto, partire dai desideri anche generici ed inespressi, valorizzare i semi di religiosità, esprimersi con gli elementi della cultura, sfidare con la novità che viene incontro alla ricerca, ma va pure oltre. Tutta l’evangelizzazione si svolge oggi in un areopago: quello della cultura secolare, multimediatica, postideologica, segnata dal valore della soggettività. Ma ci sono alcuni gruppi e realtà dove l’icona dell’areopago appare più attinente. La gioventù è certamente uno di essi.
    I dati sui giovani nei quali il riferimento cristiano o religioso si è offuscato scoraggiano ogni illusione. Le statistiche non lasciano spazio a dubbi. Lontananza, abbandono prematuro e irrilevanza segnano il rapporto di una grande fetta di gioventù con le istituzioni, temi e persone religiose. I luoghi della vita, dei progetti e delle «buone notizie» sono altri. La pastorale giovanile è dunque in stato di missione. Si trova di fronte a giovani che non hanno mai avuto contatto con la chiesa; che l’ebbero, ma insufficiente a suscitare la fede; che si sono allontanati dopo una esperienza iniziale piena di promesse.
    Fare l’annuncio e mediare un incontro con Cristo in minima parte significa convocare e attendere i giovani in ambienti predisposti per il discorso religioso. Comporta invece uscire verso spazi fisici e temi di vita non confessionali, dove i giovani si trovano quasi come in un loro ambiente naturale. Il mondo giovanile è terra di missione per il numero di soggetti che debbono riascoltare il primo annuncio, per le forme di vita e i modelli culturali ai quali non è ancora giunta la luce del vangelo, per il linguaggio verbale, mentale ed esistenziale che non combacia con quello tradizionale. Chi ha fatto una prima esplorazione di questa terra arriva però alla stessa conclusione dell’Apostolo: «Vedo che siete gente molto religiosa da tutti i punti di vista» (At 17,32).
    Come aiutare questi giovani a nominare il Dio ignoto al quale in molti hanno eretto un altare? Una prima condizione è riorientare la nostra mentalità pastorale. Il servizio ecclesiale alla gioventù è ancora visto come un compito di conservazione di quelli che già ci sono e solo marginamente come «uscita» verso i lontani. Il contatto con questi sembra retaggio di qualche pioniere piuttosto che sogno della comunità e criterio orientatore di tutta l’azione evangelizzatrice. Non è maturata la convinzione che siamo in terra di missione. Le strutture, i progetti, le forme di predicazione e di presenza cristiana non rispondono ancora a questo scopo. Bisogna ridistribuire gli sforzi, puntare a raggiungere in qualche modo quelli che non si avvicinano spontaneamente.
    Il cambio di prospettiva porta a considerare i giovani lontani, non disinteressati al senso e alla fede ricevuta, ma interlocutori disponibili ai quali il Vangelo può e deve risuonare come novità di vita. L’azione missionaria chiede di ristabilire il contatto, di rendere possibile l’incontro fisico. La prima cosa da fare è sbarcare, mettere i piedi a terra, iniziare a condividere e a convivere. Così la pensano i missionari che partono verso paesi non evangelizzati.
    Oggi c’è una allarmante mancanza di luoghi di incontro tra la Chiesa e la gioventù. Si impone la necessità di creare nuovi ambienti di incontro, di breve, media o lunga durata: personali, di gruppo o di massa. Alcune parrocchie hanno spazi per il tempo libero, per dibattiti culturali e iniziative sociali. In questi ultimi anni si sono moltiplicate altre forme di incontro: marce, pellegrinaggi, campi, concentrazioni e simili. Essi convocano un numero per nulla indifferente di giovani che si trovano a diversi livelli di fede.
    Tuttavia, i luoghi di cui parliamo non possono essere soltanto quelli organizzati dalla comunità cristiana. È necessario «uscire» alla ricerca, andare negli ambienti che gli stessi giovani o le diverse organizzazioni secolari hanno creato con altri scopi, ma non necessariamente contro le preoccupazioni religiose. Tradizionalmente le scuole pubbliche, le università e, nei casi in cui si seppe osare di più, le fabbriche diventarono teatro di incontri. Oggi non bastano: non sono i luoghi dove sorgono o si elaborano le preoccupazioni vitali e le domande sul senso della vita. Il loro valore simbolico è diminuito mentre si sono delineati altri ambienti significativi. Basta pensare allo sport e allo spettacolo, al turismo e ai movimenti trasversali, alla strada e ai circoli di vario interesse.
