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    La fede in una società secolarizzata



    Armido Rizzi

    (NPG 1997-07-31)


    Il primo passo di una fede matura è quello di essere se stessa, senza perdersi nella genericità dell’umano, per quanto elevata questa possa essere; ma, al tempo stesso, è confrontarsi con l’umano nella sua più generale fisionomia e nelle sue più differenziate espressioni.
    Il secondo passo è ritrovare il posto della ragione come ermeneutica, cioè interpretazione dell’esperienza: una fede matura, infatti, accetta il rischio della verifica di se stessa.
    Il terzo passo consiste nella consapevolezza che la fede non è il tutto che assorbe in sé le alterità, ma è il discernimento sapienziale che celebra l’azione nascosta del Risorto, amore vittorioso che vince sull’egoismo, pace che spegne la violenza, unità che scongiura la divisione.
    Infine l’ottica della fede pur rispettando lo stile psicopedagogico di trasmissione dei suoi contenuti in base al principio d’autorità, ingloba di preferenza la testimonianza della carità che porta la maturazione della fede, fino al punto in cui si trasmette senza imporsi, utilizzando il linguaggio della vita che si snoda poi con il linguaggio della dottrina.
    Una fede matura in una società secolarizzata deve riuscire a conciliare due esigenze in reciproca tensione: l’identità e l’universalità. Una fede dev’essere se stessa, non perdersi nella genericità dell’umano, per quanto elevata questa possa essere; ma deve, al tempo stesso, confrontarsi con l’umano nella sua più generale fisionomia e nelle sue più differenziate espressioni. Diciamo subito che, quanto è facile trovare formule retoriche che dissimulino brillantemente l’aporia, altrettanto è difficile affrontarla con umile rigore, con sobria obbedienza alla verità.
    Il problema di una fede matura nella società secolarizzata non è nuovo; si può anzi dire che è tanto stagionato quanto lo è questa società. Fin dall’origine del mondo moderno si è sentita l’urgenza di pensare la fede cristiana in modo che non entrasse in conflitto con la «ragione» che andava imponendo i propri diritti, ma anzi le si presentasse alleata. Il tentativo di conciliare fede e ragione, per dare alla fede uno statuto di maturità, ha avuto esiti molto diversi; ma i più caratteristici dello spirito moderno sono stati quelli in cui la ragione ha funzionato come criterio e la fede come materiale da plasmare in conformità a quel criterio. Del resto, se l’illuminismo consisteva, secondo una celebre definizione, nel coraggio di usare della ragione per uscire dalla minore età e affermarsi come persone adulte, alla fede non restava che adeguarsi a questo dettato, sforzandosi di diventare fede razionale; e cioè: o fede entro i limiti della ragione, oppure fede che pretendeva di scavalcare questi limiti ma giocando in casa della ragione, vale a dire esibendo prove razionali della propria credibilità. In ambedue i casi, era lo statuto di razionalità a garantire la portata universale della fede e, con ciò, la sua maturità.
    Con la «crisi della ragione» è mutato profondamente anche il criterio della maturità. Pur senza condividere un certo irrazionalismo oggi di moda, si deve riconoscere che nella «maggiore età» che la ragione illuministica attribuiva a se stessa si fondevano elementi di autentica maturazione umana e altri di ingenua presunzione, così come nel dichiarato universalismo di quella ragione la coscienza dell’umano universale si contaminava con un sentimento di eurocentrica superiorità.

    Fede come esperienza

    Il primo gesto di una fede matura dentro la secolarizzazione postmoderna (cioè post-razionalista) è dunque quello di rinunciare alla ragione come forma superiore di approccio alla verità; è quello di ritrovare il proprio posto all’interno del mondo delle esperienze. Perché è qui che il soggetto umano si trova a confrontarsi con il problema del senso: con le sofferenze e le gioie, con le delusioni e le gratificazioni, con le sconfitte e le vittorie, con tutto ciò che alimenta e sconvolge la vita umana fino all’irrompere della morte. La religione, ogni religione, è sempre stata l’attestazione del senso del mondo e della vita umana nel mondo: un’attestazione non teorica, non tesa sul filo di prove e controprove, non come il dipanarsi di un’argomentazione, ma come la partecipazione di uno sguardo. Che la fede cristiana ritrovi la propria sostanza di esperienza religiosa è il primo passo verso una sua rinnovata maturità.

    Fede come interpretazione dell’esperienza

    Ma, è il secondo passo, questo non significa l’abbandono della ragione, e tanto meno il suo disprezzo. Ritrovare il posto della fede come esperienza significa contestualmente ritrovare il posto della ragione come ermeneutica, cioè come interpretazione dell’esperienza. E poiché la fede cristiana fa parte delle religioni del libro, dove l’esperienza si dice e si riproduce attraverso corpi testuali (racconti e legislazioni, promesse profetiche e figurazioni utopiche, parola di giudizio e di grazia), la ragione ermeneutica è lettura critica di questi testi, riappropriazione del senso che essi veicolano all’interno di un mondo culturale diverso da quello che li ha visti nascere. Gli studi esegetici e teologici hanno prodotto, nell’ultimo secolo, una massa impressionante di informazioni e di prospettive idonee a una reinterpretazione dei due Testamenti. Non tutto, in questi studi, è ugualmente di buona lega, né tutto è accettabile dalla coscienza cristiana. Ma rifiutare in blocco quel lavoro in nome di una fede semplice, come fa il fondamentalismo o come fanno tante pastorali pigre, significa trasformare l’esperienza di fede in cittadella impermeabile non soltanto al confronto con altre esperienze ma a quegli aspetti dello stesso messaggio biblico che la lettura tradizionale ha, per le ragioni più diverse, o frainteso o rimosso. Una fede matura è una fede che accetta il rischio della verifica di se stessa, non per assecondare velleità attualistiche ma per rendersi più conforme alla Parola che la interpella.