    Compito importante della pastorale è oggi scoprire gli «spazi» giovanili dove conviene «fare missione», collocare «stazioni» in posti strategici. Alcuni sacerdoti e laici lavorano con gli emarginati (emigranti, disoccupati, tossicodipendenti). Si incontrano con i giovani in luoghi pubblici o in ambienti di accoglienza. L’annuncio unito al gesto di solidarietà rivela immediatamente il suo significato e la sua forza salvatrice.
    Nei tempi dell’elettronica bisogna calcolare anche gli spazi non materiali, cioè quelli creati dalla comunicazione. La «radio-video diffusione» si è liberalizzata. Non è più monopolio statale né di gruppi industriali. La comunicazione con tutta una comunità cittadina o nazionale si considera come un diritto di ogni persona. Ci sono emittenti «private» che si propongono come intermediarie di un dialogo a distanza, ma continuo tra i giovani. Le iniziative in questo campo sono forse l’impegno più urgente delle comunità cristiane.
    L’incontro fisico, pur essendo un mezzo per eliminare barriere, non risolve totalmente la questione dell’annuncio. Si sperimenta oggi una certa difficoltà nel presentare la fede come spiegazione che dà senso alla realtà e come un aiuto efficace per risolvere i problemi umani. Si giustifica allora la domanda: come presentare il messaggio affinché sia un’interpellanza, una rivelazione e non una «predica», una dichiarazione di convinzioni private, una propaganda religiosa in cerca di adepti.
    Si è discusso fin troppo se è meglio preparare prima il terreno lavorando su alcuni aspetti umani che aprono alla fede o se affidarsi alla forza di impatto e illuminazione che la Parola di Dio possiede e nell’azione dello Spirito Santo nel cuore della persona. La contrapposizione tra le due modalità non ha molto senso, soprattutto se si pretende di stabilire una regola generale. Trattiamo con persone e le norme fisse hanno poco valore.
    Che la fede abbia bisogno di «preamboli» è convinzione antica e costante della Chiesa, con fondamento nella natura stessa dell’atto di credere. L’accoglienza dell’annuncio evangelico suppone l’accettazione dell’esistenza di Dio, della validità dei segni di credibilità di Cristo, dell’obbligo morale di seguire la coscienza.
    Oggi si tratta di motivare un primo movimento verso la fede appellandosi alle esigenze della persona. I suoi desideri profondi, le sue aspirazioni, le sue dimensioni incontrano una risposta-proposta, una soddisfazione-superamento in Cristo. Questi, con la sua esistenza e con la rivelazione del Padre, è per ogni uomo fonte di senso, di orientamento e di energia; via, verità e vita. Ciò viene annunciato, e quelli che vi credono ne fanno esperienza; per questo possono, anche a loro volta, comunicarlo.
    Un altro tipo di provocazione alla fede sta nel considerare la persona con i suoi interrogativi e Cristo con le sue proposte di vita in interazione con un contesto storico concreto: emergono così i temi della prassi. Il progetto di Dio in Cristo, accolto da persone e comunità, produce trasformazioni storiche che creano spazi di dignità e di salvezza.
    La verità, l’esistenza, la prassi sono oggi riferimenti fecondi e finiscono per integrarsi secondo un ritmo e una combinazione propri in ciascun soggetto. Non c’è motivo serio per escludere qualcuno di essi. Bisogna ancora mostrare come il vangelo susciti energie storiche sui temi della giustizia, della pace e della fraternità. Si aprono così finestre, che nella mentalità secolarizzata e nella confusa esperienza religiosa oggi generale consentono di intravedere il significato originale del Vangelo.
    Ma anche l’invito e la sfida diretta alla conversione hanno la loro forza quando le condizioni della persona o le caratteristiche del testimone li sostengono. Il non sperato, l’inattuale, ciò che è radicalmente critico di tutto quello che costituisce le nostre preoccupazioni correnti sono parte essenziale del messaggio evangelico. È un dato umano che l’incontro con una realtà nuova e non attesa scuote la persona, apre orizzonti insospettati anteriormente, cambia profondamente l’impostazione della vita...; l’incontro con l’altro, il nuovo, il non sperato formano parte dell’esperienza umana.


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