    Fede come universalità

    Terzo. Fede come esperienza criticamente intelligente significa anche consapevolezza di non essere il tutto e, dunque, rinuncia a un atteggiamento nei confronti degli «altri» che abbia il tenore o il sapore di volontà di conquista.
    L’identità cristiana può rinunciare all’universalità? La risposta non può che esser negativa, dal momento che credere in Gesù Cristo significa professare che egli è il salvatore e signore di tutti. Ma si tratta di ripensare l’articolazione tra identità e universalità. Proviamo a dire: Gesù Cristo è il salvatore e signore di tutti, anche di coloro che non credono in lui. Fa parte del carattere paradossale della fede cristiana annunciare un evento che si irradia aldilà di essa, che raggiunge gli uomini anche al di fuori della sfera che quella fede disegna. Così possiamo, dobbiamo, dire che il Signore risorto abita le coscienze di tutti i soggetti umani, e li chiama per nome al compimento della loro vocazione, sia pure nell’incognito dell’esperienza etica o nella denominazione incompiuta delle religioni non cristiane.
    Allora, fa parte dell’identità cristiana matura questa coscienza di universalità che non vuol diventare cristianesimo planetario assorbendo in sé le alterità, ma celebra l’azione nascosta del Risorto dovunque vi sia una vittoria dell’amore sull’egoismo, della pace sulla violenza, della fraternità sulla divisione.
    Che cosa questo significhi nel rapporto con le religioni, con le culture, con le concezioni etiche, con le istituzioni politiche non può essere detto una volta per tutte, ma è frutto di un sapere che nasce dalla convergenza di più discipline. C’è però, accanto a questo sapere che scaturisce dalla pluralità delle competenze e che ha necessariamente un carattere collettivo, un diverso sapere che dovrebbe essere appannaggio di ogni singolo credente, e che si può chiamare sapienza o discernimento.
    È questa la quarta dimensione di una fede matura: la capacità di formulare giudizi sulle situazioni concrete in base a una luce che è intelligenza del cuore, penetrazione dello spirito (dello Spirito).
    Il discernimento è sempre stato un tratto del credere maturo; ma dentro il pluralismo caotico delle credenze e dei valori si allarga la sfera delle situazioni che necessitano di uno sguardo sapiente: esigente senza essere rigido, misericordioso senza essere corrivo, prudente senza pavidità, coraggioso senza avventurismi. Questo sguardo si nutre anche del sapere razionale, teologico e profano; ma esso cresce soprattutto su quella cattedra che è l’esperienza di vita vissuta in fedeltà all’evangelo. Se è ingannevole – lo abbiamo detto sopra – innalzare la bandiera della semplicità contro le esigenze e i rischi della fede critica, non lo sarebbe meno dimenticare che Dio riserva ai piccoli i doni della sua sapienza, e che c’è dunque un’infanzia evangelica irrinunciabile alla maturità della fede.

    Fede come testimonianza

    Finalmente, un frangente di maturazione della fede è pure l’odierna caduta del principio d’autorità. Tale principio costituisce da sempre il sostrato della trasmissione religiosa e morale: la conoscenza del mito nelle religioni di natura, quella del credo nelle religioni monoteistiche passa di padre in figlio come base di un vivere doppiamente buono: in quanto ordinato e in quanto capace di promettere felicità.
    Ora, quella che molti chiamano l’«uccisione del padre» nella società contemporanea rende ormai difficile per non dire impossibile questo stile di trasmissione del sapere fondamentale per l’esistere. D’altra parte, un ricupero parziale del principio d’autorità è forse indispensabile per la crescita del bambino e dell’adolescente; questa è, almeno, l’opinione sempre più diffusa di sociologi e psicologi. Ma l’ottica della fede, pur senza misconoscere quella della psicologia, propone l’intensificazione di un diverso veicolo pedagogico: la testimonianza. In particolare, la testimonianza di quella carità che è la base di ogni vivere buono, l’anima di ogni agire virtuoso, l’ispirazione di ogni esistere degno. Testimoniare la carità è portare la maturazione della fede fino al punto in cui essa si trasmette senza imporsi, perché avvia col linguaggio della vita quel discorso che deve poi snodarsi col linguaggio della dottrina.
    In tal modo, più che essere il surrogato dell’autorità, la testimonianza della carità è la pienezza della pedagogia di fede; e si potrebbero rovesciare i termini, dicendo che era l’autorità, all’interno di strutture sociali rigide, a surrogare l’intima autorevolezza della fede operante e testimoniante nell’amore. La caduta del principio d’autorità, se rende la trasmissione del messaggio cristiano più ardua, obbliga anche a creare dei presupposti più consoni alla sostanza del messaggio stesso: su tutti, quel presupposto che, nell’irradiazione della carità, è come l’autotestimonianza della verità stessa di Dio. Una fede matura è quella che, deposto l’assillo di pronunciare in continuazione il nome di Dio, crede nella potenza di quella parola silenziosa che lo lascia trasparire nella visibilità degli atti e dei gesti d’amore.


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